I moscerini danzanti di Marino Magliani
di Giacomo Sartori
In questo ultimo romanzo di Marino Magliani si ritrova una miriade di elementi che popolano i suoi testi precedenti lunghi e brevi, e chi è famigliare con la sua opera incessantemente in divenire e nello stesso tempo impantanata su se stessa ben li conosce. Come succede con gli altri autori che ritornano ancora e ancora sugli stessi avvenimenti non si ricorda con precisione dove si è già letto il tal episodio o si è incontrato il tal personaggio, e non è importante. C’è ovviamente la sua Val Prino, quella di adesso e quella della sua infanzia, i muri che cascano, i rovi, il fiume con i suoi odori e le sue evoluzioni, la Corsica che si fa vedere quando vuole lei, la madre con la sua bontà di Madonna, il padre con i suoi impieghi stagionali in Francia, i collegi freddi e tristi della gioventù, le notti brave giovanili sulla Costa Brava, seguite dagli inverni alle Canarie. E c’è la sua IJmuijden del dispatrio dell’età adulta, con il freddo e i venti implacabili, la sua smania di abbattere e ricostruire, l’inospitalità scontrosa degli abitanti, la solitudine, le passeggiata sulla spiaggia, la palestra, sembiante sudoroso di vita sociale, la chiesa cattolica frequentata da anziani, la vetrata del suo studio, osservatorio sulla pioggia e sull’esistenza. E c’è Tabucchi, c’è Vecchiano senza Tabucchi ormai morto, c’è un fantasmagorico Portogallo.
Certe cose si ha l’impressione di conoscerle meglio di come vengono descritte qui, perché le abbiamo già incontrate con più dettagli, certe altre invece si ha modo di vederle meglio, altre ancora le si scopre per la prima volta. Come i moscerini, non a caso esiliati, presenti nel bellissimo titolo, L’esilio dei moscerini danzanti giapponesi (Exorma, 2017), osservati con un accanimento cocciuto di animale che osserva, più che di entomologo.
C’è pure il conoscente enigmatico che spesso appare – con sembianze e attributi diversi – nel suo nord desolato, e le conversazioni monche e enigmatiche, apatiche e essenziali che con lui hanno luogo. E qui c’è anche una donna, costeggiata nel corso dell’infanzia, e poi rincontrata dopo, e con la quale sarebbe forse potuto succedere qualcosa di più, ma il rimpianto non attecchisce, si consuma su se stesso nelle ultime pagine.
E’ un va e vieni continuo tra i luoghi e i tempi, con i due poli rappresentati dalla solitudine spettrale del mare del Nord e la solitudine abitata e piena di odori e di contrasti tra luce e ombra della Liguria, tra l’età adulta e l’infanzia del dialetto, della magia ancora delle parole, degli sprazzi di felicità. Prima che arrivi la lingua italiana, la sua tirannia. L’ho vissuta come la violenza di una lingua nemica e la violenza della mia lingua che ora mi è talmente estranea da destabilizzare persino la mia identità.
Si intuiscono un malessere, i cui sintomi sono molto lievi (come l’allusione alle sedute con un terapeuta), e forse anche una paura, nominata solo nella frase che chiude il libro: Per tutto questo e altre cose che non so se succedono, a volte, ancora adesso, ho paura anch’io. Perché certo sotto la superficie di questo divagare incessante e senza piani prestabiliti tra i pensieri e le sensazioni e i ricordi, di questa pacatezza incapace di slanci ma accorata e curiosa, e pronta a stupirsi e a imparare, a tratti quasi divertita, ci sono abissi che non vengono espressi.
Non si sa cosa guidi gli esili, quelli dell’infanzia (È stata l’idea di trovare un antidoto, qualcosa di magico, contro l’oceanica malinconia di una valle azzurra e silenziosa, un desvivere altrove, il diritto di partecipazione a un posto pieno di tuoi simili e di voci. Tutto lì, e non è certo da poco cosa pretende il bambino.) e quelli dell’età adulta (Mi piacerebbe poter dire che è l’esilio perfetto, ma poi mi viene sonno.). L’unica cosa certa è che sono ineluttabili, e che gli entusiasmi non sono più possibili, una volta adulti. L’infanzia è un esercizio di sopportazione, il giacimento segreto di entusiasmo per quando il resto delle stagioni proveranno a sfondare.
Mentre è possibile la malinconia, è anzi il sentimento più familiare: Ma lo sai professoressa che mi sembrava di morire di malinconia. Bisogna imparare a conoscerla e a gestirla. Andandotene volontariamente speri di sbarazzarti della malinconia (ci si nasce con la malinconia), di lasciarla da qualche parte sotto un portico. Ecco, cosa fai, scappi via. Non sai che sarà l’unica cosa che porterai con te. E a un certo punto pensi di averla fatta franca. Miracolo, in collegio la malinconia ti viene meno, molto meno, e questo è pericoloso, il tranello, la malinconia è la stessa di sempre, ma assieme a lei è sopraggiunta la nostalgia, e allora la voglia di tornare a casa ti nasce dentro come una speranza.
La nostalgia appare anche lei, al seguito della malinconia, ma è più selvatica, non si lascia acchiappare. La nostalgia non la senti quando sei lontano, ma quando sei lì, al tuo paese, e sai che fra poco te ne vai. Non si può viverla. Ma sul treno è diverso, ci gioca la nostalgia delle campagne che passano nel finestrino e non scenderemo mai a guardare.
Ma quel che ci inchioda al testo, come sempre con Magliani, è la bellezza delle frasi, la loro semplicità e abissale verità. Le ore odoravano di Piemonte, di bosco e di una pioggia vecchia che durava fin sotto le coperte. La loro opacità concettuale, la loro capacità di cogliere gli ingredienti della vita allo stato bruto, non ancora digeriti dalla razionalità che tutto uccide e normalizza, ancora vivi, ancora attivi. Ora che il Nord è meno rigido vago per le dune, alla ricerca di un chiarore.