Su “La stanza di Therese” di Francesco D’Isa

"Tre chiese", elaborazione digitale di F. D'Isa, tratta dal libro
“Tre chiese”, elaborazione digitale di F. D’Isa, tratta dal libro

di Ornella Tajani

J’ai de l’infini sur la planche
J. Laforgue

Si può vivere d’infinito, sfamarsi d’infinito, sulla terra e nelle sfere celesti c’è abbastanza infinito da saziare mille animi geniali, scriveva Antonin Artaud nel suo libro su Van Gogh. Potrebbe essere questa la risposta di Therese, la protagonista dell’ultimo romanzo di Francesco D’Isa, alla sorella che, dopo uno dei suoi «insulsi monologhi», le chiede quale sia la «giusta dose» d’infinito.
Il romanzo si compone di una parte testuale intervallata da immagini – disegni dell’autore e non, schemi, diagrammi – e frammenti di citazioni “incollate” sulla pagina, che dialogano con la narrazione vera e propria creando un contrappunto funzionale, oltre ad offrirsi al lettore come un godibile repertorio da scoprire (Wittgenstein, Aristotele, Guénon, fra gli altri). La stanza di Therese è la rivisitazione contemporanea di un romanzo epistolare, in cui non c’è spazio né tempo per delle vere e proprie risposte, né si ha intenzione di inchiodare il lettore a una canonica alternanza di voci: così, alla lunga e frammentata lettera che Therese le scrive, la sorella risponde con degli appunti a margine, che risaltano graficamente in corsivo sul bordo della pagina; sono citazioni aggiuntive, domande, glosse, chiose. Il tono e la brevità di questi commenti – ironici, stizziti, pedanti o fastidiosi – restituiscono bene il colore del rapporto fra i due personaggi, «per vent’anni sorelle, per cinque amiche e per tre sconosciute»; sorelle diversissime, interpreti di un ruolo al quale forse sono state costrette anche dal riflesso che l’una proiettava sull’altra.
L’infinito sul quale si apre il romanzo, vera e propria ossessione di Therese, nasconde un’incessante interrogazione della ragazza sull’identità, che non potrebbe trovare migliore interlocutrice se non nella figura della sorella, doppio genetico per antonomasia, «la più simile delle differenze», per giunta qui incarnata in una scienziata in carriera, solare, positiva, razionale, tutto l’opposto della narratrice. Per riflettere sull’infinito, Therese si rinchiude in una camera d’albergo per mesi: la reclusione appare così come la condizione fisica dell’indagine metafisica, che per rovescio comporta una profonda introspezione. Lei, che ha imparato a contare con le mele, percependo con esse la prima idea di infinito, sembra decidere di colpo di rinchiudersi nella mela stessa, e viene in mente Henri Michaux quando scriveva: «Je mets une pomme sur ma table. Puis je me mets dans cette pomme. Quelle tranquillité !».
Therese però è tutt’altro che tranquilla. L’identità, le relazioni, il tempo la tormentano, tanto da diventare i tre poli intorno ai quali si costruisce il suo viaggio filosofico, senza dimenticare mai che ogni identità contiene una contraddizione fondamentale: «Perché esista qualcosa, questa deve essere diversa anche da ciò che non esiste, dunque esiste tutto. Se esiste tutto però, esiste anche che non esista tutto». Abbracciando dicotomie ontologiche classiche, il discorso si fa vertiginoso, evocando le astrazioni della geometria solida, tanto che in alcune pagine sembra di precipitare in un film d’animazione di Piotr Kamler (ad esempio in questo).
«Sono portata ad accerchiare la verità più che a isolarne un aspetto», scrive ancora Therese nelle belle pagine finali; ma accerchiare una verità cangiante, che resiste soltanto finché non la si tormenta, avrebbe detto Dürrenmatt, è un compito che evoca l’eterna salita sulla montagna del Sisifo di Camus. L’assurdo, insinuatosi lentamente fra le righe, esplode nel finale in tutta la sua inevitabilità; nel momento in cui sembra scoprire il paradiso, «una luce oscura in cui si muore di una morte meravigliosa», la protagonista aggiunge: «ma il paradiso è comunque una prigione: se sia la ragione che la sua negazione mi portano alle stesse conclusioni, sono costretta a credere nell’assurdo».
«L’assurdo mi persuade», afferma Therese poco prima di concludere. Seguendo le parole di Camus, l’assurdo nasce dal confronto «fra il richiamo umano e il silenzio irragionevole del mondo»; è una scissione che logora l’individuo, ma che al tempo stesso inaugura in lui il movimento della coscienza: nella frattura, l’uomo si desta. Tale frattura costituisce un punto di partenza, non già una conclusione, ed è per questo che alla fine, oltre la firma che sigilla questa lunga lettera-romanzo, non è azzardato immaginare Therese, con Sisifo, felice.

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Ornella Tajani insegna Lingua e traduzione francese all'Università per Stranieri di Siena. Si occupa di studi di traduzione e di letteratura francese del XX e XXI secolo. È autrice del saggio "Tradurre il pastiche" (Mucchi, 2018). Per Marchese editore ha tradotto e curato L'aquila a due teste di Jean Cocteau (premio di traduzione Monselice "Leone Traverso" 2012) e Tiresia di Marcel Jouhandeau (2013). Ha scritto una tesi di dottorato in Letterature comparate sul Kitsch e il romanzo contemporaneo ed è uno dei membri fondatori del collettivo italo-francese di traduttrici meridiem. Suoi articoli e recensioni sono apparsi anche su Alfabeta, L'indice dei libri del mese, Le parole e le cose. Seguendo questo link, la lista completa dei suoi post: https://www.nazioneindiana.com/tag/ornella-tajani/ - Cliccando su "View all posts", una lista parziale