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Letteratura e memoria/2: Michele Mari

di Stefano Gallerani


Michele Mari
Leggenda privata
pp. 171, € 18,50
Einaudi, “Supercoralli
Torino, 2017

La riedizione (rivista e aggiornata) dei saggi contenuti ne I demoni e la pasta sfoglia (Il Saggiatore; già Quiritta e Cavallo di ferro) e quella del romanzo leopardiano Io venía pien d’angoscia a rimirarti (Longanesi prima, Einaudi ora) ha preparato, nei mesi scorsi, l’uscita dell’ultimo libro di Michele Mari: Leggenda privata (Einaudi, “Supercoralli”, pp. 171, € 18,50). Tre anni dopo l’aperçu ottocentesco di Roderick Duddle e sette dopo la psichedelia letteraria di Rosso Floyd, Mari vira su se stesso come già esplicitamente nel suo romanzo più vertiginoso, Rondini sul filo (Mondadori, 1999) o, in maniera più trasversale, nel volumetto fotografico Asterusher (Corraini Edizioni, 2015), non a caso sottotitolato “autobiografia per feticci”. Pure, in questo Leggenda il gesto, inconfondibile come la voce, si traduce da subito in una programmatica critica elusiva del suo proprio mandato (raccontarsi a un indistinto pubblico di lettori), dando vita a una fantasmagonia (così un suo titolo del 2012) i cui poli sono, vorticosamente, quelli del vero e del falso. Di qui l’escamotage che dà origine al racconto, ovvero l’essere stato all’autore, lo stesso, commissionato, o più esattamente istigato,  dai sadici vertici di una non meglio precisata Accademia dietro i quali (personaggi, o piuttosto figure, a chiave, sì, ma dalla complessa serratura) ciascun lettore può intra-leggere chi vuole; non la sola committenza della fatica, peraltro, posto che lo stesso compito gli viene affidato anche da un’altra Accademia, quella dei Ciechi della Cantina, più grottesca ma non meno inquietante della setta omonima che in Sopra eroi e tombe, di Ernesto Sabato, ordisce trame ai danni del mondo; entrambe le bizzarre istituzioni, ad ogni modo, mosse dall’ansia di sapere “chi sono, come se avermi sempre osservato non contasse nulla: l’idea è che io finga anche quando sono da solo, che mi muova e faccia gesti come uno che finge”. Da subito, insomma (queste righe sono tratte dalla prima pagina), Mari scopre le carte, ma solo per dimostrare che a telesina non si bara meno che giocando il poker tradizionale; perché scrivere è e resta, soprattutto quando si confondono deliberatamente i piani della memoria e della sua trasfigurazione nel tempo, ovvero il ricordo, un azzardo: un bluff. In altre parole: una macchinazione verbale, di modo che, nella rievocazione, i nomi, i luoghi e gli oggetti – che sono massimamente quelli di un’infanzia privata – diventano serie, come i souvenir di Michel Leiris nella Regola del gioco: stringhe che si ripetono di capoverso in capoverso e da cui germinano associazioni o scaturiscono digressioni, riflessioni e confutazioni dall’ieri per oggi: quale la radice di un comportamento, quale la sua declinazione nell’età adulta? O quale, in termini psicologici, la sua sublimazione? Ogni cosa mette in scacco la tendenza odierna a fare della vita dello scrittore ben più che il rovescio – o negativo – della sua attività artistica: qualcosa a metà tra la confessione e lo smascheramento. Ecco il perché di quelle pagine, sembra sussurrare il lettore-investigatore con compiaciuta crudeltà; ecco da dove quell’immagine ricorrente. Eppure, proprio a questo si oppone l’oltranzismo stilistico di Mari, il suo rostro linguistico: confesso – stavolta a sussurrare è lo scrittore alla sbarra -, ma per il fatto stesso di confessare non è detto che sveli la verità. Già, perché a scavare nemmeno troppo le righe, una volta che l’esperienza si fissa in un giro di frase (inconsueto come l’italiano che lo tesse), non si danno più né vero né falso, né giusto o sbagliato, ma un indistinto verosimile in cui i nodi da sciogliere (il padre Enzo, la madre Gabriela, le prime pulsioni sessuali per la cameriera della trattoria Bergonzi) chiedono il sacrificio dell’esibizione dell’io: un io esplicitato, irriso ma anche, e più di ogni altra cosa, difeso: “la mia autobiografia – scrive Mari – sarà il testamento con cui li autorizzerò a sapermi e, saputo, impazzirò. Ovvero, finissimi esegeti, interpreteranno la mia scrittura, e mi ci metteranno davanti come a uno specchio, e allora altro che impazzire, allora mi ricongiungerò tutto e per sempre all’angoscia che mi tempesta da prima che nascessi”. Ogni atto di questa indagine-processo, perciò, da quello dello scrittore a quello del lettore, si rovescia nel suo ineffettuale contrario, anche quando all’apparenza si trincera dietro un principio: “il mio lievito romanzesco è nella forma, non nei fatti, su questo punto le mie idee non potrebbero essere più chiare”. Ma cosa succede quando la forma diventa fatto? Cosa, quando le idee, da chiare, si intorbidano fino a creare, come nella genealogia familiare in cui il nonno somiglia al nipote e il padre al figlio, solo l’illusione dell’identità? Succede che i sogni reclamano lo statuto del reale, il quotidiano si popola di fantasmi e la caduta libera di Rondini sul filo diventa, in Leggenda privata, un’evoluzione acrobatica: una prodigiosa, disincantata prova di abilità.

 

[Questo articolo è apparso su “Radar” de L’Unità, il 20 aprile 2017]

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