Neanche fare, neanche vedere. Sul cinema di Magdalo Mussio
di Giorgiomaria Cornelio
Per la casa editrice Quodlibet è stata pubblicata recentemente un’antologia di scritti critici dal titolo Marginalia, a cura di Paola Ballesi, che traversa l’opera di Magdalo Mussio sul filo d’un discorso pittorico.
Mussio è stato il poeta della memoria randagia, della memoria a non concludere, cioè di tinte, umori e timbri dati come incrostazioni, tracciati, resti indecisi di senso: “in principio era la rovina”.
Non si tratta di indugiare nel conforto e nella sartoria della catastrofe, di spacciarsi, cioè, ancora per spacciati, ma di disorbitare l’assunto e il detto comune, di dire: ci troviamo, come sempre, alla fine dei tempi.
Così pure è il suo cinema: uno sforzo di fissare, in un atlante di spazi e di
stanze animate, un etimologiario di termini devoti all’origine eppure scomparsi ed evasi, il cui senso è sospeso nell’attesa di un artefice che ne sappia riconoscere la musica.
(Senza titolo di Magdalo Mussio)
Tre film, tra gli altri: Il potere del drago (1971), Il reale dissoluto (1972), Umanomeno ( che nel 1973 vinse il Nastro d’Argento), tre violazioni assemblate in forma di fiaba o forse di riaffioramenti mitici “sul versante ghiacciato del ritmo”.
Bisogna innanzitutto dire che Mussio fu collaboratore in Canada di Norman Mclaren, i cui lavori sono già pareti di segni, di antefatti obliterati e messi in circolo, in gioco, giocati e contesi allo steso tempo con lo spazio vuoto e con la misura del suono (Blinkity Blank, del 1955).
“E Bisanzio è distrutta” tuona una voce ne Il potere del drago. Ma non c’è arresa o cedimento a questa distruzione: non lo statico scandagliare dei ruderi ma piuttosto una convulsione della superficie, un suo pedinamento ad indagare una specie di enigma sismico di cui s’affrontano le tracce e le tracce delle tracce, i rilievi e i numeri dimenticati. Ancora sulla questione della profondità (della superficie, dell’epidermide): ugualmente nel disegno e nello schizzo, il tratto è conteso tra la memoria e la memoria della mano. Derrida apre il suo La memoria di un cieco con un frammento di Diderot:
«Scrivo senza vedere. Sono venuto, volevo baciarvi la mano. È la prima volta che scrivo nelle tenebre senza sapere se formo dei caratteri. Dove nulla ci sarà leggete che vi amo»
Regno della scancellatura e della sopraffazione, ma anche fedeltà all’ipotesi e agli itinerari incerti: così come Cy Twombly dipingeva al buio o con la mano sinistra (rapendo così il polso all’automatismo della protesi) quadri visitati da memorie verbali, anche Mussio battezza nel suo cinema un elenco di inventari animati e sconnessi come preistoria degli oggetti: nominarli è chiarirne il carattere -di stampa, di riproduzione- affollato di imposture: corpo certo o il luogo di una perdita. Ma nominarli è anche e soprattutto porne la questione in essere, impuntarne il senso e l’eclissi. “Neanche fare, neanche vedere, per proprio riscuotere della vita superflua quel poco di chiarore che essa può pagare” scrive Emilio Villa.
(Apollo di Cy Twombly)
Film di creature antropomorfi e di ibridi fecondi (come quelli che poi Mussio illustrerà ne Il numero dimenticato con il testo delle memorie ortogonali per Giovanna Sandri), di ibridi inchiodati alle scenografie araldiche, alle macchine industriali o ancora a giostre ospitanti vicende e strumenti del mito, film infine di figure che continuamente si androginizzano, si danno (visitandosi di fotogramma in fotogramma) un appello, un’origine nuova: “(…) e si disse che la Terra è tutta torbida, e sotto di essa giace un altro continente” ( Il reale dissoluto).
In questo senso (in questo succedersi di verifiche incerte) l’opera di Aby Warburg, il suo atlante Mnemosyne (dove affianca-monta insieme tavole da ogni epoca) , non è solo precedenza della grafica animata di Mussio ma precedenza stessa sul cinema, sua divagazione e sconcerto (uno storia del cinema inizierebbe già prima dei Lumiere, come tra l’altro ha indicato Saint Pol Roux nel suo Cinema Vivente: “(…) la prima presentazione ebbe luogo presso Nabucodonosor. Una sera, sul muro del palazzo che faceva da schermo, si poté leggere in caratteri luminosi: Mane Thecel Phares. L’autore-proiezionista del film altri non era che Daniele dal profondo della fosse dei leoni. Poi vennero le lingue di fuoco. E di seguito, fino ai fratelli Lumière, dal nome così appropriato.”)
Opera dell’evento e del solco, della materia in lotta, di contesa e fedeltà sregolata verso il segno filmico, liturgia della distruzione e proposta d’etimo ( coltivato e irrisolto), la grafica di Magdalo è una parentesi che instaura col cinema d’animazione una conversazione rimasta tutt’ora priva di approfondimento. Anche per questo urge uno studio che sappia vivificarne la misura e il contributo, affinché il silenzio, come spesso Mussio ha ripetuto, “apprenda a non tradirsi nel tacere.”