L’ironia socratica

di Emanuela Monti

La scala di pietra si arrampicava ripida nell’oscurità, tra le pareti del palazzo. Salii al secondo piano e suonai il campanello. La porta si aprì senza preavviso, senza che avessi avuto modo di percepire i passi del maestro di yoga. Mentre mi stringeva la mano, intimidito dall’ondata di luce dell’appartamento e dalla postura ieratica di Andrea, abbassai lo sguardo e vidi che era a piedi nudi. Il profumo di incenso invase il pianerottolo e mi stordì. Proprio in quel momento incrociai il blu oltremare negli occhi di una ragazza che mi sgusciava accanto lungo le scale, mentre Andrea diceva: “Bonjour, Charlotte. Tu viens?”
“Pas aujourd’hui. Un de ces jours”
Uno di questi giorni che cosa? Uno di quei giorni avrebbe accettato l’invito a cena di Andrea? L’avrebbe accompagnato a una mostra sull’arte orientale? Avrebbero passeggiato a piedi nudi lungo una spiaggia? Li immaginai in tutte queste situazioni, in un atteggiamento di intimità contenuta, preludio di un’altra intimità, ben più sfrenata, e provai un moto d’invidia.
Invece, uno di quei giorni, un paio di settimane dopo, Charlotte arrivò, silenziosa come una gatta. Scivolò al mio fianco e si sdraiò su un telo di spugna a righe bianche e blu, ricordo della sua Camargue. Tra un asana e l’altro percepivo il suo respiro ritmato e tranquillo, come quello di una bambina persa nei suoi sogni.
Anche Charlotte, invece, era attenta ai miei movimenti. Con la coda dell’occhio mi guardava mentre assumevo la posizione del cobra o quella della locusta o quando mi rilassavo nell’asana del loto.
Me lo disse pochi giorni dopo. Non era tipo da mettere tempo in mezzo. Né da farsi intimorire dalla differenza d’età. Anzi, la consapevolezza di essere tanto più giovane di me le dava una baldanza che non si permetteva con i coetanei.
Aveva un’aria delicata, ma negli occhi grandi e cupi, blu oltremare, c’era qualcosa di torbido, qualcosa che mi faceva pensare a una prostituta bambina nell’Indocina della Duras. Come se quegli occhi avessero visto del mondo assai più di quanto si convenga alle ragazze della sua età.
Eppure, quando mi disse che appena mi aveva incontrato sul pianerottolo, il giorno della mia prima lezione di yoga, aveva sentito che ero l’uomo a cui era destinata, che ero quello che aveva sognato fin dall’infanzia, sembrava una ragazzina trasparente e romantica, le cui illusioni non fossero mai state infrante. Mi disse che avevo il profilo nobile e lo sguardo aperto di un filosofo greco. “Staresti bene sulla copertina di un libro di filosofia. Le studentesse si appassionerebbero subito alla filosofia, a partire dai presocratici. Per me le immagini sui libri sono sempre state fondamentali. La geografia, per esempio, non mi è mai piaciuta, perché sul mio libro delle elementari c’era Cristoforo Colombo e Cristoforo Colombo era brutto.”
Non mi pareva che Cristoforo Colombo fosse particolarmente brutto, ma il giudizio di Charlotte era insindacabile. Non c’era nessuno che potesse farle cambiare idea quando si faceva un’opinione su qualcosa. Ma, dopotutto, al momento non mi dispiaceva che fosse così. Mi pareva una garanzia a mio vantaggio: avrebbe conservato la convinzione che io avessi il profilo nobile e lo sguardo aperto di un filosofo greco e che fossi l’uomo a cui era destinata. Ma, se era vero che nessuno poteva farle cambiare idea, Charlotte poteva comunque cambiare idea, seguendo un misterioso processo interiore, innescato dalla sua istintività.
Cominciai a intuire che non era affatto trasparente, e tantomeno stabile, quando scoprii che era bulimica.
Era riuscita a tenermelo nascosto per diversi mesi, nonostante passasse molto tempo in bagno e lasciasse scrosciare l’acqua della doccia per decine di minuti, per coprire il rumore dei conati di vomito.
Ma dal momento in cui lo scoprii mi legai ancora di più a lei. Volevo salvare la mia bambina. La volevo strappare al demone dell’istinto, liberarla dall’incapacità di governare l’impulso a ingurgitare più di quanto il suo organismo potesse tollerare, spinta dall’illusione di riempire il vuoto che aveva dentro.
Pensavo che sarei riuscito a guarirla abituandola alla disciplina. E cominciai dallo studio. La convinsi a iscriversi all’università e ogni pomeriggio lo dedicavo allo studio, insieme a lei. Mi guardava ammirata, nella veste di un filosofo greco che spaziava in tutti i campi del sapere e usava a piene mani il metodo socratico.
Ma come levatrice dovevo valere piuttosto poco, perché la maieutica applicata a Charlotte sortì ben pochi risultati. Alla soglia di ogni esame Charlotte si ingozzava fino a scoppiare e poi passava la notte in bagno a vomitare. Così, puntualmente, mancava l’appello dell’esame. Ora non si prendeva neppure più la briga di far scrosciare l’acqua della doccia. Anzi, pareva che i suoi conati di vomito fossero un tributo dovuto a me, perché le perdonassi a priori l’esame mancato.
Dopo qualche mese abbandonai il metodo socratico e l’ironia. Diventai un maestro meno flessibile e cominciai ad assumere un tono cattedratico.
Mi dicevo che anche in questo Charlotte andava disciplinata. Doveva capire e rispettare le gerarchie. “Troppa confidenza tra il maestro e l’allievo porta a una confusione di ruoli controproducente”, mi dicevo.
Ma quel tardivo rigore funzionava ancora meno del metodo socratico. Il blu oltremare negli occhi di Charlotte si faceva via via più cupo e mandava bagliori di odio.
Mi guardava come una figlia adolescente guarda un padre autoritario. E come una figlia adolescente usava la mancanza di senso di responsabilità per punirmi. Sempre più spesso rientrava in ritardo dai suoi giri misteriosi per la città e non si presentava alle lezioni.
Sentii che la stavo perdendo e, nel tentativo disperato di legarla a me in modo definitivo, decisi di sposarla. Anzi, dato che aveva appena diciannove anni, andai a chiederla in sposa.
Feci finta di non vedere le lagune oscure, dai riflessi di ghiaccio, della Camargue, che somigliavano tanto agli occhi di Charlotte, quando si facevano più cupi. Sorvolai sulla frase di suo padre: “si tu veux la damnation, tu peux l’avoir” e comunque, se mi veniva in mente, mi rassicuravo pensando che l’aveva pronunciata ridendo. E poi Charlotte in quei giorni in famiglia era deliziosa con me. Mi presentava orgogliosa ai parenti e agli amici e la fierezza traboccava dai suoi occhi, fino a tingersi di sfida, quando mi stava al fianco di fronte a suo padre.
Durante il viaggio di ritorno era come se Charlotte fosse già la mia sposa, mentre passavamo tra le distese di lavanda della Provenza, in una primavera brillante.
Eravamo felici e avevamo dimenticato ogni attrito per via dello studio.
Se l’avessi lasciata in pace forse avremmo conservato quella felicità. Ma la volevo salvare. E appena tornati a casa, dopo che ci fummo sposati, ricominciai con lo studio e con il tentativo di disciplinarla.
Così Charlotte prese a ritardare sempre di più. Non tornava neppure per cena, a volte. E appena la rimproveravo, lei, con un gesto di difesa ormai automatico, spalancava il frigorifero e si metteva a mangiare come una furia.
Smisi di proporle le sedute di studio. Smisi anche di rimproverarla perché vagabondava per la città e non rientrava per cena. Ma la notte, puntualmente, si rannicchiava al mio fianco.
Finchè una sera non tornò. Alle due di notte non era ancora rientrata. La cercai dappertutto. Telefonai a parenti ed amici. Chiamai i carabinieri. Nessuno sapeva nulla.
Aspettai come un lupo in gabbia per tutta la notte e finalmente, all’alba, Charlotte mi telefonò.
Aveva una voce strana. La voce di una bambina. “Ora torno a casa. Sto bene”, mi disse.
Feci appena in tempo a farle una domanda: “Sei stata con un altro? C’è un altro?”
“Oui”, pigolò.
Oui. Una sillaba fatta tutta di vocali, un suono dolce e mieloso che deflagrò come una cannonata, un lamento acutissimo, un grido di dolore insostenibile, dentro di me.
A quel suono seguirono le valigie fatte in fretta e furia, una boccetta del suo profumo che scagliai contro le piastrelle del bagno, il rumore di una macchina che la portava via.
Non la vidi quella macchina. Non vidi chi la portava via. Solo qualche anno dopo seppi che da quel giorno in poi Charlotte aveva vissuto felice con un ragazzo appena più giovane di lei, che lavorava come apprendista dall’idraulico. Era guarita dalla bulimia e si era laureata a pieni voti, con una tesi sull’ironia socratica.

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daniele ventre
daniele ventre
Daniele Ventre (Napoli, 19 maggio 1974) insegna lingue classiche nei licei ed è autore di una traduzione isometra dell'Iliade, pubblicata nel 2010 per i tipi della casa editrice Mesogea (Messina).