Nitimur in vetitum: Tabù di Giordano Tedoldi

 

di Alfredo Zucchi

Il romanzo nicciano è un genere a parte: una narrazione di pensiero, il cui motore ha a che vedere con la figura dell’eticità dei costumi – la morale, si usa dire semplificando, ma così facendo si riduce e si strozza la questione. Svetta tra i romanzi nicciani L’uomo senza qualità di Robert Musil.

Negli ultimi anni in Italia sono apparsi due notevoli romanzi nicciani: Contronatura di Massimiliano Parente e Tabù di Giordano Tedoldi, presentato da Tunué in occasione del trentesimo Salone del Libro di Torino. Mentre Parente in Contronatura prende la via cafonal,  la scelta di Tedoldi è più letteraria: affonda le radici nel genere del dramma borghese per piantarvi il seme della discordia –  per sfondare e attraversare il genere, appropriandosi, passo a passo, di forme e contenitori diversi (simbolismo, espressionismo, rappresentazione sacra). In qualche modo Tabù ripercorre, al suo interno, le stesse tappe che abbraccia il teatro di Strindberg (tra i nicciani della prima ora: non tedesco, non contaminato dal nazismo, non francese né esitenzialista – una rarità).

Le convenzioni narrative del dramma borghese (la lingua, i personaggi, il contesto, i conflitti) sposano alla perfezione il veleno che il narratore delle prime tre parti del romanzo, Piero Origo, ha nella lingua. Si adattano ai suoi fendenti, si lasciano martoriare. Il movimento (in discesa: è vera catabasi) che porta Piero da una casa borghese, dove scopa la moglie del suo migliore amico, alla rovina è vertiginoso. Piero è affilato come il rasoio di un Occam autolesionista[1]: il suo desiderio distrugge e ricrea; il suo pensiero non accetta mediazioni o consolazioni – davanti al dubbio supremo, non esita a colpire e colpirsi. Piero crea dubbi, fenditure, ferite in chi lo circonda – dubbi sui valori, sulle leggi che si ritengono inviolabili, sulla stessa desiderabilità del punto di vista normativo. È un personaggio col martello. La forma delle prime tre parti del romanzo è una grotta o uno scavo fino al cuore pulsante delle cose.

Ci sono tuttavia almeno due Nietzsche. Quello che Tedoldi interroga, e a cui attinge, è il Nietzsche novecentesco: apollineo e dionisiaco, anticristo, il Nietzsche di Bataille (noi senza paura/ tante aurore devono ancora risplendere). L’altro Nietzsche, quello del ventunesimo secolo – i cui pensieri speculativi vengono oggi ripresi e citati nel quadro della teoria dell’evoluzione, da fisici teorici nel contesto della meccanica quantistica – nessuno l’ha ancora interrogato in letteratura. E di fatto, proprio quando Tedoldi si allontana inesorabilmente dalla cornice del dramma borghese – non nei temi ma nella forma: dalla quarta parte in poi – il libro comincia a soffrire.  La prima avvisaglia è l’emergere dello strato metatestuale, prima sopito o innocuo (i cambi di voce, il libro che si fa oggetto e soggetto narrativo, l’improvviso tu al lettore, le false attribuzioni, la cifratura dei toponimi).

La seconda riguarda gli inserti fantastici. C’è modo e modo di interrogarsi su “cosa sia il reale” – l’indagine vorticosa, spiazzante, violenta e delicatissima della prima metà del libro, poggiata sulle basi salde del realismo letterario, fa spazio a una forza diversa nella seconda metà, una forza che proprio mentre impenna nel fantastico non riesce a prescindere dalla traccia della verosimiglianza: vuole una prova – per quanto inverosimile e tirata per i capelli essa sia – una prova dirimente. Sembra che nei passi finali, e in due svincoli decisivi, l’autore non sia riuscito a inventarsi di meglio, che abbia voluto, a ogni costo, costringere la storia in una direzione, quando forse quest’ultima intendeva prendere altre pieghe.

(Un anno fa, in un intervista via posta elettronica in occasione della ristampa di Io odio John Updike, quando ho citato una frase di Julio Cortázar in cui lo scrittore argentino indica una differenza ontologica tra forme narrative brevi e forme estese, Tedoldi ha risposto: «Il platonismo è una cosa seria, troppo seria per lasciarla in mano a Cortázar.» Mi pare invece che una dose del tunnel cortazariano avrebbe solo giovato alla chiusa di Tabù – in qualche modo, in narrativa, la chiusa di una testo, la sua possibilità e la sua esecuzione, è la prova ontologica).

 

Nonostante questi dubbi – questi strappi che costringono il lettore fuori dal flusso fino a quel momento impetuoso, irrefutabile del testo – anche nella seconda metà del libro si verificano momenti di puro rapimento. La voce del narratore principale delle parti 4-6, Padre Eusebio Kuhn – le sue esperienze, la sua moralità, la sua percezione distorta – immersa nella rovina di Piero, allarga ulteriormente lo spettro – se Piero può tutto e niente, vuole tutto e niente, il desiderio trattenuto e filtrato di Eusebio dona al libro la spinta essenziale del voyeurismo. L’intreccio tra i due personaggi rivela inoltre un altro tema nitzscheano fondamentale: l’amicizia virile. Un legame forte e debole allo stesso tempo, in cui, a differenza della relazione di Piero con Domenico, suo sedicente migliore amico, non si fugge il conflitto ma lo si cerca costantemente – in cui la serenità è una ricompensa, una rarità post bellum.

 

La capacità di Tabù  di soggiogare il lettore sta anche, forse soprattutto, nella precisione e profondità con cui Tedoldi descrive le dinamiche relazionali. Solo, tête-à-tête, trio, partouze: c’è tutto nel romanzo. C’è una capacità di penetrare i pensieri e le voglie di ognuno e di tutti, di giocare col binomio sacro oscenità-evidenza con maestria e naturalezza – un acume psicologico che ammalia, seduce e feconda come una serpe.  In questa traccia, in cui ogni gesto, ogni desiderio, è spontaneo e ipocrita insieme, spiccano le pagine sull’amore di Piero per Emilia, la moglie del suo migliore amico – l’amore a distanza, ormai ritualizzato, idolatria pura  e morte viva; allo stesso modo spicca il gesto fondatore della relazione tra Piero e Eusebio, principio primo dell’amicizia dionisiaca. E in realtà ognuno dei personaggi principali porta con sé un carattere unico e indimenticabile (Antonia l’amazzone, Dolly il furetto di dio, Marco il rosicone, Eva Kate Moss, Messabianca la Pura), possiede una forza che viene dalla riduzione delle variabili a un unico elemento essenziale. Questa riduzione agisce come un detonatore di conflitti atomici tra i personaggi – le esplosioni, a loro volta, lasciano strascichi perduranti, irreversibili.

 

***

 

Tabù
Giordano Tedoldi

Latina, Tunué, 2017

  1. 360

 

 

 

[1] Occam autolesionista fa l’amore con gli animali: rappresentazione non-naturalista, fedele, di Nietzsche all’apice dell’euforia torinese.

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mariasole ariothttp://www.nazioneindiana.com
Mariasole Ariot (Vicenza, 1981) ha pubblicato Anatomie della luce (Aragno Editore, collana I Domani - 2017), Simmetrie degli Spazi Vuoti (Arcipelago, collana ChapBook – 2013), La bella e la bestia (Di là dal Bosco, Le voci della Luna 2013), Dove accade il mondo (Mountain Stories 2014-2015), Eppure restava un corpo (Yellow cab, Artecom Trieste, 2015), Nel bosco degli Apus Apus ( I muscoli del capitano. Nove modi di gridare terra,Scuola del libro, 2016), Il fantasma dell'altro – Dall'Olandese volante a The Rime of the Ancient Mariner di Coleridge (Sorgenti che sanno, La Biblioteca dei libri perduti 2016). Nell'ambito delle arti visuali, ha girato il cortometraggio "I'm a Swan" (2017) e "Dove urla il deserto" (2019) e partecipato ad esposizioni collettive. Ha collaborato alla rivista scientifica lo Squaderno, e da settembre 2014 è redattrice di Nazione Indiana. Aree di interesse: esistenza.