Infrangere i tabù è un tabù
di Francesca Fiorletta
«Hai osservato così a lungo l’amore che hai finito per trovare una teoria per cui l’amore è osservazione».
E questo è Piero Origo, in effetti: un uomo che osserva, un uomo che medita, che – diremmo pure in gergo colloquiale – “si fissa”, s’impunta su certe idee malsane e le rende il baluardo della propria intera esistenza, e tenta in ogni modo di perseguirle, maniacalmente, fino allo strenuo delle forze, prova a spingere ogni più sistemica, forse anche in nuce già perversa situazione, fino alle estreme, decisive e drastiche conseguenze, che risultino poi essere possibili o impossibili poco importa.
Piero Origo è l’indomito protagonista (pazzo? ammalato? pateticamente insincero, sicuramente oltraggioso, pressoché squallido, ripugnante persino) di questo “Tabù”, il complesso e articolato romanzo di Giordano Tedoldi edito da Tunuè, nella collana di narrativa diretta da Vanni Santoni.
Un uomo, dicevamo, totalmente preda dei suoi istinti più carnali, ma anche – quasi specularmente – delle sue più cervellotiche riluttanze, prono e incline ai suoi stessi blocchi mentali che gli angosciano istericamente le giornate, e contestualmente desideroso, avvinto da un desiderio purulento, a tratti viscido, a tratti invece quasi candidamente infantile, di infrangere ogni regola imposta o autoimposta dalla società, dalla morale, dall’etica, dallo stesso circo parossistico che sono, in estrema sintesi, i balletti ridondanti e rigeneranti in cui s’articola la fitta schiera dei suoi personalissimi rapporti umani.
Piero ha un migliore amico, Domenico, di cui poco o nulla sappiamo se non che è il marito di Emilia, quella che potremmo definire, anche un po’ cinicamente, la più canonica delle “donne qualunque”. Emilia non è particolarmente bella, non è particolarmente spigliata o gioviale, non è particolarmente acuta o intelligente. E forse proprio per questo, diventa ben presto l’ossessione perenne di Piero.
Un’ossessione che si consolida col passare del tempo, dentro e fuor di metafora, un’ossessione che si trasforma in statua, che si trasforma in nugolo di vermi, che si trasforma in contagio panico, incontrovertibilmente universale. L’ossessione, che – come ogni grande turba che si rispetti, è qui evidentemente prima di tutto letteraria – giunge dai sensi alla parola, si propaga esattamente come un virus dalle estremità degli arti alle sugosità delle intenzioni, e arriva ad impedire totalmente il corretto fluire dei pensieri ma anche della narrazione stessa, che infatti, all’incirca a metà libro (ma in effetti anche da prima) muta forma, colore e calore, fino a mutare anche nella voce.
Piero, da un certo momento in poi, diventa Eusebio, che diventa Messabianca, ma sostanzialmente sono tutti tutto, sono tutti l’unica eterna emanazione di un solo spirito guida, di un furore – tanto sessuale quanto mistico – che è il più autentico io narrante di tutto il romanzo.
Ci troviamo perciò davanti ad un romanzo proteiforme, dunque, cangiante e mutevolissimo come i più biechi desideri dell’animo umano (per non parlare di quelli del corpo pulsante!). Un romanzo che, sulle prime, potrebbe apparire a giusta ragione iper-realista, e poi trascende nel più sfrenato e quasi saccente surrealismo. Un romanzo che, sulle prime, sembrerebbe voler infrangere ogni tipo di tabù residuale (ammesso che, oggi, ce ne sia ancora rimasto qualcuno, con cui fare i doverosi conti) ma poi perde di vista la sua meta, si sfalda e si scardina proprio per negare l’esistenza stessa di quel tabù, anzi, di quei tabù (il tradimento, l’amore fra consanguinei, l’ascesi…) che forse ci riguardano ancora, ma solo a un livello nostalgico, quasi leggendario.
La creazione di una comune, il cannibalismo, l’ortodossia, il timore della paternità, lo svelamento di sé, la guarigione miracolosa, tutto diventa sogno agitato, straniamento del pensiero e dell’azione, strafottente e spietata presa in giro della parola e del contenuto. La forma scelta da Tedoldi si mescola coi più basilari nessi di senso, fino a scioglierli – in modo apparentemente inconsapevole – fra mille contraddizioni, e porta il lettore a dimenticarsene totalmente, preso com’è da una sorta di trance evanescente, che trova il suo unico perno nel sentimento del desiderio, anzi di più, nell’atto stesso del desiderare.
M’importava solo di prendere per il collo il destino, prima che fosse troppo tardi. L’imponderabile mi avrebbe plasmato.
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GIORDANO TEDOLDI, TABU’ : MONUMENTO FUNEBRE DELLA TRASGRESSIONE
In Edipo re di Pasolini dopo scene attinenti a un contesto piccolo borghese degli anni ’20, si apre uno squarcio che rende palese cosa va maturando nel retropalco dove agiscono forze inconsce che poi sono quelle che tirano le fila. Ugualmente, in Tabù, Giordano Tedoldi, dopo aver delineato il contesto sociale – borghesia intellettuale – e il campo d’azione – il campo dell’eros – dei suoi personaggi, ci introduce in un abisso della psiche di cui è principe il personaggio centrale del romanzo, Pietro Origo. E così, immesso in una dimensione che è vera tanto quanto può invece non essere tangibilmente reale, al lettore si squaderna davanti tutto quanto possiamo raccogliere sotto il nome di trasgressione. Sotto questo segno si muove Piero che infatuatosi di Emilia, moglie dell’amico Domenico, fa di lei lo strumento di ciò che lui considera la suprema infrazione, il principe degli adulteri. E tuttavia questo Piero che persegue mete nella sua ottica tanto ambiziose, lui, che a nulla crede se non al perseguimento del suo godimento, coglie dentro di sé la presenza di resistenze nel dispiegamento dei propri istinti, dei consistenti resti di comandamenti; che poi sono quelli in realtà che gli fanno vivere come tabù (da violare) l’adulterio ai danni dell’amico Domenico. Siamo così all’insuperabile impasse della trasgressione, che non può darsi se non in complementarità con la legge da trasgredire. Non se ne esce, voler trasgredire è affermare la legge, non c’è tabù violato che la cancelli perché appunto violare è confermare la legge. E allora non può non essere che non vi sia soddisfazione per la conquista, e non può non essere che Piero sia un uomo tristissimo, e che le atmosfere del libro siano sempre mortifere, e che ancora Piero viva scisso tra lo sfrenato vitalismo del sesso e un altrettanto sfrenato intellettualismo. L’orizzonte è chiuso non c’è via di uscita; ne fa fede la natura della tribù (parola che ricorre più volte nel libro), del clan, che circonda Pietro Origo. Il continuo scambio di partner, l’intimità di maschi legati da rivalità o stretta amicizia pressoché intercambiabili, ma soprattutto la stessa origine del nucleo forte della tribù dagli stessi progenitori per cui tutti sono dei consanguinei ( da cui poi ecco le donne che sono insieme mogli figlie sorelle e amanti) fa appunto della tribù una cupa comunità incestuosa. E infatti è la dimensione incestuosa che sta lì a significare che per il clan non vi è mondo altro, che la tribù è prigioniera della sua legge del trasgredire, che è lì a rigirarsi in un bugno vuoto senza costrutto, che non c’è altro che coazione a ripetere, che da lì non è dato di uscire, né più né meno di quanto non sia dato di lasciare la casa dei propri bagordi alla borghesia di Bunuel nell’Angelo sterminatore.
Che cosa allora mai potranno fare Origo e il suo clan se non ripercorre strade già tante volte battute, e sostanzialmente fallimentari, da una variegata schiera di immoralisti ed esteti e contestatori, tornando così ai luoghi deputati dell’illusione della comuni, dell’illusione della vita selvaggia, dell’illusione di un soccorso da parte della santa madre chiesa?
Quanto al resto Tabù è anche un piacevole libro di avventure che a ogni pagina può sorprenderti con qualche svolgimento che non ti aspettavi; ma d’altra parte come potrebbe essere altrimenti se per Piero Origo la vita nient’altro è se non una successione di avventure e esperimenti perseguiti con cinismo come opzioni puramente intellettuale? E quanto alla piacevolezza della lettura (per quanto lettura assai impegnativa) va messa in conto assolutamente una coltissima scrittura, un italiano sopraffino, dove non ti capita mai di cogliere neppure l’eco di qualche rigidità o di qualche sbavatura.
E tuttavia questo libro porta in sé qualcosa di obsoleto. Il titolo stesso ci mette sulla strada: nel suo richiamarci un’ opera di Freud ci ricorda appunto che la dialettica legge repressione degli istinti e quindi trasgressione (sottesa all’impianto di questo romanzo) si rifà a teorie che sono state elaborato quando il mondo occidentale, il contesto sociale e psicologico erano radicalmente diversi dai tempi nei quali viviamo. Oggi in tempi di surmodernità e narcisismo, o anche narcinismo, sfrenati, il discorso del capitalista, per dirla con Lacan, ben lungi da decaloghi introiettati e dal trasgredire, ha cancellato questo armamentario e ha fatto legge del godimento illimitato. In questo senso mi pare più avanzato Io odio John Updike, l’altro libro di Tedoldi che conosco, dove come avevo scritto nella mia recensiocina, i vari racconti rimandano direttamente invece alla sociologia del postmoderno.
E’ per tutto questo, ma direi in particolare per questa riflessione conclusiva, che avevo definito in un post precedente questo romanzo come monumento funebre della trasgressione.