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Il Padre. Un’ustione

 

di Andrea Donaera

 

Che vuoi?

Jacques Lacan

 

 

I.

Ti immagino, ormai: e basta.

Un fumetto, colori,

cartapesta, nel presepio spento,

i miei anni, che non vengono,

tutti noi. Sei la norma,

l’amico, questi mesi.

La mia pazienza di blatta sul tuo cuscino,

che così ci immagino, ormai: e basta:

nei terrori, nei colori.

 

 

II.

Non hai nemmeno un nome, certe volte, sei solo

il Grande Altro, là, fuori, e mi spunto ogni fare,

ogni dire, e dinoccolo ogni andare, attraverso,

attingendo da te, fontana tutta sangue,

sei altro, che preme, e sfonda,

sei lupo, sei fame, sei la mia stanchezza,

sei la mia bambinezza, sei io, solo e triste e altro,

che ho una matita, e un temperino, e buco

un foglio appeso al petto,

e quanto mi pento, quanto mi pento.

 

 

III.

Sapessi che cosa sogno, sapessi,

la mia schiena, come uno scoglio sporto,

un mare marcio, ti ci bagni le mani

(sono spettri scossi, meduse tremule),

mi sveglio sempre spastico, poi, sento

un suono, un fischio spesso, nell’orecchio.

[Padre, non dovrebbe essere questo.

(E non lo è: faccio finta.)]

Ritorno al letto, mi ci seppellisco.

 

 

IV.

La lotta è sempre per non riconoscerti [tra le divise grigie in fila al bar

che mai ti ricordano, mai ci sei (tra i suoni di un disco metal prestatoti

per l’energia al lavoro e mai tornato, per sempre ormai imprigionato nel limbo

del tuo ultimo computer utilizzato)], la lotta sempre per non distorcerti

sfumato in un tiro di sigaretta tra il giallo poroso dei magazzini

[quelli dei pescatori, dove andavi a tirar le somme (lì ti cercammo

banali nel terrore, lì non eri)], una lotta che stanca e mi strattona,

mi annerisce ogni quesito, mi sbarra, mi fa io e me, mi fa prima e dopo te,

e in certi pomeriggi assorti crollo, mi apro una parentesi che socchiudo,

mi scopro essere niente e sgretolato, tu in sogno mi ricomponi, paziente

(pulisci il mio mento sporco di gelato).

 

 

V.

C’è il diluvio e ci penso:

il tuo scrosciare su questo mio tempo.

Comprendo cosa ho fatto

nel passare inutile del mio tempo:

un bagnare incessante

questa nostra terra. Che però secca

e può solo seccare,

al tatto decomporsi,

tra le dita farsi polvere, farsi

te.

 

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mariasole ariot
mariasole ariothttp://www.nazioneindiana.com
Mariasole Ariot (Vicenza, 1981) ha pubblicato Anatomie della luce (Aragno Editore, collana I Domani - 2017), Simmetrie degli Spazi Vuoti (Arcipelago, collana ChapBook – 2013), La bella e la bestia (Di là dal Bosco, Le voci della Luna 2013), Dove accade il mondo (Mountain Stories 2014-2015), Eppure restava un corpo (Yellow cab, Artecom Trieste, 2015), Nel bosco degli Apus Apus ( I muscoli del capitano. Nove modi di gridare terra,Scuola del libro, 2016), Il fantasma dell'altro – Dall'Olandese volante a The Rime of the Ancient Mariner di Coleridge (Sorgenti che sanno, La Biblioteca dei libri perduti 2016). Nell'ambito delle arti visuali, ha girato il cortometraggio "I'm a Swan" (2017) e "Dove urla il deserto" (2019) e partecipato ad esposizioni collettive. Ha collaborato alla rivista scientifica lo Squaderno, e da settembre 2014 è redattrice di Nazione Indiana. Aree di interesse: esistenza.