Horacio Quiroga: la vita come un crimine
di Mauro F. Minervino
Esiste su Horacio Quiroga un giudizio lapidario, e forse un po’ malevolo, formulato da J.L. Borges nel 1945: «Ha scritto racconti che aveva scritto meglio Kipling». Non esattamente una riduzione, però. Essere secondi a Kipling non avrebbe dovuto offendere il talento letterario di nessuno, specie se una simile graduatoria fosse stata stilata da un genio della letteratura universale come Borges.
In realtà già il «New York Times», in un articolo del 25 ottobre 1925, salutava Quiroga come ´il Kipling sudamericano». Si trattava, quindi, anche per lo stesso Quiroga, di un riconoscimento ben più che gradito. Infatti Kipling, assieme a Poe, Maupassant e Čechov, sono esplicitamente, il lettore ne troverà conferma anche leggendo queste sue pagine di racconti, i maestri amatissimi («come Dio stesso») che Quiroga richiama puntualmente in pagina in tutti i suoi racconti. Tuttavia, Quiroga, tutt’altro che un epigono, rivolta a suo modo i modelli di questi narratori e li adatta al suo mondo, alla geografia e alla temperatura sentimentale e morale del Nuovo Mondo, ai rigori e ai misteri animistici e ribelli delle foreste tropicali e delle pampe umide. A dire la verità Conrad con i suoi racconti di epica marinara sta agli oceani, all’epopea del mare e alla moralità della vecchia Europa coloniale, come Quiroga starà invece alla torrida e brutale natura del continente sud americano, alla mescola del sangue, agli intrichi vitali dei suoi popoli impulsivi e malinconici, alla vita indominabile delle insidiose e impenetrabili foreste pluviali, al fluire inarginabile dei grandi fiumi amazzonici come il Paraná. Quiroga – che una volta abbandonate Montevideo e Buenos Aires, vivrà buona parte della sua vita lontano dalle grandi città e a contatto con la selva –, capisce che si può prendere l’arte europea del racconto e spostarla di civiltà, trapiantandola e rimetterla con i piedi per terra nell’humus sfarzoso e venefico dell’altrove naturalistico e sociale rappresentato da una civiltà ibrida e ancora aurorale com’era quella dell’america ispanica. “Quiroga cerca l’altro, tanto nel fantastico e nell’orrore quanto nella vita di frontiera e della selva, nell’uomo e nelle belve, nella natura e in città. Sempre sul margine. All’esterno nel mondo, all’interno nel sentire e nello scrivere” (Ernesto Franco).
Non è certo un caso che, oramai a distanza di quasi un secolo da fatti e circostanze biografiche, il lascito letterario di Horacio Quiroga sia unanimemente riconosciuto come il patrimonio di un maestro maggiore della forma breve e del racconto metafisico; il narratore che più di chiunque altro ha influenzato intere generazioni di grandi scrittori sudamericani, da Juan Rulfo a Julio Cortázar.
Al di fuori della tradizione letteraria ispano-americana, è ancora oggi abbastanza inspiegabile come la sua opera sia stata finora così trascurata in un paese come l’Italia.
Questa raccolta magistralmente tradotta e curata da Marino Magliani e Luigi Marfè, e qui proposta nella collana Itaca da Pellegrini Editore, colma così finalmente una grave lacuna nel distratto panorama dell’editoria italiana, proponendo in volume i racconti che formano la silloge quiroghiana de Il delitto dell’altro.
Si tratta di racconti di una misura perfetta, intessuti di “amore, follia e morte”, in cui si alternano atmosfere decadenti e crepuscolari, balenanti fra delirio e incubo, le stesse esperienze ai confini della scienza, della natura e del mistero in cui Quiroga ha saputo dar forma ad altrettante, accurate, strutture letterarie tramate di passioni umane sfuggenti e di sentimenti perturbanti. Come la solitudine, il sentimento del tempo e il senso di morte, l’ironia amara, follia e l’incubo, l’esorbitanza delle forze naturali, inconciliabilità dell’eros (discretamente misogino, fu seduttore sempre sedotto da donne fatue, spesso troppo giovani e appariscenti).
Nel gioco funambolico di passioni e insanabili contrasti vitali di cui si nutrì – tradizionalista e conservatore ma innamorato della modernità e dell’esattezza scientifica, appassionato di cinema e di divi del cinema, fotografo dilettante e ciclista, sperimentatore di galvanoplastica, malinconico e fanatico della velocità di auto e motociclette sino al rischio della vita propria e altrui, collezionista di pelli di anaconda e misogino recluso in angolo primitivo alla selva amazzonica – nella biografia di Quiroga campeggia su tutto l’ombra sinistra della morte. Come accade per il racconto che dà il titolo a questa raccolta, Il delitto dell’altro, la vicenda stessa di Quiroga è quella di una vita disseminata di morti e di epiloghi spesso tragici e violenti. Nel 1902, Quiroga aveva ucciso, per errore, con un colpo di pistola partito accidentalmente, uno dei suoi migliori amici, lo scrittore Federico Ferrando. La sua vita, ne fu sconvolta, e sarebbe restata per sempre avvolta dalla semioscurità della tragedia e dal ripetersi luttuoso del caso.
Già di morte violenta, quando Quiroga aveva solo pochi mesi, era morto il padre, vittima di un altro fatale incidente con le armi da fuoco. Poi perderà anche il patrigno, che si spara un colpo in testa. La prima moglie Ana María, da cui ebbe due figli, nel 1915, dopo una lite furiosa, si avvelenò. Sbagliò il veleno, e morì dopo otto giorni di agonia. Infine, risposatosi in seconde nozze, a cinquant’anni sconta l’infelicità della relazione con una ragazza di vent’anni, mentre la figlia di primo letto, amica e coetanea di questa, gli muore suicida. Come se quella della tragedia nella vita di Quiroga fosse una porta sempre accostata sull’abisso.
Un epilogo tragico, e nel contempo araldico, a cui non sfugge il sigillo che lo stesso autore vorrà posare sul finale della sua vita: il 19 febbraio 1937, Quiroga, saputo di essere malato terminale di un cancro alla prostata, si uccide a Buenos Aires ingerendo una capsula di cianuro.
Non lasciò nessun commento, nessuna morale, o indizi, prove che potessero favorire alcuna interpretazione dall’esterno al gesto finale di quella sua vita condotta sul margine, sempre spericolata e triste.
Aveva già scritto prima tutto quello che c’era di scrivere; nulla tranne il suo stile: “la bellezza, e la farsa su noi stessi…, la facoltà di presentarsi a se stessi diversamente da ciò che si pensa, e ammettere che sia possibile”.
Quiroga sapeva bene che tutte le vite hanno lo stesso valore, e che in fondo ìla differenza fra gli umani e le tigri è solo una questione di cuore”.
NdR: questa è l’introduzione di Mauro F. Minervino alla traduzione della raccolta di racconti di Quiroga “Il delitto dell’altro”, a cura di Marino Magliani e Luigi Marfè, e pubblicata di recente da Pellegrini Editore, nella collana “Itaca Itaca”, diretta dallo stesso Minervino
E’ forse lo scrittore piú rappresentativo (e tragico) del continente sudamericano. Din altissima e profonda levatura. Gabriel Garcia Marquez, Julio Cortazar, Borges consciamente o inconsciamente scrivevano….per lettori…anzi guardavano all’Europa, alla Spagna, a Parigi…E’ riduttivo lo so. Ma Quiroga no. Aveva introiettato la febbre, la pazzia della selva tropicale senza tradurla ad uso e consumo di….Nella sua anima sconvolta e sconvolgente i toni tragici erano quelli di uno Shakespeare o di un Dowstoijesky ( o come si scrive…). Tanto profondo, selvaggio, intenso il pathos delle sue indimenticabili figure da renderlo il narratore piú autentico, piú vero dell’America spagnola. Ben piú che un plauso all’Editore per la sua scelta.