Il mondo di Fiorino: autunno

di Antonio Sparzani

Erano i mesi dell’autunno nebbioso. La quarta ginnasio era passata e Fiorino frequentava la quinta con qualche difficoltà iniziale. Stranezze, pensava suo padre, non abituato a dover firmare brutti voti. Il fatto è che Fiorino perdeva tempo, talvolta come in trance, e poi usciva spesso e aveva cominciato a vedere degli amici nuovi, conosciuti tramite Ernesto. Susa era sparito ed Ernesto si portava dietro spesso un paio di altri ragazzi della sua età che parlavano diversamente e che, in particolare nei confronti di Fiorino, nettamente il più giovane del gruppo, mostravano una specie di affettato paternalismo. Si vedevano nei tardi pomeriggi, bighellonavano per le strade di San Bruno, sotto i portici, ma anche nelle stradette oltre il duomo, vicino al lungolago. Fiorino stava spesso zitto, ad ascoltare e a pensare; pensava qualche volta per conto suo e qualche volta a quel che dicevano gli altri; diceva cose convenzionali, forse per paura di sbagliare, non erano persone alle quali aprire l’animo, come a Franco o a Giancarlo. E tuttavia Fiorino amava la compagnia, quel chiacchierare fitto nella luce filtrata dell’autunno, quei passi che ogni tanto si fermavano per capire meglio cosa si stava dicendo. Non c’era il rumore delle auto nelle zone dove andavano, c’erano dei nuovi mondi di conoscenza che facevano finta di essere da grandi, che imitavano le mosse dei grandi discorsi senza averne lo spessore, che tuttavia qualcosa agitavano nella mente, come un rimestamento in un magma informe per far affiorare ogni tanto una forma definita.
Questi nuovi compagni di strada erano il Meme, piccoletto, sempre infagottato in un cappottino marrone a spina di pesce e poi Corrado, il maggiore d’età, più alto e con un soprabito grigio a doppio petto, sempre dritto sulla persona, spalle indietro, capelli tirati e radi sul biondo cenere, che parlava con un tono pacato e sicuro. Parlava però degli amorazzi che aveva sentito dire a San Bruno e di come fosse sfortunato tizio ad essersi imbattuto nella tale nel momento sbagliato. Quando qualche parola veniva detta, che qualcuno dei grandi pensava potesse offendere le orecchie ancor giovani di Fiorino, gli veniva chiesto scusa, così, quasi per vezzo. Fiorino sorrideva imbarazzato, assicurando che non si turbava per questo e non sapendo bene poi cosa dire, tanto gli sembravano poco naturali tali scuse.
Un pomeriggio, con già l’invito del crepuscolo, incontrarono un ragazzo più vecchio di tutti, Alberto, forse già sui venti, che non andava più a scuola, era impiegato in qualche ufficio. Era di quelli che parlavano fitto, un po’ tra i baffi neri e corti e faceva lunghi racconti. Era triste quella sera e spiegò a tutti perché. Era morto giovane un suo caro amico, che anche gli altri vagamente conoscevano di vista, era uno di San Bruno che girava nell’ambiente della parrocchia. Quel che in particolare sconvolgeva Alberto era che solo poche sere prima di quell’avvenimento erano stati a chiacchierare e l’amico gli aveva parlato della vita e della morte, così, come spesso si faceva allora a vent’anni, con una sorta di tranquillo turbamento, come se fosse una cosa naturale; e veramente lo era, si disse Fiorino che quel pensiero l’aveva spesso. Fiorino in realtà credeva di essere lui un po’ strano a pensare così spesso alla morte e a tutto quello che la circonda, ma scoprì in pochi momenti che non era poi tanto strano. Si dipanò subito un discorso tra tutti, su quest’argomento così insolito, nel quale alcuni ruoli della piccola compagnia vennero rovesciati. Corrado aveva poco da dire, Ernesto parlò invece della sua nonna e di come l’aveva trovata una mattina dolcemente addormentata; il Meme si accalorò sulla questione dell’al di là e di dove si sarebbe poi andati e Fiorino, che aveva la triste esperienza della sua mamma che se n’era andata da pochi anni, arrivò a raccontare dei pensieri che quasi mai aveva raccontato perfino a se stesso. Pensieri sulla tristezza di vedere quelle casse, con quel che contenevano, nascondersi un po’ alla volta in terra, o infilarsi in un loculo di quella pietra che sembra sempre bianca e sporca dei cimiteri, ma anche pensieri di comunicazione con i “propri morti” – così egli li chiamava dentro di sé – come con dei mediatori di un dialogo con se stesso che trovava così uno sbocco più scorrevole. Questa possibilità che quella sera gli venne casualmente offerta di tirar fuori un grumo di riflessioni assai raramente comunicate fu vissuta da Fiorino come una affermazione di sé e della propria identità, di cui, più nascostamente ma anche più testardamente di altri, sempre andava in cerca.
Si sentì esistente; pensò se stesso pensante – usò dentro di sé questa formula appena appresa da qualche insegnante filosofo – e fece un altro passo dentro la vita. La luce dei lampioni di San Bruno, di solito così fioca, sembrava più invitante, la nebbia più amica e Fiorino propose, inauditamente, di entrare in un caffè, pensando con tremore che le poche monete che tastava con le dita in tasca sarebbero forse state sufficienti per un caffè macchiato.
Gli amici, vagamente stupiti, accettarono e trovarono un tavolo intorno al quale potersi sedere, per scaldarsi e raccontarsela il più a lungo possibile. Si sentivano più uguali quella sera, la morte, che già rende uguali dopo, aveva operato la stessa cosa anche prima, bastava parlarne tirando fuori quei pensieri fissi che, senza che normalmente apparisse, ognuno aveva.
Quando uscirono dal caffè, nelle stradette illuminate dalla nebbiolina del crepuscolo che saliva dal lago, si rimisero a camminare, scambiando solo poche battute, ognuno assorbito da quel giro di discorsi che erano emersi anch’essi forse dal lago. Alberto, che aveva innescato la discussione, pareva imbarazzato per l’interesse che i suoi racconti avevano risvegliato, mentre il Meme ruminava tra sé e sé poche incomprensibili parole. Neppure Ernesto riusciva a sfoggiare qualche pensiero chiaro e distinto.
Fiorino rifletteva inorridito che la morte di sua madre gli aveva permesso ora un ruolo insolitamente alto nella discussione con gli amici; che poi tanto amici non si potevano neppur dire – Fiorino stava sempre molto attento all’uso di quella parola – tranne Ernesto, s’intende. Gli altri erano come interlocutori che avevano però il pregio di schermare la presenza talvolta ingombrante di Ernesto, e di creare un contesto nel quale Fiorino s’era sentito libero, e anzi spinto, a mostrarsi.
Era ora di andare a casa per Fiorino, che doveva rispettare orari un po’ più rigidi degli altri. Si congedò con maggior sicurezza del solito e si avviò per la salita con un passo più certo.

Le precedenti storie di Fiorino sono qui e qui e anche qui.

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Antonio Sparzani, vicentino di nascita, nato durante la guerra, ha insegnato fisica per decenni all’Università di Milano. Il suo corso si chiamava Fondamenti della fisica e gli piaceva molto propinarlo agli studenti. Convintosi definitivamente che i saperi dell’uomo non vadano divisi, cerca da anni di riunire alcuni dei numerosi pezzetti nei quali tali saperi sono stati negli ultimi secoli orribilmente divisi. Soprattutto fisica e letteratura. Con questo fine in testa ha scritto Relatività, quante storie – un percorso scientifico-letterario tra relativo e assoluto (Bollati Boringhieri 2003) e ha poi curato, con Giuliano Boccali, il volume Le virtù dell’inerzia (Bollati Boringhieri 2006). Ha curato anche due volumi del fisico Wolfgang Pauli, sempre per Bollati Boringhieri e ha poi tradotto e curato un saggio di Paul K. Feyerabend, Contro l’autonomia, pubblicato presso Mimesis. Ha curato anche il carteggio tra W. Pauli e Carl Gustav Jung, pubblicato da Moretti & Vitali nel 2016. Scrive poesie e raccontini quando non ne può fare a meno.