Non risponde mai nessuno – Simone Ghelli

VEDEVANO TUTTI IL SUO DOLORE

Estratto dalla raccolta di racconti  Non risponde mai nessuno  di Simone Ghellli

(Miraggi Edizioni, ottobre 2017)

 

 

 

Nell’ora in cui se ne andò, accadde un fatto incredibile: sbandando, un’auto aveva invaso la corsia tamponandone delle altre parcheggiate a spina di pesce, tranne la sua. Claudio chiamò subito a casa la moglie, con la voce che per lo spavento gli faceva tremare le parole in bocca.

«Io penso che sia stata lei,» gli disse infine Silvia, «lei che t’ha ringraziato».

«L’ho pensato anch’io, sai?»

«Sono sicura che se n’è andata da poco. Appena puoi mi chiami? Fammi sapere quando arrivi».

Claudio aveva rimesso in moto e guidato, con il piede che ogni tanto singhiozzava sul pedale, verso un turno serale di sei ore che l’attendeva. Guardava la strada, ma non vedeva che lei, così piccola e infreddolita e affamata; lei che arrancava per la salita e veniva a metterglisi vicino per una carezza, senza la contezza di essere arrivata alla fine dei suoi giorni. Continuava da ore a chiedersi perché, a sussurrarlo a denti stretti mentre s’immaginava di stringerla a sé, di darle almeno un po’ di calore. Continuò a chiederselo anche a lavoro, a stringere le dita a pugno sotto la scrivania mentre invocava un po’ di giustizia senza sapere a chi.

Eppure Silvia lo aveva avvertito: «Ho sbagliato a coinvolgerti. Quando la vedrai ti verrà male al petto come a me».

Il mattino precedente, mentre si metteva le lenti a contatto davanti allo specchio, gli aveva confidato di non averci dormito per tutta la notte. Aveva pianto così tanto che si era risvegliata con gli occhi opachi, come se fossero stati vuoti. Girando per casa, con lo zaino che doveva riempire con le cose che le sarebbero poi servite, il suo sguardo lo oltrepassava e lui non capiva dove fosse diretto. Claudio avrebbe voluto scuoterla e rimetterla a fuoco; così si era offerto di accompagnarla per darle un po’ di conforto.

«Andiamo,» le aveva detto facendosi trovare con le chiavi dell’auto in mano quando lei era uscita dal bagno.

Mentre lui guidava, con i vetri appannati e una nebbia leggera che nascondeva le cose, c’era stato un lungo silenzio tra loro. Non accadeva quasi mai, se non quando bisticciavano per qualche incomprensione; ma erano sempre questioni di pochi minuti, perché nessuno dei due riusciva a rimanere a lungo con l’idea di qualcosa d’irrisolto. Quella mattina, però, sembrava che tra loro ci fosse stato un grumo che non voleva saperne di sciogliersi e che mancassero anche le parole per definirlo.

A un certo punto, poco prima di arrivare, Silvia aveva dato un pugno sulla scocca interna; un piccolo pugno, poco più di una carezza, quasi al rallentatore.

«Forse dovremmo lasciare tutto così com’è», aveva suggerito.

«Ormai ci siamo. Provo soltanto a darle qualcosa da mangiare. Magari si fa prendere».

«Mi dispiace lasciarti da solo».

Silvia doveva dare delle ripetizioni di matematica a un ragazzino di terza media, la cui famiglia abitava in una strada senza sbocchi. Gli aveva raccontato che spesso, quando usciva da casa loro, le capitava di vederla che attendeva da una parte.

«Ogni volta mi viene da prenderla. Vorrei prenderla e stringerla forte, portarla via, ma non si può fare».

«Abbiamo già i nostri, di più non possiamo fare».

Claudio si accostò davanti all’ingresso del palazzo e attese col motore acceso che Silvia entrasse, poi proseguì più avanti di qualche metro e parcheggiò l’auto al termine di uno slargo dove la strada virava a sinistra per terminare davanti a un cancello chiuso da un lucchetto arrugginito, oltre il quale c’era una costruzione bassa in mattoni rossi circondata da una serie di turbine e di cavi dell’alta tensione che producevano un ronzio appena percettibile.

La gatta era proprio dove Silvia gli aveva detto di cercarla.

Dormiva su un cuscino tutto sudicio buttato lungo l’argine, vicino a un piattino di plastica vuoto.

La signora che le dava ogni giorno da mangiare – una gattara di cui non era stato possibile conoscere il nome, e che, a detta della madre del bambino a cui Silvia dava ripetizioni, non avrebbe acconsentito a farla portar via – usciva dal portone intorno alle nove e mezza con il sacchetto dei croccantini e alcune scatolette.

Claudio prese la bustina di umido che si era portato da casa e provò ad avvicinarsi a piccoli passi, cercando di fare meno rumore possibile, ma quando fu a circa un paio di metri da lei, la gatta tirò su la testa e lo fissò in silenzio.

Non le era rimasto che un occhio, vivo, ormai assediato da quell’orribile male che le aveva cancellato il resto del musetto.

Cercando di non guardarla, Claudio avanzò finché il cuscino non fu a portata di mano e fece cadere velocemente i bocconcini nel piatto. La gatta si avvicinò con circospezione, poi prese a mangiare senza quasi masticare. Si sentiva soltanto il brusio dei cavi elettrici e il rumore della sua gola che inghiottiva e del suo naso che si sforzava di inspirare aria per vivere ancora.

Claudio si allontanò velocemente, raggiunse l’auto e si guardò intorno. Non c’erano che loro due, circondati da palazzine basse con le finestre da cui non li guardava nessuno.

Aprì il portabagagli e prese un vecchio trasportino che non avevano mai buttato proprio per i casi di necessità. Dentro ci aveva messo un asciugamano, in modo che la gatta potesse stare su una superficie morbida che le avrebbe dato una sensazione di calore.

Fece scattare la sicura di due dei quattro ganci che tenevano chiuso lo sportello e provò nuovamente ad avvicinarsi al giaciglio, molto lentamente, ma era come se ogni cosa avesse deciso improvvisamente di mettersi a urlare. I sassolini che calpestava facevano drizzare le orecchie della gatta a ogni passo che faceva, e lo stesso effetto sembravano sortire il fruscìo dei suoi indumenti e lo scricchiolare delle sue giunture. Era arrivato appena al centro della strada quando l’animale, con una rapidità che non si sarebbe mai immaginato, si allontanò di un paio di metri.

Claudio provò a seguirla, senza però riuscire a diminuire la distanza che li separava, finché, in prossimità del cancello in fondo alla via, non decise di tornare sui propri passi.

Una signora, che stava rientrando dalla sua passeggiata con il cagnolino al guinzaglio, si fermò incuriosita.

«Poverina,» disse, «spesso va là dentro a dormire. Si sentirà più al sicuro».

Guardò poi il trasportino che oscillava nella sua mano sinistra: «Ha paura, non si farà mai prendere con quello».

«Deve essere visitata,» disse lui.

La signora scosse la testa: «È da tanto che sta male».

Claudio sentì le labbra tremargli e con esse i muscoli che controllavano le guance. Non riusciva più a parlare e sbatteva le palpebre più rapidamente per non piangere. Davanti ai suoi occhi c’era come un velo e gli ritornarono in mente le parole di Silvia: «Quando la vedrai ti verrà male al petto come a me».

Pur di toglierle dalla vista quel dolore che non la faceva dormire, aveva provato ad agire come in sogno, come se nulla avesse potuto realmente toccarlo, ma era bastata la parola di una persona a farlo precipitare nella realtà.

In un attimo capì che non avrebbe dimenticato per tanto, tanto tempo.

«Mi allontano,» disse la signora tirando il cagnolino per il guinzaglio.

Vide che la gatta stava risalendo verso di loro, ma come fece un passo quella scattò nuovamente indietro.

Claudio si mise uno dei guanti in lattice che aveva in tasca e prese il piattino dove erano rimasti ancora dei bocconcini.

«Micia, micia, micia,» la chiamò allungando il braccio con il cibo.

Provò anche con la busta dei croccantini, che andò a prendere in auto. Pensò che il rumore avrebbe potuto attirarla, ma ormai non si fidava, non avrebbe ottenuto niente neanche stando lì tutto il giorno. Avrebbe dovuto agire diversamente, magari la prima volta che le si era avvicinato, e invece aveva rovinato tutto.

Quando tornò indietro, un paio di minuti più tardi, trovò la signora che parlava con uomo di mezza età impegnato a tenere fermo un cane nero di grossa taglia che lo trascinava ansimando.

«Ah,» disse quello vedendolo, «finalmente hanno mandato qualcuno a prenderla. Non può mica più campare, così».

Claudio scosse la testa.

«Va fatta sopprimere,» disse con un filo di voce.

Non pensava che sarebbe mai riuscito a pronunciare quella parola, e infatti sembrò che gli altri non lo avessero sentito.

«Ce ne avete messo di tempo».

La signora ripeté soltanto: «Poverina».

Nel frattempo la gatta si era furtivamente avvicinata al cuscino, ormai era a non più di due metri, quando l’uomo si mosse col suo cane e per la paura quella saltò addirittura sul muretto alto quasi un metro e scomparve dietro l’inferriata.

«Mi sa che per oggi non se ne fa più di niente,» disse loro.

Attese che gli altri due se ne fossero andati, poi tornò verso l’auto e mise il trasportino sul sedile posteriore insieme al sacco dei croccantini. Si tolse il guanto in lattice e si voltò un’ultima volta a guardare, ma adesso era veramente da solo.

Chiuse la portiera e si lasciò andare sul sedile, poi iniziò a piangere in silenzio.

 

 

 

 

Simone Ghelli è autore della raccolta L’ora migliore e altri racconti (Edizioni Il Foglio, 2011) e del romanzo breve Voi, onesti farabutti (CaratteriMobili, 2012). Nel 2013 è stato tra gli autori selezionati per l’antologia Toscani maledetti (Piano B edizioni), curata da Raoul Bruni.  Alcuni suoi racconti sono inoltre comparsi su riviste e siti letterari vari, tra cui Minima et Moralia, Altrianimali, Poetarum Silva e Cadillac Magazine.

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