La casa dei bambini

“La casa dei bambini”, di cui pubblico l’incipit, esce oggi per Fandango (ndf).

di Michele Cocchi

Il cuore gli batteva così rapidamente e da tanto di quel tempo che ne era esausto. Procedevano in silenzio, carponi, in fila indiana, lungo il muro di cinta. In testa Nuto, poi lui e dietro Dino. A tratti, folate di vento gli spostavano un ciuffo di capelli davanti agli occhi. Tremava, non sapeva se di paura o di freddo. Che avrebbero fatto una volta fuori? Dove sarebbero andati? Non c’era stato il tempo di pensare a niente, soltanto al percorso migliore: raggiungere il muro e seguirne il perimetro fino alla capanna degli attrezzi. Attraversare il parco sarebbe stato troppo rischioso. Nuto si arrestò d’un tratto e lui sentì il cuore balzargli in gola. Poi lo vide agitare il braccio con insistenza: s’intuiva la sagoma della capanna. Non mancava molto, un centinaio di metri. Ancora però non si vedeva la scala che il custode, a detta di Dino, aveva dimenticato poggiata da un lato. Durante la cena era corso tra i tavoli ripetendo a bassa voce: “Riunione d’emergenza! Presto! Riunione d’emergenza!”, mentre le mamme lo sgridavano e gli intimavano di tornare a sedersi. Più tardi, nella stanza dei giochi, avevano organizzato la fuga.

Erano stati fortunati, la luna era sottile ma abbastanza luminosa da non aver bisogno di una torcia. Nella Casa nessuno dei bambini ne possedeva una, anzi, nessuno dei bambini possedeva niente di niente. Poi in lontananza lui vide un oggetto muoversi avanti e indietro. Sentì le braccia e le gambe gelarsi e diventare terribilmente pesanti.

Dino stava guardando nella stessa direzione. “Sandro, laggiù!”

“Ho visto. Che cos’è?”

“Una strega!”

Che avevano da parlare?, li sgridò Nuto a bassa voce. “Silenzio.”

“Guarda là.” Nuto si voltò. “Laggiù. Vedi? Si muove.”

“È l’altalena. È solo il vento.”

“Ma l’altalena è dall’altra parte.”

“No, è da quella.”

Lui e Dino avevano perso l’orientamento. Si meravigliava di come muoversi di notte fosse tanto diverso dal muoversi di giorno. Il parco che conosceva così bene adesso gli sembrava estraneo. Come se in assenza di luce gli occhi dessero importanza a oggetti che di solito non ne avevano. Grossi tronchi. Dossi sul terreno. Grovigli scuri di rami sugli alberi. Il buio tramutava le cose in mostri. Si sforzò di capire dove si trovassero con precisione. Vedeva un tratto di vialetto e un pezzo del grande cancello grigio, le sbarre lisce impossibili da scavalcare. Strizzò gli occhi. Le due colonne di cemento e poi il muro con il filo spinato per non farli scappare.

“Accidenti! Ho dimenticato le chiavi”, esclamò all’improvviso Dino. Stringeva nella mano il mazzo di chiavi di mamma Olga. “Ho dimenticato di rimetterlo nel suo grembiule.”

“Almeno hai messo i cuscini sotto le lenzuola come avevamo detto?”, gli domandò Nuto.

Lo aveva fatto.

“Se si accorge che le mancano le chiavi, darà subito l’allarme. Dai, muoviamoci.”

Finalmente raggiunsero la capanna. La scala era là, Dino aveva ragione. Nuto e Dino la portarono fino al muro. Si assicurarono che fosse stabile.

“Dai, veloci”, disse Nuto.

Salì i primi due scalini, quando la porta della capanna improvvisamente si aprì e comparve Pasquale, il custode.

La mattina dopo, appena svegli, furono condotti dal direttore. Le mani giunte e le dita incrociate sopra il piano della scrivania tarlata. I capelli neri con dei ciuffi bianchi. Lui si sentiva stanco, aveva passato la notte sveglio perché aveva troppa paura per riuscire a dormire, temeva la furia del direttore. Guardò fuori. Tutto intorno alla Casa il parco senza erba, la terra dura e gli alberi coi rami secchi sui quali da tempo non crescevano più foglie. Viola si dondolava sull’altalena, tenendosi ben stretta alle corde. Il sole era largo e pallido. Così freddo che lo si poteva guardare fisso senza bruciarsi gli occhi. Si domandò dove fosse Giuliano. Giuliano che aveva deciso di non fuggire con loro, ma che li aveva abbracciati uno a uno prima che uscissero di nascosto. Sentiva il bisogno di parlargli, di sapere il suo parere.

Il direttore guardò Nuto e Dino seduti accanto a lui. Entrambi nella stessa posizione: la testa bassa e le mani sulle ginocchia. Ripeteva cose già sentite molte volte: le regole, il rispetto per le mamme e gli altri bambini, lo sforzo che facevano per mantenerli in salute. Le orecchie gli ronzavano, non riusciva a stare concentrato e a seguire i discorsi. Vedeva scantinati e corridoi bui. Immaginò che per gli altri fosse lo stesso. Il perché lo sapeva: questa volta rischiavano l’espulsione. Avrebbe significato essere divisi e spediti in tre Case diverse. Sarebbe stato come morire. Se il direttore fosse stato un rettile, pensò, sarebbe stato un’iguana, con la cresta sulla testa come la corona di un re.

Il direttore sospirò. Perché avevano tentato di scappare?, chiese.

Nuto si mosse sulla sedia. Alzò la testa. Gli occhi grigio chiaro. Di loro tre era sicuramente il più coraggioso, però non disse niente.

Fu Dino, invece, a parlare. “Vogliamo sapere cosa c’è là fuori.”

Il direttore lo fulminò con lo sguardo. “Cosa volete che ci sia là fuori? Case, persone, niente di speciale.”

“E che succede?”

Il direttore alzò la voce: “Non succede niente. Niente di niente”.

“E quel rombo, il mese scorso? E tutte quelle luci?”

“Ve l’abbiamo già detto, era una gara automobilistica, e le luci erano i fuochi d’artificio.”

“Perché non ci avete portato a vederla?” Era stato Nuto a parlare.

“Perché era troppo lontana, e siete troppo piccoli. Se sarete scelti, o quando andrete alla Casa dei ragazzi, potrete fare quello che vi pare. Adesso fareste bene a studiare e a comportarvi come si deve.”

“Però c’è stato l’incendio.” Si accorse di aver parlato senza averne davvero l’intenzione. “L’incendio ha ucciso i miei genitori e quelli di Nuto. Guardi la ferita.” Allungò una gamba e cercò di arrotolarsi il pantalone fino alla coscia, ma la stoffa si bloccò all’altezza del ginocchio.

Il direttore si alzò bruscamente e la sedia cadde sul pavimento con un tonfo terribile.

“La conosco la tua ferita, Sandro”, lo rimproverò. “Te l’hanno detto anche le mamme. Devi smettere di inventarti queste storie. Tu vedi cose che non esistono. Spaventi gli altri bambini.”

“Non se l’è inventato”, disse Nuto. “Sandro dice la verità.”

“Ora basta.” Il direttore batté il pugno sul piano della scrivania e tutti e tre si zittirono e abbassarono la testa. Erano maledettamente sfacciati e ingrati, aggiunse. Avrebbero saltato la scelta per sei sabati consecutivi. E se avessero aggiunto anche soltanto una parola, li avrebbe espulsi tutti e tre.

 

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francesca matteoni
francesca matteonihttp://orso-polare.blogspot.com
Curo laboratori di poesia e fiabe per varie fasce d’età, insegno storia delle religioni e della magia presso alcune università americane di Firenze, conduco laboratori intuitivi sui tarocchi. Ho pubblicato questi libri di poesia: Artico (Crocetti 2005), Higgiugiuk la lappone nel X Quaderno Italiano di Poesia (Marcos y Marcos 2010), Tam Lin e altre poesie (Transeuropa 2010), Appunti dal parco (Vydia, 2012); Nel sonno. Una caduta, un processo, un viaggio per mare (Zona, 2014); Acquabuia (Aragno 2014). Dal sito Fiabe sono nati questi due progetti da me curati: Di là dal bosco (Le voci della luna, 2012) e ‘Sorgenti che sanno’. Acque, specchi, incantesimi (La Biblioteca dei Libri Perduti, 2016), libri ispirati al fiabesco con contributi di vari autori. Sono presente nell’antologia di poesia-terapia: Scacciapensieri (Millegru, 2015) e in Ninniamo ((Millegru 2017). Ho all’attivo pubblicazioni accademiche tra cui il libro Il famiglio della strega. Sangue e stregoneria nell’Inghilterra moderna (Aras 2014). Tutti gli altri (Tunué 2014) è il mio primo romanzo. Insieme ad Azzurra D’Agostino ho curato l’antologia Un ponte gettato sul mare. Un’esperienza di poesia nei centri psichiatrici, nata da un lavoro svolto nell’oristanese fra il dicembre 2015 e il settembre 2016. Abito in un borgo delle colline pistoiesi.