L’eroe allo specchio
di Gregorio H. Meier
a Charlotte
I.
Come spada aveva scelto il coltello per affettare il pane, e non fu semplice farlo passare tra il jeans e la cintura, i denti che uno dopo l’altro si impigliavano alle cuciture. L’armatura invece se l’era fatta da solo: fogli di carta stagnola incollati con cura su delle placche di cartone, giri e giri di scotch a compattare, qualche anello di spago là dove i pezzi della corazza s’incontrano all’altezza delle articolazioni, larghi abbastanza da permettere fendenti, montanti e fughe a perdifiato. Per sconfiggere un drago non basta essere robusti, servono anche destrezza e agilità.
“Adesso manca soltanto da imparare qualche magia,” rimuginava Marco ormai da qualche giorno; ed era appunto per questo motivo che quel lontano pomeriggio di primavera aveva inforcato la sua bicicletta – una bici da montagna rosso-fuoco, nuova di pacca – per andare ad avventurarsi nei boschi della Calvana, diretto a Fonte Buia, la grotta da cui origina il torrente Rio Buti, un serpentello d’acqua ripido e selvaggio che salta scroscia e fracassa per un paio di chilometri sul fondo di una gola tutta alberi e rocce, per poi affluire nel fiume Bisenzio. Andrea Bulletti – vicino di casa, compagno di banco e gran bombarolo (di fatto era famoso un po’ dappertutto in giro per Prato da quanto le sparava grosse) – giusto il giorno prima gli aveva raccontato, assicurato e giurato che in quella grotta, giù in fondo, nel cuore della terra, ci abitava una strega – vecchia quanto il mondo, tenne a precisare –, la quale, ne era certo, gli avrebbe insegnato una qualche stregoneria per sconfiggere l’odioso drago che già da un paio di mesi stritolava tra le sue spire di fuoco e acciaio il castello della bella Sandrina, una simpatica ragazzetta coetanea di Marco e Andrea che stava nel palazzo dirimpetto al loro, tra i quartieri di Coiano e Santa Lucia, e di cui Marco, inutile a dirsi, si era invaghito proprio nello stesso giorno in cui, ahilui, era apparso il drago.
Le suonate di clacson, gli sberleffi e i vari Ripigliati, minchione! che si era beccato per strada prima di raggiungere la solitudine dei boschi lo avevano infastidito e non poco. Nel mentre arrampicava con la bicicletta in spalla le serpentine dei sentieri che salivano di fianco ai precipizi frondosi del Rio Buti, Marco non faceva che domandarsi cosa diavolo ci avessero da ridere e motteggiare quei citrulli dei suoi compaesani. Non era nobile l’impresa a cui aveva votato anima e corpo, la liberazione della bella Sandrina? Inutile salvare la città dai ruggiti e le flatulenze di quel drago gigantesco e perverso? Ma soprattutto, non era quanto di più bello si fosse mai visto sulla faccia della terra il suo pennacchio azzurro lungo un metro che gli spiccava dritto e fiero dalla cima dell’elmetto?
Che poi l’amico Andrea Bulletti gli avesse dato buca con una bugia delle sue appena un’ora prima di partire, proprio non gli andava giù. Al solito gli aveva raccontato una baia grossa come una casa: “Oggi vado con il babbo a visitare la capitale d’America, Tokyo, a bordo di un astronave a propulsione post-megalo-subatomica-Kant-esistenziale. Torneremo che sarà già buio, sicuro non prima di cena.” Come riusciva il Bulletti, alla veneranda età di tredici anni, a spararle così grosse? “Stai a vedere che anche questa storia della strega è tutta una bufala…” borbottava l’eroe durante il viaggio, in preda a una rabbia di quelle nere, ma così nera che, a forza di rimuginare sui suoi inciampi, a un certo punto gli venne addirittura lo sghiribizzo di gettare la sua bicicletta giù da un burrone, gridando, quasi euforico: “Al diavolo, un peso in meno sulle spalle!”
I fantasmi e i capricci che gli frullavano in testa gli rendevano il fiato e i passi più pesanti che mai. Per Marco fu come aver portato a compimento l’intera missione, quando, scostate le frasche di un rovo, si ritrovò davanti a un buco bello grande che si apriva nella roccia da cui zampillava un rivoletto d’acqua limpida e fresca. Poco sopra a quel buco, una scritta incisa a colpi di scalpello che recitava: “Fonte Buia”.
II.
Le grotte sono fresche, silenziose, distendono i nervi. Marco, nel mentre era lì che scendeva insieme al disco della torcia giù nel cuore della terra, aveva già scordato i fastidi che lo avevano punzecchiato fino a pochi minuti prima, nel mondo là fuori.
A furia di svolte e cunicoli, dopo appena una mezz’ora di cammino, il ragazzo giunse dinnanzi a una porticina di legno; in un corsivetto elegante e aggraziato, la targhetta d’ottone annunciava: “Gisella”. Sì, questa volta l’amico Andrea Bulletti aveva detto la verità: non poteva che abitarci una strega in un posto del genere. Prima di bussare, però, l’eroe si soffermò per qualche minuto a osservare gli strani disegni che decoravano le pareti lì intorno. Un affresco in particolare gli rapì l’attenzione, su in alto, sopra la porta; raffigurava una Madonna con in braccio il Figlio che poggiava i piedi sul dorso di un coccodrillo blu. L’aria serena, i modi sommessi, bellissima: quell’immagine di madre metteva pace. Gli altri dipinti, invece, lo infastidivano e non poco, colpa dei soggetti inquietanti e bellicosi: spade insanguinate, sacrifici, enigmi, incendi, incesti, pazzi, bestie, tutta roba che certo non faceva al caso suo, per lui che era un concentrato di virtù cavalleresche e buoni sentimenti.
Toctoc.
“Chi è?” fece una voce di cornacchia da dietro la porta.
“Sono Marco, l’uccisore di draghi!” Non era vero, non ancora, ma suonava bene.
“Cosa cerchi quaggiù, in questa grotta dimenticata da Dio? Non sono che una povera vecchia piena d’acciacchi.”
“Non è vero. Io so di per certo che lei è una strega che conosce gli incantesimi per sconfiggere i draghi: lo narrano le leggende!” ribatté Marco.
La porta si aprì. “Ma che bel giovanotto,” sorrise una vecchia porgendo la mano, gli occhi grigiastri e luminosi. “Uh, erano anni che non vedevo un’armatura come la tua. E che bel pennacchio azzurro! Siediti mio eroe, sei nel posto giusto.”
Chiamarla strega, vecchietta o Gisella, quella lì, non fa differenza. Capelli grigio-ferro arruffati in un cespuglio di ciocche e ritrose, sottana camicia pantofole e rughe, i modi di chi cerca sempre di sbrigarsela in quattro e quattr’otto, a tratti chioccia a tratti sgarbata, brutta quanto il peccato. Una pellaccia, come si suol dire. La sua casa, poi, un monolocale ridotto all’osso: branda e coperta di lana a fantasia scozzese, tavolo e sedie, lavandino stufa e dispensa, un bagno piccino picciò. Era una donna, la strega Gisella, ed era vecchia: di cose ne aveva viste e sentite, non bisognava di granché. La vanità e le civetterie che certo dovevano averla accompagnata per buona parte della sua vita erano ridotte a una spilla d’argento a forma di spicchio di luna che teneva appuntata a un lembo della camicia. Di anelli collane orecchini e rossetti, neanche l’ombra.
Subito dopo essersi presentati, la strega apparecchiò la tavola per la merenda: una scatola di latta zeppa di biscotti al burro, due bicchieri, una bottiglia d’acqua fresca, qualche tovagliolo di carta e nulla più. Marco attaccò a mangiare senza fare complimenti – il viaggio gli aveva messo addosso una gran fame – e la vecchia gli fu dietro.
“A occhio e croce dovresti avere tredici anni…”
“Esatto, tredici anni, tondi tondi!” fece Marco inghiottendo un malloppo di pastafrolla. “Né uno di più, né uno di meno.”
“Bene…” mormorò la strega accennando un sì. “Racconta, che ci fai qua? Che ti è successo?” e Marco, sebbene concentrato sui biscotti (non ne aveva mai mangiati di così buoni), prese a raccontare di Sandrina, del drago, di quel bugiardo traditore dell’Andrea Bulletti, degli sberleffi dei compaesani, della bicicletta gettata in fondo a un burrone e insomma di tutti i casi e gli accidenti che lo avevano portato fin laggiù, nel cuore roccioso della terra.
“Oh, se è vecchia questa storia…” gracchiò la strega Gisella. “Bene, vorrà dire che ti darò subito un assaggio della mia magia,” e, senza stare a tergiversare, tolse acqua e biscotti dalle grinfie del ragazzo e aprì una botola che stava proprio sotto al tavolo. “Seguimi!”
Una scala di ferro a pioli scendeva dritta per qualche metro, non molti a essere sinceri, ma abbastanza da far dire alla vecchia, non appena toccò terra: “Questo è il centro del mondo.”
Marco si guardò attorno. Non capiva. La stanza era piccola, bassa, tenebrosa, totalmente vuota, fatta eccezione per una debole fiaccola fissata al centro di una delle pareti.
“Forse ti aspettavi di trovare barattoli pieni d’erbe, alambicchi, pentoloni borbottanti o chissà cosa: la magia è ben altro, caro il mio eroe…” sghignazzò la strega Gisella, che certo doveva aver indovinato un senso di spaesamento negli occhi del ragazzo.
“Forse…” fece spallucce Marco nel mentre accarezzava il suo bel pennacchio azzurro per distrarsi dal pizzico d’uggia che gli era presa. “Un po’ vuota questa stanza per essere il centro del mondo…”
“Dici? Guarda meglio,” ammiccò la vecchia.
“Dove?”
“Alla tua destra…”
Effettivamente c’era un elemento che rompeva l’architettura di quel nulla: la parete opposta a quella su cui era fissata la fiaccola, in realtà, era uno specchio. Marco s’avvicinò, buttò un occhio, strabiliò. Uno spettacolo che aveva dell’incredibile. Non aveva mai visto niente del genere in vita sua. Vedeva se stesso riflesso su quella parete, è chiaro, ma come trasfigurato. Alto, superbo, perfetto, lineamenti decisi gli scolpivano la faccia nella bellezza di un dio pagano, un’armatura d’acciaio gli splendeva addosso come il sole a picco sul mare, nella destra una spada che non vi dico: gigantesca. E il suo pennacchio azzurro – ah, il suo pennacchio! cinque metri di pura eleganza. Alle sue spalle, poi, come un’appendice o una postilla, la storia dell’umanità: prima la famiglia, i compagni di scuola, il brulicare della gente per le strade tra Coiano e Santa Lucia, poi bar negozi supermercati e subito dietro le celebrità dello spettacolo – cantanti, attori, calciatori, politici, registi, filosofi, scienziati, mistici, artisti, generali, re e regine, papi e satanassi, poeti e saltimbanchi – e poi ancora, a perdersi all’orizzonte, miti leggende fiabe e cosmogonie. Per ultimo, laggiù in fondo, nel punto di fuga di quel patetico riflesso della vanagloria, il palazzo di Sandrina, tanto distante che gli sbuffi di zolfo del drago si scorgevano a malapena. Figurarsi l’immagine dell’amata! Forse nemmeno un microscopio sarebbe bastato per stagliare la sua figura di fanciulla da quella bolgia di marionette che affollavano lo specchio.
La strega Gisella porse a Marco una pietra di fiume grossa come un cocomero. “Da dove l’avrà tirata fuori?” pensò il ragazzo nel mentre la soppesava.
“Adesso rompi lo specchio,” fece quella mimando un lancio.
Marco rimase interdetto.
“Avanti testone!” sfuriò la vecchia mostrandogli un pugno serrato a un palmo dal naso, “mica avrai intenzione di rimanere inchiodato a questa illusione per il resto dei tuoi giorni? Lancia quella maledetta pietra: è la strega Gisella che te lo ordina!”
A quel punto Marco – se la stava facendo sotto dalla paura; metteva i brividi quella lì, eccome se li metteva! – lanciò la pietra.
Uno schianto, uno scroscio, lo specchio che dilagava in miriadi di schegge per tutto il pavimento della stanza, la strega Gisella che intanto rideva come un’indemoniata e gridava: “Oh, se è vecchia questa storia! E adesso cosa vedi, mio bell’eroe? Avanti, guarda e spezzati!”
“Cosa vedo? La mia ombra…” balbettò il ragazzo.
“Guarda meglio,” incalzò la strega.
Marco si avvicinò di un passo, la sua ombra si fece più netta. Passò i polpastrelli sul muro. Sembrava scolpito.
Quindi la vecchia riprese a parlare: “Quella che stai accarezzando, chiusa nella tua ombra, è la tomba di un eroe, il famigerato Heinrich Testamarcia, stupor mundi di Prato-nord. Morì ucciso da un drago potentissimo, tanto e tanto tempo fa. Usa la tua torcia, guarda coi tuoi occhi.”
Marco frugò nelle tasche, tirò fuori la torcia, dette il clic. La luce della lampadina tramutò la sua ombra in un bassorilievo che raffigurava un eroe steso sul letto di morte: l’armatura, la spada, l’elmo col pennacchio. Accanto alla tomba, una lastra di marmo con su scritto un epitaffio:
Epitaffio dell’eroe sconfitto
Il drago che mi ha ucciso ha uno specchio
e un astuccio pieno di trucchi
nella borsa, le labbra
accese di rossetto. Non sputa
fiumi di zolfo, non ha zanne
d’acciaio ma incanta: sorride e la spada
passa te da parte a parte, s’infilza
nel cuore. Ah, l’amore! L’eroe non è
che una mela caramellata, lo spiedino
gli schiamazzi dei monelli al lunapark.
“Avanti monello,” riattaccò la strega Gisella prendendo Marco sottobraccio per tornare alla scala, “andiamo a bruciare questa buffa armatura. Ormai non sei più un bambino.”
Chiusa la botola alle spalle, la vecchia ordinò al ragazzo di spogliarsi subito della sua armatura di cartone e carta stagnola per darla in pasto al fuoco della stufa, e quello, ancora mezzo stordito dall’esperienza dello specchio, eseguì senza far storie.
A dispetto di ciò che ci si potrebbe immaginare, Marco ebbe un brivido di gioia quando vide il suo bel pennacchio azzurro scomparire in una vampata. Quella piuma non era stata che un peso negli ultimi tempi, un macigno di quintali che gli gravava sul cuore.
“Hai appena sconfitto il drago, l’hai mandato all’Orco. Adesso puoi tornare alle tue faccende, in città. E mi raccomando: usa bene del presente, passa ridendo sopra molte cose, non dare importanza a nulla,” borbottò la strega nel mentre si spicciava ad accompagnare Marco all’uscita, stufa della compagnia di quel marmocchio; poi però, a un passo dalla porta, si arrestò: “Cos’è quella cosa che porti al fianco?”
“Intendi questo?” domandò Marco dopo aver sfilato il coltello che si era portato appresso a guisa di spada.
E la vecchia, allungando la mano: “Esatto, proprio quello. Da’ qua… Dove hai preso questo coltello per affettare il pane?”
“Era in cucina.”
“È di tua madre?”
“Certo che sì. Ma non l’ho rubato. Glielo restituisco appena torno.”
“No, non puoi tornare indietro con questo coltello, proprio no. Manderesti all’aria l’incantesimo, prima o poi. Lascialo a me, ché il mio ormai è da buttare. In cambio ti darò un po’ di cose che ti torneranno utili per affrontare il viaggio di ritorno…” e in un battibaleno, a furia di frugare tra i pochi cassetti della sua stanza, la vecchia preparò un sacchetto con dentro una borraccia, un coltello da lavoro, un cappello di lana, un libriccino intitolato La maledizione del miele su cui aveva annotato cinque piccoli incantesimi per cacciare la noia, poi ancora due scatole di latta, una color rame piena di biscotti al burro, l’altra nera con dentro erbe, tisane, tabacco e diavolerie varie; infine, strizzato un ricciolo di tempera gialla da un tubetto che teneva nella tasca della camicia, dipinse un sole sul sacchetto utilizzando l’indice a mo’ di pennello e consegnò il tutto al ragazzo. “Grazie ancora per il coltello, ne avevo proprio bisogno. Abbi cura di te, caro Marco. Buona fortuna,” disse la strega, dopodiché un abbraccio, due bacetti, un sorriso e stoc, la porta che si chiude.
III.
Ci sarebbe tanto da raccontare sul viaggio di ritorno di Marco – gl’incontri, i turbamenti, i labirinti. Io me la sbrigherò in poche righe, ché sull’argomento sono stati scritti chili e chili di romanzi ahimè noiosissimi e a cui rimando il lettore nell’eventualità che possano interessare vicende tutto sommato trascurabili. Dirò soltanto che lungo il cammino Marco si scoprì mezzo confuso, scisso tra speranze e paure, ma che non appena si ritrovò dalle parti di casa stette subito meglio. Ovviamente del drago che minacciava il palazzo di Sandrina non c’era più traccia, mentre l’amico Andrea Bulletti, come prevedibile, non era mai partito insieme al suo babbo alla volta della capitale d’America, Tokyo, a bordo di un astronave a propulsione post-megalo-subatomica-Kant-esistenziale. Lo trovò lì nei paraggi che tirava di fionda contro le finestre di una fabbrica abbandonata.
“Sai Andrea, alla fine c’era davvero una strega a Fonte Buia…”
“Lo so bene.”
“L’avrai notato, il drago è scomparso. Adesso è tutto risolto…”
“Bravo Marco, sei stato coraggioso. Gliele hai proprio suonate a quel drago puzzolente!”
“Già…”
“E adesso che hai liberato Sandrina, cos’hai intenzione di fare?”
“Eh, e chi lo sa? Intanto spacchiamo qualche finestra. Passa la fionda, fammi fare un tiro…”
LA MALEDIZIONE DEL MIELE
Premessa
Che l’ordine sia preferibile al disordine, l’equilibrio all’ebbrezza, è cosa risaputa. Chi sente diversamente, tema se stesso.
Il Caos, la Vita, il Mondo, l’Amore, l’Uomo: il libretto che vi apprestate a leggere rappresenta una vittoria sui labirinti del miele, sulle sue vuote, estenuanti maiuscole.
Gisella
a. Caos
Appunti sparsi per un racconto sulla nonna Tonina
Una roccia che è tre fate – dà forma
Ai tuoi passi – scricchiola la foglia
Sul sentiero – il silenzio della madre
Sparpaglia le bacche – annoda la bocca
Col tordo e la beccaccia – un ronzio
Ti saltella sulle guance – la faccia
Maculata a fronde – il sole ha mille unghie
Arrossa la pelle – vestita a stracci
Zuppi di polvere – i passi in bilico
Dell’asino sui sassi – l’oscillare
Di legna secca – d’ossa quella schiena
Ammaccata di anni – la terra è un tonfo
Sotto ai suoi zoccoli – il tuo cielo è pietra
Un piatto di ceramica – che cade
In schegge, si frantuma – in gusci, scroscia
Sgorga ancora – nonna, uova il tuo abbraccio
Cocci – i miei passi che non sanno il sangue
Fra i tuoi rovi – le more e la vipera.
b. Vita
La bambina e le oche
C’è una bambina che governa
per gioco un cerchio d’oche proprio
accanto al mio orticello – poco dopo
il pranzo –, a frutta marcia e panbagnato;
ha i capelli biondi in una treccia
le guance mele rosse e un vestito
giallo acceso che le copre
le ginocchia. Le oche furibonde
(cinque per l’esattezza)
schiamazzano nell’azzurra pienezza
dei suoi occhi, litigano qualche morso
s’azzuffano. Così gioca, è così che è
felice la bambina: nella sua ciotola
in un pugno, vede il sole che arruffa
la vita tra baracche e ciuffi d’erba.
c. Mondo
La maledizione del miele
La città è dove borbottano le capriole
dello smog, il fruttivendolo al mercato il lunedì:
le sette e già traffica con un sacchetto d’arance
spiaccicato sotto le scarpe. Un viavai, un chiasso
insistente che sembra un alveare
L’uomo di città. I fuchi, le operaie
la regina: quanto daffare per una goccia,
la schiena malconcia e in mano
un cucchiaino – due-tre spiccioli e strap!
lo scontrino a chi va.
d. Amore
Frammento apocrifo di Li Po
Stelle, versatemi ancora
e ancora altro vino! L’amore è un topolino
capriccioso che mi rosicchia da dentro
il cuore come un nocciolo di pesca.
e. Uomo
Dai monti della Calvana
Lungo il sentiero che porta al crinale
anche gli scheletri sembrano vita;
l’aria sciacqua la pelle e la montagna
fruscia in una lucertola
Per le tasche non restano che frammenti
di scontrini stropicciati, la città
ridotta nella sacca in uno spicchio
di formaggio e una borraccia di latta
I passi ci portano dove il volto
non dissolve, non muta, sopra al vuoto
viavai delle strade, le sue cabale
tra le foglie e la roccia
Dove le notti chine sugli aghi e
le ombre s’aggrumano in mosche,
nel teschio di una vacca predata
dai lupi. L’anima calpesta le orme
Di seni gonfi di latte, fiuta
la traccia che precede le catene
fatate dei nomi. La bocca, secca
scheggia negli occhi coltelli di pietra,
Specchia l’origine. Nessuna paura
architetta labirinti nel cuore
quando l’ape va ai fiori, quando vanno
al pascolo le pecore e i pastori.