La domenica perenne
di Mariasole Ariot
[Eric Satie – Gnossienne no.1]
Quando il tempo si ferma, si contrae lo spazio in un grumo denso e solido modificato solo dal suono delle campane. Non è un giorno di festa, non è domenica, non è il ricordo dei morti: è solo, semplicemente, un arresto cardiaco che traccia una linea netta sulla fronte.
Siamo saliti sulla montagna più alta per osservare il lago da vicino: gelido, plastificato, una concavità che si trasforma in escrescenza muta come gli animali che ci fanno il giro attorno, e sopra, e beccano la pelle mordicchiandola appena appena.
Ho sognato un agnellino, si chiamava Anacleto, l’ho trovato nel bosco alle tre del mattino. Poi, mi sono svegliata.
Seduti attorno al grande territorio generato dal lago, non avevamo lanterne né fiammiferi per accendere un fuoco. Abbiamo così deciso per congelarci insieme, riparandoci dal vento del nord, con le teste bucate dagli eventi. A volte siamo contenitori, a volte siamo contenuti – e non ce ne accorgiamo. Io sono il tuo contenitore, sono la tasca delle tue frasi accese, tu sei ciò che contengo, un brivido molle, un’assenza in forma di presenza. Tutto quello che non ci diciamo, lo trasformiamo nel linguaggio dei segni: una mano rotea davanti alle fosse degli occhi, un dito indica il petto, poi la sinistra e la destra scoppiano dilatando il mondo.
Significa dire: tutto ciò che abbiamo coricato dentro, sta per esplodere.
Abbiamo portato con noi dei vecchi manichini, ci serviranno come totem per gli animali delle alture, se riuscissimo a confondere la pelle con il silicone, forse potremmo salvarci, fare della finta una direzione d’intento, disorientare i disorientati. Eppure, ti chiedo: non siamo noi, i primi esserini a essere senza bussola?
Il tempo continua a fermarsi, sono passati tre mesi e ancora sembra estate.
La verità è che non ci siamo mai detti nulla.
Nel secondo sogno è arrivato un uomo arancione, ha cercato di rubare Anacleto, l’ha venduto come fosse un porcospino e ha minacciato di non farmi passare al di là del dirupo.Se è possibile svegliarsi da un sogno, non è possibile svegliarsi dalla veglia.
Così ci siamo divisi. Tu hai portato le bende per fasciarti i piedi, io quelle per oscurare gli occhi. Vedere è uno strazio, un senso troppo acuto che cade da fuori nella gola, e poi scivola all’interno della cassa toracica, brivida gli organi, li mescola uno a uno, scalciano, si spostano, si aggrappano alla carne viva. E’ l’inferno del corpo, quello che ti raccontavo quando restavamo seduti sulla muraglia.
Hai ancora freddo? Le tue gambe possono muoversi?
Se dire non è scrivere, se scrivere non è ancora dire, cosa resta di questo tempo, di questo spazio rallentato in cui le informazioni passano piano tra nervo e nervo, nella camera del cervello? Il filo che avevano cucito alla nascita, come un cordone, collegava la nuca alla mano, permetteva il fluire dell’inchiostro sulla riga, appena fuori dall’unghia.
Ora il polso è gonfio, il liquido che cova all’interno è bloccato: non esce più niente.
Nel terzo sogno il gatto mi ha indicato la zona dei morti . Le due sagome giganti come statue ridevano sul piedistallo. Sant’Antonio da Padova, e uno sconosciuto. Il Santo si è chinato, mi ha detto: abbiamo poco tempo (i morti durano poco) – e ci siamo avvicinati alla cripta.
“Vedi la donna dipinta?” “Sì, la vedo”
“Anamorfosi. Da questo punto puoi vederle i seni, dall’alto il viso, da sotto non vedi niente”
“Come posso vederla intera?” “L’intero non esiste”
“Perché ci sono questi segni blu?” “Un corpo violato. Sono i graffi del re: anno 1215”:
E’ tornato sul piedistallo, ha riso, mi sono accerchiata di dolore. Il gatto traghettatore ha riattraversato la strada, l’ho seguito.
La voce dei morti non è mai abbastanza.
Ora non ci sono più mani: non c’è più il tu che fa di noi un noi. La montagna ci sorveglia – tu nella tua recrudescenza, io nella mia postazione immobile.
Sono costretta a rifugiarmi nella caverna, a mettere pezzi di carne sui bulbi: vedere, ora, significherebbe accecarsi.
Può un bambino fermare il tempo fino a quando il tempo non dà più segni di vita? Può il mondo non avere più mondo? Può lo spazio contrarsi in una coda di verme?
I bambini sanno nascondersi dal temporale. Noi ci limitiamo a dire: piove.
Era da moltissimo tempo che non mi emozionavo tanto leggendo “qualcosa” e per questo ti ringrazio perché capire di essere ancora vivi dentro è una sensazione bellissima.
Grazie, Tina. Non ti conosco, ma queste tue parole sono davvero un dono prezioso: quel “capire di essere ancora vivi dentro”, attraverso ciò che ho scritto, mi ha commossa. Grazie ancora.
Sarebbe bello, un giorno, ragionare davvero insieme, qui, altrove, dentro, fuori, attorno a ciò che la parola muove. Anche quella detta, anche quella silenziata.
“Vedere è uno strazio”, “Vedere significherebbe accecarsi”.. Spero che tu possa continuare a scrivere quello che vedi Mariasole, che tu possa farci dono di questi tuoi sensi “troppo acuti”. Perché la bellezza che ne scaturisce è tanta. Una voce e una lingua uniche come le tue meritano di essere conosciute e riconosciute
ci sono scritture in grado di farti compagnia, e dunque strapparti dall’isolamento senza intaccare il tuo bisogno, desiderio, di sentirti solo. Sono scritture rare a leggersi e a farsi. Questa è una di quelle. effeffe
Se dire non è scrivere, se scrivere non è ancora dire, cosa resta di questo tempo, di questo spazio rallentato in cui le informazioni passano piano tra nervo e nervo, nella camera del cervello?
Fra astratto e concreto c’è una specie di spazio intermedio, di zona franca, in cui le due dimensioni si donano l’una ciò che manca all’altra, riunendo gli opposti in una nuvola pulsante, emozionante, appunto, che dà emozione.
Non a caso il concreto scrivere, che ha le sue concretissime radici nella figura dello scriba che incide segni su una tavoletta di cera, vira verso l’astrazione nel termine scrittura che intende il labile indefinibile corpus stilistico di immagini di uno scrittore. Così come vista, l’atto tecnico fisico del vedere, luce e raggi su corpi, fra corpi, nel diventare visione apre alla vista e apparizione di cose soprannaturali, incorporee visibili solo dalla mente, in una specie di invisibile sogno astratto, che solo le parole possono tradurre agli altri.
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effeffe: grazie per questa riflessione. Non so cosa possa accadere nel leggere, ma nello scrivere hai colto nel segno: entrare in contatto con l’altro, pur restando in una zona di solitudine, un posto buio ma forato, attraverso cui poter dire.
Cara Orsola, le tue letture sono sempre qualcosa di magico: come una cucitura, un riordinare i frammenti e passarci un ago e un filo fino a crearne un tessuto.
Grazie, Mariasole. Bellissimo.
Bellezza pura e drammatica, trasfigurazione simbolica come una vertigine implacabile, come spalancare le porte della tenebra o del dolore a un infinito di cieli possibili – o come assistere all’incessante mutarsi della materia vivente nella luce accecante dell’eterno, del pulpito di un istante nell’immobile sorriso della statua.