Nel bosco degli Apus Apus #3
di Mariasole Ariot
Apus apus: “Una sua peculiarità è quella di avere il femore direttamente collegato alla zampa, tanto che il nome scientifico deriva dalla locuzione greca “senza piedi”. Questa sua caratteristica fa sì che non tocchi mai il suolo in tutta la sua vita; infatti se disgraziatamente si posasse a terra, la ridotta funzionalità delle zampe non gli consentirebbe di riprendere il volo”. Quindi dorme in volo.
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Nel tempio dello stomaco si aggroviglia una frase, la parola abitata, la mandria popolosa dei bambini. Esiste uno spazio cavo, pronto all’offesa, un luogo maledetto dalle pietre e dalle incoerenze dove tutto è il contrario del già detto, dove io non sono, non abito la lingua.
Tu ti muovi in questa zona periferica, nelle braccia di una madre acefala. Se mi abiti, io cado, se ti abito, non muovo.
La vedi questa luce? E’ il giorno fasciato degli inverni. Io predico e tu mi canti, io muovo le dita tra le frasi, tu mi tagli la gola.
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Quella di Madrid arruginiva le giunture. Un brulicare di andirivieni di fotografi e paesaggi di giovani con le piume di uccello. Noi avevamo i binocoli del tempo: spingendo l’occhio nell’arnese riuscivamo a coglierne i movimenti.
Era straziante: noi, le ragazzine mutilate nella testa, una piccola lobotomia in cambio di un fiore o un sacchetto di dolci. Ci scontravamo giorno dopo giorno con la verità, mentre Nien, che aveva il dotto lacrimale bloccato, diventava un cristallino di pioggia.
Marimar, puoi vivermi nella bocca? Puoi arrangiare un movimento?
No, Claire: non vivrò nella tua bocca, non sono un moscerino: le mie zampe sono solo stampelle.
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Oggi non c’è temporale, il cielo spaccato in due come una testa rimanda solo una debole foschia funebre. Vedo le tracce lasciate dagli animali nel sottobosco che riducono le mie impronte a poca cosa: un corpo che si muove senza scia, senza bava, che non lascia saliva né rappresaglie. Il tempo immobile da mesi è un’ora che non smette mai di essere se stessa.
Non dispero: ho una sacca uterina in cui crescono creature ibride che non vedrò mai: parti matricidi per fare del vuoto un vuoto.
Ora che sai tutto – madre – cosa pensi di farne? Le tue parole sono le mie parole, le tue fauci la mia disperazione.
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Poi, di fauce in fauce, lui allagava inaffiando anche i pensieri. Aveva una collezione di piccole teste impilate nella bacheca degli orrori. Lavavo la sua col sapone di marsiglia e lui diceva : taci, e lui diceva: ancora, e poi diceva: basta così.
Nutrivo il suo stato secco con mangime triturato, preparavo pietanze e frattaglie.
Può un uomo divorare un’ombra? Può quell’ombra diventare un: tu?
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A volte, in quel divorarsi della collina, ho creduto di essere morta.
Hanno sparato al lato della gamba per capire se un riflesso fosse possibile. Non mi sono mossa, facevo la parte dei girini quando sono spaventati.
Eppure non ero spaventata: nel bianco giocavamo al gioco del morto, e chi resisteva guadagnava un posto più alto in camerata. Un bicchiere di vino, una finestra.
La vecchia volpe vinceva sempre: nonostante fosse legata al letto, coi barbiturici sottovena, aveva la tenacia dei dimenticati. Non poteva più perdere niente. La guardavo ammirata come una pietra dura
“Hai aperto il buco nella rete?”
“Non avevo coltelli”
“Diventa allora un buco: infilaci la testa”
Ma essere saggi, qui dentro, non è mai servito a niente.
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Oggi la montagna è un sasso cavo, una pietra posata sul mondo per dichiarare guerra alle frontiere. Questo io che non sono io, questi nervi appesi nella dispensa non dicono niente, si limitano a ondeggiare per essere passati di mano in mano, di zampa in zampa, di corda in corda. Eppure, il ventre è pieno di luce: ho ingoiato Mirach, il “lato destro di Andromeda”*
Essere senza piedi – madre – significa: avere solo un posto in cui giacere : dormire un sogno di cielo nel cervello, quieto come quieto è questo sole appeso.
* Il nome Mirach, così come i suoi derivati Merach, Mirac, Mirak e Mirar, provengono dall’arabo المراق al-maraqq, che significa “la schiena”. Nell’astronomia araba veniva descritta anche come il “lato destro di Andromeda” e chiamata Al Janb al Musalsalah, “il lato delle donne incatenate
che bello questo bosco!
Grazie, Sparz! A volte ritorno…
Buongiorno, sono NGC 404, quella stellina alonata, detta “il fantasma di Mirach” visibile alla sinistra della prepotente abbagliante MIRACH, che con la sua luminosità oscura quasi completamente la galassia:
Sono molto felice che tu abbia ingoiato Mirach… ora brillerò sola e quieta il mio sogno di cielo con te, qui vicino a te, a 11 milioni di anni luce dalla Via Lattea.
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E’ ancora una lucina in grembo, la dolce Mirach. Perciò sì: andiamo a 11 milioni di anni luce dalla Via Lattea, Orsola. C’è bisogno di viaggi, di allontanamenti, di fughe, di passato, di stellate.
Bellezza pura e drammatica, implacabilmente sospesa in un vortice di riflessi semantici, come un grumo di materia o di dolore che si perde nel cielo, e scomparendo tramuta ogni palpito di vita, ogni ferita creatura nella luce o nel marmo dell’eterno.
Grazie Mariasole, la tua scrittura folgora e rigenera.
Grazie a te, Carlo, per questa tua lettura e per le tue parole.
Io ho sognato, c’e’ dolore, ma le parole che usi non mi suonano tetre, sara’ per i piedi che non toccano mai il suolo, ho avuto la sensazione di volare leggera, sopra il dolore, distante comunque. Grazie