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Su Pacific Palisades, dal libro alla scena

di Mario De Santis

Avevo letto Pacific Palisades prima di vederne la mise en scene fatta con la regia e la lettura di Alessandro Baricco e la con video installazione e con la musica dal vivo di Michele Tescari suonata dall’autore e dai suoi musicisti, a Roma nel programma RomaEuropa Festival.

Il testo mi era sembrato diverso da quelli scritti da Voltolini che avevo letto negli anni 90, ad iniziare dal primo Un’intuizione metropolitana. Il registro di Voltolini finita la lettura su carta, mi aveva lasciato l’impressione di una partitura che rispetto ai primi libri, avesse minori combinazioni sonore nella prosodia, minori risonanze di ritmi, era come rallentata, non insisteva sulla ricercatezza verbale.  Insomma quello che Lotman direbbe un “tasso figurale” più basso, anche se paradossalmente con la scelta del verso – lungo – e gli accapo – il libro si dispiegava in un poema, in un dispositivo narrativo più nettamente versificatorio e “largo”. LA prima lettura è stata però corretta dalla sua esecuzione nello spettacolo per la scena su cui tornerò alla fine nella postilla**

Nel libro c’è pur sempre un’intuizione, ovvero un pensiero che  rincorre sé stesso, non solo la percezione ma in misura maggiore il ricordo, mescolando tutto. Tiene assieme un intreccio di storie che sembra affondare nella biografia autoriale, con sfumature di luci, atmosfere, riflessioni sul tempo. Pacific Palisades narra di varie figure di un’Epopea famigliare, sei fratelli dispiegati biograficamente nel secolo Ventesimo che fu popolare e industriale – e in questo caso comprendiamo quanto, interamente, con questi caratteri, si debba considerare torinese

Le prime figure danno barlumi da lontani, introno alla prima guerra, le ultime sono la vivida presenza della figlia dell’Io-scrivente, che gioca con GoogleMap, immersa nel presente dei viaggi planetari e delle interconnessioni, in una geografia che si fa ormai quotidianamente distopica che in minima parte è all’origine del titolo che diviene metafora nel libro. Nasce quest’immagine un giorno attraversando Los Angeles: lo Scrivente incrocia quel nome su un cartello: è un luogo, un toponimo della città, ma l’Io non lo vede e tuttavia lo immagina a partire dal nome.

Tutto il mondo del resto è questo dispiegamento percettivo dentro cui ci dobbiamo muovere come fosse un organismo vivente, perché lo è: esso è percezione dentro di noi che va a sommarsi e confondersi con la memoria e allora “il mondo” e “noi” vengono individuati da Voltolini come un continuo andirivieni tra fenomenologia e memoria, tra non-luoghi e una precisa heimat proto-industriale di Torino, tra invenzione e realtà, come una rimembranza che attinge a ciò che sarà.

Così come le “palizzate sul pacifico”, immaginate diventano la metafora di un filtro e di un avamposto, di una fragile immersione in un grande moto , di onde più-che-interiori, in cui vanno a confluire memorie collettive e percezioni singole. Il tempo e la storia non procedono, se non nell’oggettività del susseguirsi numerico di anni e ore, nella presenza evidente di una catena biologica di figli dei figli. Tuttavia il tempo è principalmente uno spazio di tensioni cercando qualcosa che come le palizzate, sta piazzato in un luogo interiore (“dentro ciascuno di noi c’è un territorio/ non sappiamo quanto sia segreto/ ma è simile a un midollo/ appare dopo l’ultima difesa dura dell’osso/ in questo spazio nasce continuamente/ non sai cosa/ e non ha un centro forse/ forse è il centro..” e poi con un’immagine Voltolini  mette il primo timbro forte a questo testo e al suo senso “ quel territorio dove continuamente rinasciamo”.  Il territorio interiore ha di fronte quello esterno, in mezzo il testo. Linguaggio come risacca di Topografie, fatti, i ricordi, che mutano il tempo, in una metamorfosi di rimandi che solo impropriamente definiremmo un presente continuo, perché invece è anche un passato sempre qui così come un futuro già presente.

La materia narrata ha alcuni ritratti di famiglia, molto belli: la donna che va al bar, che si spegne beata nel rifugio dell’alcol, e introno ha la Città-Personaggio. Ci sono poi i traumi della guerra che incidono nel padre, nello zio, gli ammazzati visti nel loro essere nuda morte. Poi l’esser gettati nella pace di un tempo del lavoro, nella Fabbrica che darà morte e benessere, lo scrivente bambino che porta latte anice per polmoni catramati, o per mano con la madre, la Standa, tutto per decenni, prima di diventare cinema o bingo, rendendo postuma l’utopia di felicità, cosa cangiante nella sua veste sussidiaria a forma di piacevole. Fino all’oggi delle fabbriche demolite o ristrutturate, all’oggi di Milano o degli stati Uniti, del dislocamento immaginario.

Oggi i figli di quegli operai misurano il benessere in ex-fabbriche votate al fine wellness: palestre o enoteche, o centri culturali come le OGR o il Lingotto diventato Eataly, dove la cura di sé è nella degustazione di vini o nel fitness. La Storia sta sopra, come una nuvola rossa di smog ferma nella sua bellezza. O sotto, a premere (“che cosa sale dai manti stradali/ dalle lastre di pietra che calpestiamo/ un vapore un’irradiazione? / Quanto ha a che fare con il passato?” p.21).

Pacific Apliside. Siamo come quelle palizzate, piantati nella risacca tra ieri e domani, tra l’amore vissuto e la violenza ereditata e subita – dagli avi, che si riversa su di noi anche dalla Prima Guerra sull’anonima giovane ragazza che al cimitero piange un morto nelle trincee, anche se non l’ha mia visto e conosciuto – e quel dolore che la attraversa, è il nostro, trasmesso in noi dai traumi dei morti che padri e zii hanno visto nelle strade di quella stessa Torino morbida e accogliente di oggi.   Il luoghi della sofferenza di fronte a tutti i luoghi dove c’è stata ci arriva addosso “come dal crollo di una diga immensa/ un flusso di dolore scende pesante e violento/ da quegli anni giù per tutto il Novecento e arriva ancora a noi”. Noi non possiamo erigere confine, muro, “ringhiera fragile” ed è un bene. Il tempo di oggi dice quel che sarebbe potuto accadere ieri e non è accaduto: eppure la forza oceanica del tempo è come se tramettesse a noi ancora intatta la possibilità di un’altra storia.

Il big bang della stella di ogni redenzione è il dolore (“Il dolore tocca come una pietra piatta lanciata sull’acqua/la superficie in più punti prima di inabissarsi/ e restano cerchi concentrici che si intersecano/ sullo specchio delle nostre più originarie sensazioni”). Forse perché alla fine quella lunga mareggiata dell’utopia che fu essere popolo, non s’è mai compiuta, disseminata e dispersa – nel senso del “Disperso” di Maurizio Cucchi – in particelle atomiche di posterità. Clonamene di non-direzioni. Noi siamo dei linicoli di polvere, che sfiorano questo spazio-palizzata, verso il pacifico della Storia. C’è stato dolore, è ancora disperante.

Eppure amiamo. Non è stato solo dolore nella Storia, anche se ha rotto le ossa e carbonizzato polmoni. Quello che abbiamo amato, ameremo, esiste e resta in quel grumo, in un punto, che è l’origine di tutto, di noi che ci sentiamo ormai senza origine.

Per una generazione del 900, quella dei nati negli anni-boom tra fine 50 e inizio dei ‘60, c’è la sorte d’essere in una strana condizione: di non sentirsi mai a casa: non solo vicini ai morti, né proiettati nel futuro, come lo Io-Scrivente che prende appunti di nostalgia sullo smartphone

in un bar anonimo  di zona grigia di città e secolo – ed egli pure è “senza storia senza forma/ di qua verso il centro città/ di là verso il cimitero”. Ci rinasciamo dentro quella storia, il secolo, morendo con essa essendo poi generazione di ultimi esponenti. Memoria, narrazione, prendere il padre Anchise sulle spalle.

Indeterminabile però in che forma (1) (anche letteraria) si dispieghi ciò che chiamiamo tempo, se non in un lago di memoria, tempo che siamo, siamo stati e saremo perché di fatto indeterminabile la sua struttura e conoscenza delle cose –  ciò che ci sommerge – ciò in cui affondiamo –  è un noi di correnti liquide memoriali, storie e immagini, l’ingombro, la palazzata e ciò che in essa si impiglia, tra “noi” e “il mondo”.  Così per la scelta poetica di Voltolini. In un flusso tra verso e prosa, non solo le immagini del mondo i suoi fenomeni che percepivano, ma anche il contrario: “così sul mondo noi lanciamo talvolta/ immagini da un nostro interno proiettore”. La poesia che nasce dallo sguardo sul mondo incontra i fantasmi di nostre immagini irrelate e interiori. La palizzata sul Pacifico alla fine è questa cosa. L’immagine riemerge come da un ricordo o un sogno.

Ricordare è conoscere, dentro/fuori. Si va nel pozzo e si va ad incontrare cose, connettendo il punto midollare di una coscienza sensitiva, che “forse ha a che fare con qualcosa / che nella nostra bella lingua chiamiamo anima”.   Proprio come si dice nel testo: “quel punto”, in cui siamo continuamente rinati. “Forse è quel territorio, dove continuamente / nasciamo, che cerchiamo di ritrovare/ di ricordare” è – scrive Voltolini – “un’urna” che fa da zampillio sorgivo di un’attività che spinge al futuro tanto quanto si rinnova nel ricordo.

Urna e culla. Quel punto in cui la sorgente è il bambino ritrova il cartoncino di natale che aveva scatenato fantasia, ma la fantasia non è a sua volta forse un ricordo primordiale?  La poesia non ha un origine, un dio immobile, è già-da-sempre ripetizione, va a capo in un continuo rinascere senza mai essere stato.

Partecipa a questa dimensione dell’Impalpabile midollo, a questa fragile fissità delle palizzate, anche l’osmosi tra l’aldiquà e aldilà di una paratia di schermi che divide il palco in un davanti e un dietro, su cui passano immagini come in certi quadri delle fiamme e dell’acqua, lentissimi, di Bill Viola richiamato dalla scenografia dello spettacolo a Testaccio, con Baricco recitante,  dove le immagini si sfarinano completamente come polvere delle fabbriche e di carbone o neve in mulinelli, echeggiando la leggerezza di Cavalcanti, quando Voltolini coglie l’ impressione che “brilla come il cristallo di neve brilla” (74). La poesia va a collocarsi sempre in questo fragilissimo elemento, l’attimo di quando la matita si appoggia al foglio, come dice Milo De Angelis. E’ la fragilità minerale del lapis, nello scricchiolio disgregante che traccia lettere, c’è parte di quel “punto originario/vicino alla nostra intima personale sorgente” il cui flusso risaliamo, andando giù.

La forma particolare dell’archeologia di un tempo disperso e da ritrovare in Voltolini consiste nel usare palizzate di riferimenti all’epoca come aghi della memoria (e nella memoria), per ricucire brandelli, ferite, strappi della storia. Tutto scorre “nelle vene del tempo” ma non è come un fluire univoco e irreversibile: il sangue nelle vene fluisce sempre e dovunque è sempre lì, come del resto il tempo nella sua più vera dimensione viene descritto dalla fisica atomica, una permanenza spaziale di metamorfosi.  Il tempo non esiste, ma è dove un poeta a Tokyo scrive di notte, una nonna afghana viene operata a Delhi, dove un amico vive, a Bangkok, nella Los Angeles dove lo Scrivente e la moglie vanno in viaggio di nozze, insomma in tutto l’accadere dei fenomeni e della memoria di essi. Tutto è Pacific Palisades.

Ogni volta che si scrive si cerca un tempo, un punto, un’eredità, ma si finisce per fare (anche, se non solo) l’elogio del metodo con cui cerchiamo tutto ciò, mai raggiungendolo – ma che di fatto diventa la nostra origine-seconda.  E’ sempre la parola, il segno, l’ombra dell’icona, la pressione sulla retina di un sogno.

Come del resto tutto nasce non dal luogo fisico della Pacific Palisades, ma l’oscillare come nel bosco di bambù di Kyoto, delle lettere che le compongono in un “canto strano” o “parole strane” che sorge dalla palma del poeta. Sorgente che non è pino ma è un punto zero, non è collocabile esattamente in un punto né spaziale né temporale, è la trasfigurazione continua, questa palizzata pacifica apparentemente ferma. Tutto non è movimento, ma trasformazione, “io” e tutto il “mondo intorno”: la lingua, “la nostra bellissima lingua” lo ricuce con ago e filo, lo riporta continuamente a vivere. Per questo, seppur in forma di postilla, è necessario aggiungere un segmento sulla forma del testo.

**  Postilla sulla forma-testo e sul suo adattamento per la scena.

Pacific Palisades si fa poema in cui tutto questo cerca di tenersi e lo fa con una scelta formale in cui forse decide di lasciar spazio al lettore alla sua percezione del mondo e di questa risacca dove “ogni confine può essere oltrepassato” e non lo incastra con l’esattezza di una prosa/poesia, neppure con una narrazione così precisa –  che finirebbe per imporsi. Voltolini agisce per sottrazione, come dicevamo all’inizio, rispetto a testi precedenti, ma il tono minore è un preludio a percorsi interiori stimolati da echi, vuoti, risonanze – e da musica e immagini, dalla grana della voce di Baricco. Lo dico in breve: il testo di Voltolini dopo la lettura ha trovato suo pieno compimento nello spettacolo che ne è stato tratto. Non che non possa stare da solo, ma si fa più forte.

La diversa soluzione formale là dove sembra sottrarsi, invece lascia spazio a quel che inevitabilmente è l’evoluzione della letteratura oggi, che per la poesia ha due polarità:
1) attenuazione del tasso di figuralità e del gergo poetico-lirico, compresa la metrica (esempio importante Mazzoni, ma più in generale una tendenza anche in questo verso libero e lungo di Voltolini, un “andare verso la prosa”  – processo cominciato dentro la lirica già negli anni 60 (si trascura che non sia stato sempre uno scontro tra avanguardia e tradizione ermetica).

2) Mescolanza con altre arti performative (a questo proposito resta l’esigenza di dare  una ritmicità alla prosodia, alla sintassi, già nel testo scritto).
Le mescolanze con altri linguaggi, il testo che in voce si fonde a musica e immagini,  non sono solo decorazioni applicate o una preferenza della performance che a mio avviso adombra una qualche ingenuità  proto avanguardista in tutta un’area che arriva fino agli slammer, che pure hanno altri meriti, come riportare  al centro dell’agorà, del luogo pubblico la parola poetica. IN tutti, in ogni caso pesa un mutamento sociale che si è fatto mutamento di estetica, di poetica, quasi più storico e sociale, legato a ciò che è percepito come arte, proprio dalla generazione-boom – e le seguenti del dopo-boom –  di Voltolini.

Mi spiego. Chi è nato dal dopo guerra in poi, ha avuto come frangia formativa  le arti popolari,  popolare, come il rock, ma non in senso minore – il folklorico rispetto al colto – ma come codice sorgivo di linguaggi, nato dal basso, nato da quella novità esistenziale che fu una società di massa – che nel concreto a noi era una civiltà contadina gettata nel contesto urbano, senza contorno di borghesia, di tradizione culturale, ecc. ma anche nelle società più strutturate – mettiamo la Gran Bretagna – è così.

La musica rock, il jazz, il cinema, la radio – tutti questi linguaggi presenti nello spettacolo-reading con voce, schermo, strumenti – insomma popolare visto  nella chiava “popular “ del Gramsci usato dagli studiosi americani per studiare il loro blues, country, folk, jazz e rock.

La musica e la voce diventano una sorgente di senso ulteriore, un iper-linguaggio inserito nella lingua di un poema che ha come tema una distopia dell’anima, l’avvicinarsi a quel punto perduto e nascente in cui tutto si ritrova, e trova sua migliore forma di linguaggio allora proprio sul palco, dove le risonanze si moltiplicano nell’impalpabile di accordo o di un tono di lettura. Nelle pause, nei ritmi e contro ritmi, ma di fatto riducendo moltissimo tutto un apparato di complicazione testuale.  (1)

Sullo sfondo di una questione aperta di tipo epistemologico ed estetico (ma Dario Voltolini a volte lo si può leggere alla luce di una certa eredità del pensiero della scuola della fenomenologia torinese così come della poesia di Giovanni Giudici e Vittorio Sereni) pur nell’anomalia di una forma-testo versificata e narrativa, piena di immagini,  fantasmi e dettagli,  che cerca compimenti in altre arti, “Pacific Palisades” si colloca nella direzione da quel dentro cui accennavamo prima sembra si stia tracciando un Dopo la lirica (per riprendere il titolo felice dell’antologia di Enrico Testa) una sperimentazione con gli elementi della tradizione nella sua metamorfosi di un nuovo che sempre accade.

  1. Le due note contraddistinte da (1): riduzione del tasso figurale e della complicazione linguistica e logica, nonché scientifico-percettiva non chiamata in causa e richiamo invece ad una metafora più ampia e semplice (le palizzate sul pacifico) Fanno riferimento ad una possibile “indeterminatezza”. Cerco di precisare, le intendo come un richiamo ad una forma di vita e a un campo di percezioni (un “area della mente” se ne occupano le scienze neurologiche, anche in rapporto alla poesia) in cui prende forma il senso dei fenomeni, cercata in una contemporanea forma di singolarità e impossibilità, che resta nella sua “irriducibilità” a qualsiasi categoria, a una definizione.
    Ciò non significa attestarsi sul punto metafisico o rimandare ad un mistero.  No, l’indeterminatezza, come la relatività è stata la più drammatica conquista di un ‘900 che si è fondato su una sorta di repentina liberazione da sé stesso, nella dialettica tra strettoie e griglie delle ideologie, del sapere strutturalista, di un determinismo scientista, sotto cui ha lavorato una continua decostruzione di tutto ciò che è nata dalle arti e ha fatto del processo del linguaggio artistico, non più un complemento di una visione del mondo, ma proprio la visione non più radicata ad una struttura determinata di come funziona quello sguardo…Insomma, l’arte è la polifonia del senso, dei significati, l’arte ha permesso anche alla scienza di poter approdare ad una pluralità in cui tutto può avere cittadinanza e possibilità – e niente avere dominanza. Ma né una nota né una postilla bastano ad esaurire una discussione ancora in fieri, dove forse la scienza – come la fisica delle particelle elementari – rimette in discussione parecchie cose.

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