Le stanze dell’addio
di Francesca Fiorletta
Possibile che tu mi voglia muto in faccia alla tua assenza, mentre indico a chi mi sta attorno un punto inconsistente, e non riesco a dire che di lì, forse, mi pare di averti vista passare: così mi vuoi?
Proprio come in Cara, il celebre inno all’amore di Lucio Dalla che pure troveremo citato più avanti (“Cosa ho davanti? Non riesco più a parlare”) questo libro lascia per qualche istante ammutoliti: è una sorta di effetto inevitabile, un gesto naturalissimo, come davanti allo scodinzolare di balene nel mare agitato della memoria dei sentimenti.
Perché ci sono le balene, ne “Le stanze dell’addio” di Yari Selvetella, recentemente edito da Bompiani, balene di ogni genere e natura: c’è Moby Dick, che inaugura ciascuna delle tre parti di cui si compone il romanzo, con citazioni sempre calzanti, immaginifiche e altrettanto aderenti al doloroso contesto di realtà; ci sono viaggi che s’interrompono prematuramente e traversate su cui imbarcarsi all’improvviso, a bordo di grandi navi che solcano le onde spumose, rifugio non rifugio per i mammiferi tanto cari.
E poi ci sono le balene dell’anima, il più canonico e altrimenti detto “elefante nella stanza”, ossia la malattia, lo strazio perdurante, infine la disastrosa morte. La perdita progressiva e scadenzata della persona amata, vissuta e rivissuta attraverso tappe già quasi tutte preannunciate, conclamate, prevedibili salvo piccoli e per così dire definitivi accidenti. C’è, in questo romanzo, la paura d’impazzire, e forse anche una certa dose concreta di impazzimento; ci sono, con tutta evidenza, le molte, struggenti stanze.
Stanze profonde come gli abissi neri in cui macerano i dolori più intimi e segreti, e stanze asfittiche coi soffitti bassi e le pareti finte di cartone dentro cui perdersi come un gioco claustrofobico di scatole cinesi; ci sono stanze svuotate dai mobili e dagli oggetti personali di una vita, che pure conservano ricordi precisissimi del passaggio quotidiano al loro interno, basta anche solo una macchiolina di latte o una folata di tabacco per riportare tutto in equilibrio. O almeno questo è quello che vorrebbe credere, forse a tratti, l’autore. Ma le stanze si moltiplicano, assumono varie forme odori perimetri, sono tante quante le tappe della scoperta, del dolore, e finalmente della rinascita.
Ho amato molto, è vero. Per questo mi sento in grado di farlo ancora, e meglio.
E ancora:
Forse è qui lo scandalo: soffro, ma non mi sento in colpa a essere nel mondo, ad andare avanti, a innamorarmi. Non mi sento affatto in contraddizione per questa leggerezza di cui ho una gran voglia. Ci vuole incoscienza perfino per attività banali come camminare o masticare: se uno ci pensa finisce che si incanta, che non ci riesce, che inciampa. Per questioni complesse non ne serve di meno.
Non c’è però reale incoscienza in questo libro: la prosa di Yari Selvetella è sempre lucida, netta, si avvale di una precisione quasi ossessiva, ma sicuramente viscerale. La storia di quest’uomo che perde (la sua donna, la sua lotta, la sua strada?) è anche la storia di come le prospettive possano continuamente cambiare, mutare logiche e direzioni, alternare ma non per questo alterare il punto di vista. Non c’è un unico personaggio che racconta, in questo romanzo-stanza, ce ne sono vari: ad esempio, c’è il ragazzo che lavora nel bar dell’ospedale che guarda l’uomo inconsolabile, reso pazzo dalla scomparsa repentina del suo amore; c’è l’uomo lucido sopravvissuto al dolore, che guarda l’uomo pazzo inconsolabile che forse è stato e forse non si è mai concesso di essere, protetto e assediato insieme da una certa distanza temporale. C’è il ragazzo che fugge dall’uomo pazzo e che insieme lo insegue, che lo ritrova senza sapere che non esiste più, o sperando forse che esisterà per sempre; c’è l’io giovane desideroso di raccontare all’io adulto qualcosa che non esiste più, e l’io adulto che invece spera e teme insieme che quel qualcosa possa esistere e resistere per sempre.
Scatole cinesi, stanze, balene, navi, e la spuma corposa del mare su tutto: balsamo, cancellazione, eterno ritorno. L’addio di Yari Selvetella è il più avvincente degli abbracci.