Da Genova a Istanbul

di Marino Magliani

Genova. La città da cui si può solo partire, forse perché sembra non accogliere, con i suoi imbuti stretti e le sue fungaie di palazzi rosi dal salso, e soprattutto con subito dietro le montagne. Strana città, Genova, le cui comunità di emigranti hanno trovato il loro spazio nel centro storico e non nelle periferie. È da questa città che viaggiano le storie umane di Sesso apocalisse a Istanbul (Giunti, 2018). Giona Castelli, poco più che cinquantenne, affascinante libraio, e perdedor, ha dovuto chiudere la sua libreria (guarda caso situata nel centro storico di Genova) che aveva messo su in gioventù con l’aiuto del padre avvocato perché quel figlio non “sapeva fare altro”. In effetti è vero, ma quel mestiere di libraio, in seguito, Giona Castelli l’ha saputo fare come pochi. Fin quando la crisi non gli ha rosicchiato gli affari e il capitale e Giona non riesce a salvare nulla. Deve vendere persino la casa. Non gli rimane molto. È il crollo dei sogni, “ il crollo delle sue Torri Gemelle”, ci racconta un io narrante del quale sapremo ben poco. Avesse una famiglia, una madre… E questa ce l’ha ma è una madre cui manca il cuore di madre.  E sull’aspetto materno, sulle madri che mancano, in questa nota che prova a far conoscere la mineralità e l’umanità del romanzo di Giuseppe Conte, torneremo.
Il personaggio femminile è Veronica, Vero, una donna molto bella e sensuale, colta, divoratrice di libri. Vero è una ricca ereditiera, famiglia di armatori, sposata a un noto nome della politica nazionale, un senatore. Qualche anno prima del viaggio a Istanbul con Giona (viaggiano separatamente perché lei è una donna sposata e troppo in vista) ha conosciuto il nostro libraio nella sua libreria, e in mezzo alle pile di libri prende corpo il loro rapporto, che all’inizio è pura attrazione fisica e poi diventa qualcosa di importante. Vero non è una donna modello, bella fuori e dentro (alta se porta i tacchi e lo stesso alta se se li toglie), ma una donna piena di passioni e contraddizioni, di fantasia, di ossessioni. Una donna vera, si direbbe, figlia del nostro tempo. Ci si chiede come sia possibile che una donna libera e ricca non prenda le distanze da quel senatore che a letto, tra loro due, ha messo la politica, la corruzione, gli affari. Un figlio? Ecco sì, un po’ il motivo per cui non divorzia dev’essere questo rampollo che dopo l’università se ne sta sulle coste occidentali americane a studiare surf come i suoi antenati hanno studiato commercio marittimo. Ma viene sempre il dubbio che lei, Vero, non voglia salvare questo matrimonio neppure per quel figlio di cui si ricorda in poche occasioni. Perché Vero è questo, pulsione, vita, gentilezza, e nello stesso tempo dominio. È un piano di lettura molto interessante questo del carattere di Vero e dei personaggi. Vero non è bella e perdente come Giona, ma come lui è vera, è il vizio dell’occidente. Ha l’arroganza e la bassa soglia persino di rinfacciare pubblicamente a Giona che che lo sta mantenendo durante questo soggiorno a Istanbul. E tutto ciò che non vuol perdere da quel matrimonio, a parte i soldi che già possiede, è il potere.
E nel crovevia di civiltà che è Istanbul Giona e Vero si amano, si concedono e si divorano come se il mondo e la vita finissero dopo aver trascorso laggiù quel fine settimana. Assieme conoscono la città  e assieme incontrano il vecchio amico di scuola di Giona, Giuseppe Maria, “Ritz” raffinatissimo direttore dell’Istituto Italiano di Cultura, che ama Luca, un giovane prete.
Ma prima di tutto questo, c’è un giorno che è quello dell’attesa. Vero arriverà l’indomani e oggi, da solo, Giona, si trova a Istanbul e incontra lo scrittore turco Ilhan Durcan, parecchio famoso, (l’ha conosciuto nella sua libreria a Genova anni prima) il quale è in compagnia di Khaled Nejim, scrittore di Tangeri che si trova a Istanbul su invito dell’Università. I tre bevono in un caffè, parlano di mondo e di piaceri, e quando escono vengono avvicinati da uno spettro, il quale apparentemente di spettrale ha solo una bocca piena di denti guasti, e in realtà è l’elemento che senza volerlo scatenerà l’Apocalisse. Tutto, compreso il giorno di attesa, si consuma dunque in un fine settimana, ed è il tempo che, come direbbe Roberto Arlt, contiene l’infanzia del pianeta.
Ma torniamo a Genova. Genova personaggio. Perché è da lì che è partita anche un’altra storia. C’è un solco, specie di costone invaso dalla luce e di fronte la più nera ombra. È un’idea che prende corpo fin dall’inizio della narrazione e si chiude solo alla fine, nel sangue.
Anzi non può chiudersi. Il sole gira e ciò che sembrava all’opaco la mattina, il pomeriggio è nella luce.
Anche il terzo grande personaggio – l’altra storia – è partito alla ricerca di qualcosa. Ha diversi nomi, e a noi interesserà come lo Sconosciuto. Si tratta di una giovane vita tagliuzzata dalla solitudine e dalla disperazione, dall’odio. Una madre con la quale vive sottomettessa dal suo nuovo compagno che la fa prostituire. E lo Sconosciuto è abbastanza grande per rendersene conto. Un padre biologico che se ne va di malattia ma col quale per colpa della nuova compagna di lui, lo Sconosciuto non riesce a legare, neanche quando a quel padre resta più poco. Segue il vuoto, e assieme al vuoto un tentativo di affidarsi a un’idea di purezza dalla quale punire il mondo, e vendicarsi di quel mondo. E quel tentativo passa per Istanbul. Ma quale vita può rimettere dignità in un progetto di sola morte? Il terzo personaggio è dunque una vittima e sceglierà per sé un futuro da torturatore della vita altrui. Mentre la limousine dall’aeroporto di Istanbul porta Vero verso l’albergo di lusso dove la aspetta Giona, lo Sconosciuto, questo ragazzo tormentato che non riesce a salvarsi e che è già diventato spietato assassino, attraversa la strada. Stridio. Urla, la limousine non riesce a frenare in tempo. Vero scende e chiede allo Sconosciuto se si è fatto male. L’apocalisse inizia su quel marciapiede.
Questo libro ha una struttura perfetta, si gioca in quota per alcune pagine, e quando l’areo su cui vola Giona Castelli si cala su Istanbul il lettore sbarca che possiede già una dose equilibratissima di dati. Per il resto sarà la curiosità a muoverlo. E man mano che si addentra nella di vita di Istanbul – gioia e infezione – la capacità del narratore dilata le immagini, ne deforma alcune e ne aggiunge altre, l’acqua del torrente perde se stessa nelle anse e rotola verso la pianura con altra liquidità, fango, vita e morte.
C’è infine qualcosa che proietta oltre la narrazione, è qualcosa che l’autore affronta da sempre (dico da sempre perché è dagli anni settanta che Giuseppe Conte parla di natura e dignità quando la moda era ben altra), in poesia e narrativa. Qualcosa su cui lavora in Liguria, scagliandosi contro gli usurpatori di quella riga di vallate che crollano in mare, e qualcosa che  compie altrove, dentro e fuori dell’Europa, accanto a intellettuali arabi liberi come Adonis. E’ un’aria di libertà che si respira anche in queste pagine e ce n’è bisogno.

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