Per Giulia Niccolai e per Tonino Taiuti: due pezzi di teatro
di Eugenio Lucrezi
Teatro di scena, come quello de “Il fiato delle branchie”, monologo chiestomi da Tonino Taiuti per “Verso il mare”, vertiginosa prova d’artista da lui stesso diretta e interpretata che ha esordito lo scorso ottobre a Caserta, in una produzione del Teatro Civico 14. Nello spettacolo il nostro suona, rumoreggia, danza, dipinge, canta e recita versi e pezzi di teatro di Shakespeare e Dylan Thomas, di Francesco Cangiullo e Achille Campanile, di Igor Esposito e del sottoscritto. Taiuti, attore premiatissimo che tuttavia non vediamo sulle scene quanto vorremmo, è un campione del teatro napoletano più interessante, quello che si tiene audacemente in bilico tra tradizione e avanguardia.
Teatro della mente cosmica, come quello dello ”Sgambetto del lama”, che è resoconto di una narrazione divertita sì, ma serissima, resa da Giulia Niccolai dopo che è intervenuta ferita e acciaccata per una caduta accidentale, ma non troppo, all’ultima edizione milanese della rassegna “Tu se sai dire dillo”, organizzata da Biagio Cepollaro in onore di Giuliano Mesa. La poeta, che è monaca buddista, ha raccontato che il suo Lama si diverte, sì, a farle dei tiri mancini quando ritiene, il più delle volte imperscrutabilmente, che se lo meriti: ma che tutte le volte, benevolmente, la salva dalle peggiori conseguenze.
Niccolai e Taiuti sono due cascatori sicuri: ciascuno sulla propria, incertissima, scena.
Il fiato delle branchie
Io so’ caduto a mare e me so’ fatt’…
pesce, pe’ non murì.
Non mi ricordo, ad essere sincero,
si m’hann’ spinto, si so’ scivolato…
forse sono inciampato, o forse, invece,
mi sono – dio non voglia! – suicidato.
Ad ogni modo, è stato quel che è stato:
il risultato è che mi son trovato
nel pelago profondo, consegnato
ad una tomba oscura, separato
dall’aria trasparente che respirano
i miei polmoni da quando sono nato.
In quei momenti gelidi, annaspando,
non ho avuto la calma di pensare,
di ripercorrere le tappe evolutive
che in un battibaleno hanno portato
il pesce che già fui, e poi l’anfibio,
e il mammifero acquatico che a fatica,
ma in tempi – a dire il breve – brevi assai,
riuscì alla fine a conquistare il suolo;
… tuttavia conservando, com’è noto,
la potestà di respirare in acqua
per tutto il tempo della gestazione:
periodo decisivo, lo sappiamo,
ai fini della crescita, e pertanto,
dello sviluppo della personalità:
tanto che invece del cristiano detto,
che ci rammenta come ciascheduno,
nato da polvere, polvere ritorna,
sarebbe ben più saggio ricordare
che pesci fummo e pesci ancora siamo.
Ma torno all’incidente: non ho tempo,
mentre sprofondo e mi sento soffocare,
di divagare, pensando: mare! mare!
addò o sole, a’a staggione, côce ò ssale
‘e ppucchiacchelle ‘e mare acopp’a réna…
Sprofondo. Tengo il fiato. Ma pe’ quanto?
Già vedo, laggiù in fondo, preoccupati,
ll’uocchie, a decine, de’ purpe poverielle,
scamazzate int’a rena, bumbardate,
na notte appress’ a’n ata, da ‘e llampare…
… scacciate al buio dall’ uocchie d’o ciclope…
Spauràto, ‘i vveco, spauràti pure lloro.
Me ‘uardano ch’affogo e ‘i ssento dìcere:
povero mézo’ purp, sbrindellato…
chissà qua’ pescecane l’ha strazzato
tutte ‘e rranfe mancante…
Ormai sto in agonia. Provo a nuotare,
ma na mano pesante, aret’ e rin’,
mi spinge inesorabile all’ingiù.
Annanz’all’uocchie se para nu delfino.
Fratello – dice – ma te sì scurdato?
Comm’è ca sì rimasto senza fiato?
Io m’attaccava, tale e quale a te,
a’a zezzenella… te vo’ dà na mossa?
Nuota! Saglimm’! … e ghiamm’a respirà!
Fràte, ‘n ci ‘a faccio … ‘o dico scunsulato.
‘A fera se ne va. Véne nu scuorfano
serafico e assai brutto, accussì gruosso
ca si tenesse famme me staccasse
‘a capa cu ‘nu muorzo, e bonanotte.
Ma nun têne appetito, e mi sorride.
Sono oramai sul fondo limaccioso.
Scappano ‘e purpe, in lacrime per me.
Mi lascio andare, mi dico: sono andato.
Ma sorride lo scorfano, e mi dice:
Frate cugino, vott’ o mare a dint’!
Fà nu bell’ respiro! Nun sì muorto.
Ma non ti accorgi che sei appena nato?
Eseguo e subito … il cuore si fa calmo.
Incredulo, resuscito dal fango.
Nuoto tra i purpi, che fanno carosello.
Il fiato delle branchie è ritornato,
o scuorfano me dà nu colp’e coda.
Ghiamm’! – mi dice l’amico per le squame,
viene! te porto add’o’ ll’acqua è fina,
ccà stamm’ ‘int’ e lliquame, dint’ o puorto,
post inadatto per te che sei risorto!
Lo seguo incuriosito e già mi chiedo
come potrei cavarmela se un giorno
dovessi ricadere in su, nell’aria,
per una spinta, chessò, per un inciampo,
o in conseguenza di un malsano gesto…
Ma sono appena nato, è da coglione
affliggermi in pensieri così cupi…
nun ce voglio penzà. Nuoto felice.
* * *
Lo sgambetto del Lama
Non ti sei rotto il naso
(Che pure era presente),
Il pavimento è un cielo,
Un soffitto speciale.
Sangui che in te s’insanguano,
Non ti sei rotto un dente,
Per non chiedere niente,
Ti porti sulla soglia
Di un tuo viaggio spaziale.
Solo una piroetta,
Una spinta gentile,
L’amore cattivissimo,
Da un Altrove sottile,
Comanda al tuo bastone,
che è una piuma flessibile,
di farti lo sgambetto.
Il balletto che segue,
Arabesco nell’aria,
Dura soltanto un attimo.
Meticolosamente,
Nell’ordine perfetto
Di molecole sveglie
Guidate attentamente,
Tu atterri sul tuo duro
Marmo, arrendevolmente.
È la dura lezione
Che il tuo Lama birbone
T’impartisce ridendo.
La impari a perfezione,
Tu, plurima esistente,
Tu, morta ripetente,
Angiolo senza inganni,
Sorvegliata speciale,
Vaso di molti affetti
Rigorosi e imperfetti.
Ammaccata, tu ridi,
grata per l’attenzione.
Ma forse volentieri
Tireresti l’orecchio
Al tuo Lama birbone.
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Deliziosa è la lingua quando non presume né riesuma ma dice divertita l’assurda leggerezza di questo nostro passare sulla terra. Grazie a Tonino e a Eugenio, mie solfatare sempre attive su questa Italia lunare
E a Giulia? E al Lama?