Brasilia: il doppio sogno di Franz Krauspenhaar (no spoiler)
di Domenico Lombardini
Accingendomi a scrivere alcune ipotesi di lavoro intorno all’ultimo lavoro di Franz Krauspenhaar (Brasilia, Castelvecchi) emerge evidente la natura proteiforme dell’opera. Romanzo distopico, è stato detto; scrittura in cui si risentono, chiare, le letture “preferite” del nostro: Kafka, Lovecraft, Houellebecq, tra gli altri. Tutto vero ma parziale. C’è di più. Il protagonista, Ernesto, chiamato dal padre in Brasile per l’ultimo saluto (al padre rimane poco da vivere), apprende una verità terribile sul conto del genitore, un segreto che getta retrospettivamente un’ombra malefica su tutta la sua vita, perché sui figli cadrà sempre la colpa dei padri. Ma qual è la colpa del padre, quale il suo terribile segreto?
Si parla, nel romanzo, di un’organizzazione occulta, un Grande Oriente dedito al traviamento delle masse attraverso l’uso di messaggi subliminali. Si parla di esperimenti, ma poco si dice sulla loro intima natura, gli effetti, la verità ultima. A differenza dei romanzi distopici, tuttavia, in cui il protagonista si scopre catapultato e immerso in un mondo altro e alieno ma ben delineato e definito nella narrazione, in Brasilia non si ha mai reale contezza se ciò che l’autore sta descrivendo sia cosa reale o onirica, esperienza o figurazione, fatto o reminiscenza, e il mondo che fa da sfondo al racconto non è mai a fuoco ma piuttosto immerso in una spessa caligine. Qui è la natura proteiforme, cangiante dell’opera: la realtà dei personaggi è continuamente decentrata, infondata, sfumata, sempre a cavallo tra la realtà e qualcosa che sta di là da questa, che non è finzione ma piuttosto sogno, mimesi di una realtà di cui si intuisce la natura ma della quale non si ha vera esperienza ma, appunto, intuizione.
Si sta quindi in uno stato di sospensione narrativa: il racconto prosegue, la prosa continua, ma non se ne capisce la direzione, l’approdo. Anche il tratteggio caratteriale ed emotivo dei personaggi appare talvolta scontornato, talaltra troppo netto. L’amore di Ernesto per la madre morta suicida durante la sua infanzia appare a un tempo sincero e naïf, l’attrazione sessuale per una giovane donna, Denise, ricalca gli stilemi forse un po’ triti della classica infatuazione maschile per un bel corpo, il rapporto col padre improntato alla abituale, difficile e nevrotica relazione edipica. Eppure, nonostante quel tanto di abbozzato e digrossato, il racconto mantiene imperturbabile la sua tenuta narrativa: tout se tient. Questo è il piccolo miracolo di Brasilia.
La storia è sempre sul punto di rivelare finalmente qualcosa di definitivo, ma ciò non accade mai, neppure alla fine. È un sogno che non si scioglie mai nella veglia e una veglia che non cede definitivamente al sogno. Si sta tra i due mondi in uno stato di continua esitazione, non optando definitivamente né per uno né per l’altro. È come se l’autore volesse suggerirci che nulla ci fonda né che possiamo trovare requie al dolore in un accesso di coscienza ipertrofica o, al contrario, di sogno o deliquio. Forse proprio questo vuole suggerirci Franz Krauspenhaar: come in Doppio sogno di Arthur Schnitzler, ma meglio in Eyes wide shut di Stanley Kubrick, il defatigante sforzo di razionalizzare o, al contrario, di perdersi definitivamente nel sogno non approda a nulla, piuttosto siamo chiamati a farci abitatori mai stanziali di entrambi i mondi, perché, come scrisse Edgar Allan Poe, “All that we see or seem / Is but a dream within a dream”.