di Mariasole Ariot
Gaia si muove respirando faticosamente, il dolore lancinante come punte di spillo sotto i piedi, l’asfalto rimasto da quando si è gettata, l’orribile dentro le scarpe, l’orribile nelle caviglie, al posto dei tutori. La carrozzina si sposta voltandosi come un corpo muto, una protesi di acciaio sotto il suo, prima così delicato, ora in piena.
Gaia ride, si è dipinta gli occhi di azzurro, Gaia parla a perdifiato bevendo spremute d’arancio, Gaia si traveste da cervo o cerbiatto, Gaia sa parlare tre lingue.
Di quel giorno ricordo il flacone di tachipirina, la gola arsa, lo svenimento. Poi mi hanno portata in coma nell’ala ovest, so solo questo. So che quando mi sono svegliata volevano prendermi, portarmi nel reparto “giusto”, e io mi sono tuffata. Tre piani, sono caduta in piedi, i talloni scoppiati, le fratture,i corpo schizzato in mille pezzi d’ossa : sono viva per miracolo.
Di questo miracolo porta il segno negli occhi e nella bocca : un miscuglio di donna e di rossetti, di figli e di amanti, di imprecazioni e di risate, di desiderio e vergogna. Porta i miracoli nelle dita che giocano a scacchi a tutte le ore, porta i miracoli nella sala del fumo, porta i miracoli a cena, quando le ragazzine si distendono per evitare di mangiare e lei le riprende con parole secche.
Gaia è quello che rimane di un salto nel vuoto, il molto che non ci si aspettiamo, Gaia scherza anche quando piange, Gaia ha parole dolci per i neonati, per la vecchia fuggita in tram, Gaia galleggia sulla città, Gaia non cede, Gaia non tace.
Il letto è stato affumicato dall’ultima sigaretta, Gaia si sporge dalla sedia a rotelle e lo innaffia con vasi di mare, traffica con le parole dette e con quelle chiuse dentro la stanza dei ricostruttori. I piedi non le danno tregua.
Non li sento e continuo a sentirli. E’ come un arto amputato che continua a piangere, un temporale di acquavite sulla vita, un sole che brucia a mezzogiorno mentre non ho niente addosso, i cinquanta gradi a sud del mio corpo. Viva per miracolo non significa niente, significa esistere senza giustificazione. Non c’è bisogno di una giustificazione all’esistenza, bambina: sono qui perché dovevo essere qui. Perché ho due figli e un uomo che mi corica a letto e m’innaffia di seme buono, perché ho le gambe morte ma ancora aperte, perché dalle cosce in su io sento tutto, perché il tutto non è niente se non è travestito, perché ho una lingua potente, che batte sulle cose, che striscia sui tetti e sulle finestre, perché sono una finestra.
Gaia ha infilato il cuore in una scatola quadrata che ricopre di piccole conchiglie, la sera prima di addormentarsi lo sfila, lo mangia tutto fino all’ultimo boccone, Gaia lo sente battere per la notte, Gaia ha i sogni nel battito cardiaco, Gaia ha un rumore di fondo che la perseguita e le dice di avanzare. Gaia avanza, non può inginocchiarsi di fronte al mare, può solo berlo. Le abbiamo visto il seno protruso in una gigantesca montata lattea, accudisce i bambini del corridoio, li mette uno a uno sotto lo sterno e comincia ad allattare. E’ umore buono, l’umore delle madri salve, delle donne salvate, delle armi depositate.
Gaia ride come sempre, con un rivolo di sangue sulla bocca per essersi morsicata un labbro mentre decideva cosa farsene dei piedi, Gaia cambia le scarpe con scarpe nuove, il pungente è sempre allenato, Gaia lo reprime cantando una canzone per i passati andati a male. Gaia è protesa al futuro :
“Non, rien de rien, non, je ne regrette rien
Ni le bien qu’on m’a fait, ni le mal
Tout ça m’est bien égal
Non, rien de rien, non, je ne regrette rien
C’est payé, balayé, oublié, je me fous du passé”
Ho lasciato ai miei occhi quello che è stato, resta sotto le ciglia, quando divento una soluzione per un movente, quando divento la donna che sono – sempre stata e mai stata. Mi sono gettata dal terzo piano, ma ho un piano per risalire : il suono della ruggine capita perché mi sono piovuta addosso. Un ramo mi dice di non fuggire, e non fuggire nemmeno tu, bambina dagli occhi grandi: non c’è passato che non passi, non c’è futuro che non resti, non c’è che questa sala in cui voi vi dimenate e io sono immobile ma ho una bocca abile a parlare la voce degli altri. Ora tu segui la mia voce : segui il mio canto : segui il rifugio : sei tra i rifugiati ma non sei perduta. Mi sono sfracellata, sono caduta, non sono fuggita. Dalla bottiglia da cui ti parlo ti mando luci di incendi e stellate, ti mando mani aperte alle verità più crude, ti apro la verità con un soffio. I trafficanti non hanno tempo di scusarsi, ma tu svegliati, bambina: il sonno non è una cura.
* le foto sono state scattate alla mostra di DOGUKAN BELOZOGLU
Quanto è importante dare un nome a queste vite che lottano per vivere, nonostante tutto “protese verso il futuro”. Bellissimo e toccante