Questi fantasmi di un autunno romano, tra Manganelli e Hitchcock 

di Matteo Pelliti

Luca Ricci approda al romanzo, Gli autunnali (La Nave di Teseo, 2018) senza rinnegare il suo passo da raccontista convinto e, anzi, dedicando questo ultimo lavoro al suo nume Maupassant, l’autore che, a detta dello stesso Ricci, lo avviò sulla strada della scrittura durante una giovanile peregrinazione per i lungarni pisani in preda a una lettura capace di imprigionarlo fuori dal tempo fino a che non l’avesse conclusa. “Tornano, i morti?”, si chiede Maupassant nell’epigrafe del capitolo Ottobre. Evidentemente sì, se è vero che la letteratura è inesauribile dialogo coi morti (chi ha scritto prima di noi) e che questo romanzo è reincarnazione di alcune membra di racconti, smembrati (senza dolore) dell’autore per farne carne da romanzo. Specularmente a quanto aveva fatto appena poco tempo fa, sopprimendo romanzi per farne racconti (I difetti fondamentali, Rizzoli 2107) qui Ricci si auto-cannibalizza riusando suoi moduli propri (come dichiara esplicitamente nella nota a fine testo). Il risultato degli innesti è invisibile e riuscito (Il piede nel letto) e, dove in qualche punto qualche cicatrice pare riaffiorare sulla pagina (come nell’uso del racconto Amici immaginari), ciò costituisce un grumo narrativo posto a sbalzo, a render omaggio all’arte del racconto, come inserendo un quadro in un quadro. 

Ricci utilizza spesso la reiterazione nella forma di lista, compilando cataloghi che cercano di misurare il mondo nelle sue meschinità: l’invettiva contro Roma (che ricorda una famosa poesia di Remo Remotti, “Mamma Roma addio), l’elenco delle coppie alla clinica in attesa di partorire, il catalogo delle tipologie di critici letterari, l’ipotizzato trattato sugli uomini in attesa delle mogli davanti ai camerini prova nei negozi. Tutto questo forma l’antropologia tragica in cui Ricci è abilissimo ricercatore. Il protagonista (solo innominato tra tutti i personaggi) è un io-narrante psicotico, dalla coscienza ipertrofica e allucinata, capace di nominare il senso profondo delle cose, degli essere umani, delle stagioni, abitato cioè dalla “poesia”, che è in definitiva non una categoria letteraria ma una alterazione della coscienza che entra in contatto con l’essenza del Mondo. Scrittore a riposo, cinico cinquantenne, disincantato, iperbolico, marito in crisi e traditore seriale, descrittore in servizio permanente effettivo delle miserie delle coniugalità (viene in mente Flaiano: “All’occorrenza essere capaci di andare a letto con la propria moglie.”), massimo cantore dei tic posturali degli amanti, il protagonista si innamora di un’allucinazione, la foto di  Jeanne Hébuterne (https://it.wikipedia.org/wiki/Jeanne_H%C3%A9buterne) amata da Modigliani e morta suicida, incinta, dopo la morte del pittore livornese. La donna che visse due volte di Hitchcock riecheggia – per me – in alcuni angoli del romanzo, dichiaratamente ispirato alle atmosfere de La chioma di Maupassant, “governo ombra” del testo, per usare le parole di Ricci nella sua nota finale, dal quale racconto derivano le epigrafi dei capitoli de Gli autunnali. La chevelure (La chioma), presenta un personaggio che – come nel romanzo di Ricci –  impazzisce sedotto dal contatto con una chioma di donna ritrovata nello scomparto segreto di un mobile acquistato (come ne Gli autunnali sarà la foto di Jeanne a generare prima l’innamorato per un fantasma e poi l’ossessione per la sua sosia, Gemma). Maupassant nel suo racconto cita il sergente François Bertrand, figura realmente esistita, processato e condannato per profanazione di cadaveri di giovani morte. Amore e morte sono due lati della stessa ossessione anche nel romanzo di Ricci L’intarsio tra il feto crescente nella pancia di Gemma e le brutali violenze sulla prostituta appartiene allo stile geometrico della scrittura di Ricci, che costruisce su questi polittici il procedere della sua narrazione”. Ricci racconta l’erotismo “malato” dello scrivere in sé, il tentativo titanico di rispondere a un impulso di morte, che il vivente porta con sé, attraverso la Letteratura (amiamo i morti, amando gli autori che amiamo, come il ricordo degli amori che ci hanno lasciato o che abbiamo lasciato).

I fantasmi di cui parla Ricci – scrittore del fantastico – sono, in realtà, spettri di comportamenti possibili, non figure che ci vengono a trovare dall’aldilà della letteratura, siamo noi i fantasmi, stanno dentro di noi. Per questo Ricci è un scrittore antirealista proprio là dove sembra descrivere un deriva morale contemporanea nei rapporti tra uomini e donne: le sue figure della coniugalità sono casi limite ultraquotidiani e, per questo, invisibili: non ci accorgiamo più della dimensione tragica del quotidiano, del routinario. Quando Ricci sembra parlare di scopate, di perversioni, di follia sta parlando, invece, dell’unica attività erotica vera e propria che ritenga descrivibile: fare letteratura. Per questo, da circa dodici anni a questa parte Ricci batte efficacemente lo stesso tasto dell’abisso di abiezione che è la routine coniugale traendone, di volta in volta, nuove composizioni. In questo suo romanzo, in più, giganteggia Roma: è una protagonista necessaria del romanzo, e non luogo sostituibile con altri all’interno della storia. Nelle descrizioni romane del protagonista sembrano riecheggiare le parole definitive di Giorgio Manganelli sulla Capitale (“Certo, il clima è pesante; un sudore ignobile, notti da balconi spalancati, passeggiate in pigiama; poi, una tramontana a mano libera, iraconda e sprezzante…”, scrive nel Lunario dell’orfano sannita). Roma non è resa come è, ma è descritta come vive nella sua natura di “morto iperletterario”, di zombie fantastico che non sa morire, di cui l’autunno romano è il simbolo massimo, col suo umidore di vita e morte mescolate insieme, capace di creare una nuova epica cittadina contrapposta al “mito della montagna” (lieve evocazione ironica verso il collega Paolo Cognetti, ultimo Premio Strega?). La figura dell’amico del protagonista, infine, lo scrittore e giornalista Gittani, svolge una funzione di intermediazione tra realtà allucinatoria e pragmatismo, àncora il lettore agli elementi di realtà e, si rivelerà, (spoiler) deus ex machina dell’intera vicenda. O forse no, nel gioco di specchi che la narrazione costruisce (qui siamo dalle parti de “La finestra sul cortile”).

C’è un verso di Mario Luzi che a mio avviso, descrive perfettamente la psicologia del protagonista de Gli Autunnali: «La mia pena è durare oltre quest’attimo» perché esprime la vertigine della dimensione allucinatoria dell’amore, di quell’impossibilità della durata nel tempo espressa nell’impossibilità a finire di certi amori, ma nel poter solo “ricominciare da capo”.  L’epilogo è l’unica parte del romanzo scritta in terza persona, tramite il classico narratore onnisciente che prende distanza e congedo dalla materia che ha manipolato. Tutto il resto, invece, è un testo che “scrive” l’autore, dal quale l’autore è scritto, dettato dall’interno, come in poesia, come nell’invasamento poetico, discesa agli inferi e punizione (come nel Don Giovanni, in fondo), del “dissoluto punito”, e altissimo esercizio di reincarnazione: di racconti in romanzo, di amore in amore, di autore in autore, di Letteratura in Letteratura.

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