Le palme mozzate di Magliani

di Marino Magliani

Boomerang

Quando ti penso è perché non ti vedo

non perché mi manchi.

E se da quassù getto uno sguardo

la tua bocca triste inventa un sorriso.

Liguria tutta vallate l’una afffianco all’altra

come un pettine rotto.

La vergogna non è di essermene andato via

dai tuoi costoni bruciati. Ma tornare

a questa fetta di anguria morsa male

e tornare a capire che era all’alba

quando dovevi salvarmi dal furore

del mare.

Pensa alla tua forma di boomerang,

alle rincorse nel rauco respiro di cicala,

la fronda dell’ulivo dinnanzi a un burrone.

Vuoi che te lo confessi? Sono io

che t’ho sempre rincorsa, scema.

Forse se durante i pomeriggi delle gabbie

azzurre, quelli dell’ombra al torrente,

solitudine fresca sotto gli olmi, fossi riuscita

in qualche modo a trattenermi,

invece di star lì a giocare con me

senza dirmi nulla. Invece di sorprendermi

ogni sera. Ogni sera. Invece di chiedermi di ubbidirti,

e non di lasciarti convincere.

A rotta di collo le mulattiere scivolose.

Dal fondovalle per guardar le cose

bisogna alzare gli occhi o inventarsi scemenze.

Invece di far finta di niente e accettare come buona

la fronte bagnata di rugiada e non di sudore.

E sbandare assieme nelle curve del portico,

il fruscio di canneti, una corrente magra ci ha trascinati

troppo presto in città, per ultimo il mare

e al fascio luminoso all’orizzonte

il faro si è voltato verso rami

di notte saccheggiata e ci ha mollato lì.

Eravamo già andati via. Ma solo io.

Ti rendi conto di come è andata.

Il cavernoso rantolo di altri moli ha messo a tacere

le campane a festa. Non le sentivo più. Per anni.

Solo le tue ombre tossivano ancora.

Lontano, nuotavo fino a una boa mi sdraiavo,

il mento sulle mani, e guardavamo la nuova costa.

Rotolavo sulle sabbie finte d’estate, in Costa Brava,

d’inverno era la pozzanghera spumosa

di un pugno di isole africane.

Abitavo le montagne svizzere.

Mi svegliavo davanti alle pampe

sulle panchine o in galera.

Mi rilasciavano con un foglio di via.

Ma via dove? Via c’ero già, ci sono andato

solo da te via.

E da dove mi spedivano, e dove cadevo

la verticalità che mi ricordava «lontanamente

qualcosa di troppo tuo» poteva essere giusto

un albero all’orizzonte. El ceibo, albero di corallo,

in fondo alla pampa fioriva d’estate, tra dicembre

e febbraio, le ombre sanguinavano.

E il resto?

Erano i golfi dei fiordi. Le dune del Nord.

I pesci congelati da scaricare dalle stive delle

barche frigo.

Zee, all’imboccatura del canale

rumbo Amsterdam, sta per mare.

Zeau, in dialetto sta per ghiacciato.

Ti piaceva giocarci e io non ci scherzavo:

una lingua senza passato remoto è una lingua

inutile. Ci dimenticavamo.

Che altro, un anno di piatti e pentole nei ristoranti

norvegesi, un anno a lavare.

Il detersivo, attraverso la cartina biografica

del mio continente, giungeva alle tue falde acquifere

per dirti ci sono. Forse. A volte, sono io.

Eppure ogni tanto giocavamo ancora a rincorrerci.

A chiederci le cose, anche ora.

Inizio io, dove sei stata?

Io qui, lo chiedo a te.

Io anche, non me ne sono mai andato. Il detersivo

era di un altro.

E poi domande intime.

In quale segreta tua parte del mondo cercarti,

ora che non ci sono più estati australi

e sono qui a torturarmi all’ombra delle palme tagliate.

Si nasce d’estate a giochi fatti e il resto della vita

si passa a ubbidire a qualcosa che la vita ci chiedeva

quand’era ora. Che sforzi, mi dici.

Sotto le pietre del paese a trafficare con il reticolato

delle parole che tiene assieme il respiro e manda,

manda dispacci dalla valle, ora che sono qui

nel bosco ulivato tra Prelà e Dolcedo, e li cerco,

dove sono sepolti i nostri ciottoli?

Li avevo lasciati in un orto, promettendomi

poi torno.

Hanno addirittura frantumato per noi

il tuo carruggio, ti rendi conto, che onore.

Tu con un compasso avevi pensato a un cerchio

e perché la circonferenza lambisse la spalliera

di Moro e la foce del Prino, avevi trovato un centro

e in quel punto hai voluto il nostro carruggio.

Non è giusto dire è passato così tanto tempo

che a volte rientro e mi rifiuto di percorrere

la tua vena di asfalto.

Non è questione di tempo, no, e uno non torna

neanche perché sa che torna da clandestino,

ma perché anche stavolta sai che poi tornerai

ad andartene da espulso.

Per questo, mi basta sfiorarti e fermarmi

in una stanza di albergo ai tuoi piedi,

e star lì alla finestra – starci bene lo ammetto –

come il geco di Palomar, posto nell’insolita posizione

di spalle a te, le dita come ventose ai vetri,

il silenzio da cui appare un molo che non è

più terra né mare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NdR: la poesia è tratta dalla raccolta “All’ombra della palme tagliate” (Amos Edizioni, 2018), illustrata da Sergio «Ciacio» Biancheri

 

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