L’amore a vent’anni
di Giorgio Biferali
Guardavo mia madre, con gli occhi nascosti nelle mani, con davanti il piatto che si freddava. Diceva che bisognava capirlo, che era preoccupato perché il medico aveva ricordato a mio padre delle sigarette, che fumava troppo, e c’era mancato poco che mio padre non lo prendesse a calci. Aveva usato quella parola, quella brutta parola che uno quando la sente un po’ si spaventa, anche se era solo per prevenzione, così diceva il medico, ma per mio padre non cambiava poi tanto, aveva usato quella parola, ed era tutto il giorno che se ne stava un po’ allucinato con gli occhi persi nel vuoto. I medici non lo capiscono che soprattutto loro devono stare attenti con le parole, diceva mia madre, io ne so qualcosa. Quella è stata una delle poche volte che me la sono presa con lei, e una delle tante volte che non sono riuscito a capire mio padre. Le ho detto che lo giustificava sempre, che proprio per averlo sempre giustificato adesso lui poteva fare il bambino, non aprire bocca, rispondere male. Non è mica colpa sua, le ho detto, ma tua. Da quant’è che è così? Da quando è andato in pensione? Perché non gli hai mai detto nulla? Lei cercava di spiegarmi, senza alzare la voce, con calma, come aveva sempre fatto. Mi diceva che nelle storie d’amore non è mai così semplice, bisogna cercare di capire, di accettare l’altro per quello che è, anche con dei compromessi. Non lo so com’è che potessi dirle quelle cose, in fondo non ne sapevo granché, delle storie che duravano per anni, dei matrimoni, della convivenza, dei figli, di quando si invecchia e si sta ancora insieme. Io l’avevo conosciuta che di anni ne aveva già quarantuno, sapevo solo che fumava, anche quand’era in classe e spiegava Hegel, che le piaceva fumare con me, che mi svegliava spesso la mattina quando io non sentivo la sveglia, che aveva dei capelli sottili, quasi neri, che quand’era giovane erano biondi, che le piaceva ascoltarmi, andare al cinema, ai concerti, che era forte, l’avevano operata tante volte nella pancia perché c’era una specie di morbo che ogni tanto tornava, che ci aveva ospitato dentro di lei, dentro a quella pancia, a me e ai miei fratelli, per ventisette mesi, nove per uno. Sapevo solo che era mia madre, ecco, che era diversa dalle altre madri, non so bene perché, lei non solo cucinava lavava puliva, ma aveva insegnato a scuola, filosofia, ci si era laureata, aveva fatto la supplente col pancione, accompagnava i figli dappertutto, a scuola, a nuoto, a calcio, a danza, li vestiva, li asciugava, li aiutava, li conosceva, sapeva come ascoltarli. Mio padre, invece, era diverso. Anche lui, come me, era un po’ una macchina da scrivere, che di mattina ricominciava tutto da capo, sembrava un altro uomo, diverso da quello che era andato a dormire qualche ora prima. Le mattine per me sono sempre appartenute a lui, un po’ come se le avesse inventate, come se lui e le mattine di tutto il mondo si conoscessero bene e nel tempo avessero costruito tra di loro un’intimità speciale. Anzi, a dirla tutta, a lui è sempre piaciuto anticiparle, si alzava prestissimo mentre il cielo schiariva e la notte piano piano si faceva da parte, come se in fondo facesse finta di dormire e ingannasse il tempo guardando fuori dalla finestra, sbirciando il futuro.
Tratto da: Giorgio Biferali, L’amore a vent’anni, Tunué 2017