Il mondo dei Buscemi: Suttaterra di Orazio Labbate
di Fabrizia Gagliardi
Il perturbante è alterazione. Se assistessimo alla lenta e metodica trasformazione fisico-chimica delle rocce saremmo costretti ad ammettere un male senza tempo: una modifica così impercettibile da non riuscire a distinguere l’inizio dalla fine. Ora trasponiamo tutto alle narrazioni dell’orrore quelle che generano un suono, una domanda, una percezione che sbatte contro le pareti della nostra testa senza che la sua eco abbia un padrone. Il perturbante è qualcosa di diverso dall’orrore, perché lavora sulla distanza tra sicurezza dell’umano controllo e l’inesorabile ritorno alla cenere.
Ligotti nel suo manifesto dell’orrore filosofico, La cospirazione contro la razza umana, semplifica il perturbante come proprio di «forme sovrumane che fanno sfoggio di qualità umane». Razionalizza così la qualità umana del porre ragione a tutto. Ligotti è il narratore del Male endemico e immanente che ha la stessa probabilità di una malattia fisica. A questo male Orazio Labbate – che più volte ha dichiarato il debito verso l’autore americano – ha aggiunto uno stile personale e una propria teoria dell’orrore. Ha definito, come nelle migliori tradizioni orrorifiche, una geografia ben precisa. Suttaterra, il suo ultimo lavoro arrivato in casa Tunuè, racconta di Giuseppe Buscemi, un becchino trentenne originario di Gela che riceve una lettera dalla moglie defunta.
Tutto inizia da Milton, in Virginia, in un paesaggio brullo e contadino. È proprio nell’anonimia del suo tappeto di granturco che Milton assume quell’isolamento tipico del Sud americano dove tutto accade in una bolla temporale regolata dalle leggi di natura.
Nelle campagne di Milton le magie si consumavano da sempre, sullo sfondo di sempre eguali e indifferenti cosmi. La casa dei Buscemi, squallida eppure maestosa, in un singolare stile vittoriano, si sollevava su due piani. Nerastra e beffarda, innalzava i suoi mattoni scuri arrivando fin quasi ad alterare il confine delle nuvole. L’edificio che le faceva da contraltare, al di là del loro campo, pareva invece cambiare densità al crepuscolo. Era una bianca e lignea chiesa, all’origine metodista, sulla quale risaltava un tetto grigio scuro e screziato, come sopravvissuto a un incendio, da cui svettava uno stretto campanile assommitato da una nera croce di ferro.
Qui è dove Razziddu Buscemi ha contemplato la morte nello Scuru, il precedente capitolo di quella che nella testa dell’autore si prefigura come una trilogia. Proprio a Milton ha perpetrato i suoi deliri, infliggendoli al figlio Giuseppe. L’ossessione del perdono e della redenzione fanno della religione un fanatismo nel quale è semplice passare nel blasfemo. Milton diventa l’origine temporale di un eterno ritorno: punto d’incontro tra un orrore moderno e l’arcaicità della religione che ha radici siciliane. Giuseppe Buscemi si forma in un carapace prestabilito di esaltazione, magia e riti per scacciare l’ignoto e lo indosserà a sua volta senza conoscere tregua.
A fare del mutamento religioso un processo immanente contribuiscono una lingua rinnovata e una commistione scenografica. Lo Scuru sembrava composto come un interminabile incantesimo recitato al ritmo del dialetto. Si avvaleva di visioni nate dal folklore di riti popolari che dallo scherzo della scaramanzia diventavano visioni soprannaturali, punti di accesso alla metafisica del divino. In Suttaterra nasce una seconda generazione dell’orrore con l’abbandono del dialetto e una lingua italiana che da una parte si nutre del continuo riferimento all’entità materica degli eventi («Intanto le stelle cadevano a sassate rigando il buio e ustionando il tetto della Saint Mary’s») e dall’altra fa della contaminazione con l’immaginario statunitense il suo punto di forza. Quando Giuseppe tornerà a Gela, altra tappa della mappa dell’orrore, ricorderà il sapore mefitico della città, a metà tra i fumi dello sviluppo industriale e le origini mistiche. Il luna park si mescolerà al panorama del Petrolchimico creando una diapositiva a doppia esposizione: la cementificazione elimina il paesaggio siciliano e il porto di Gela somiglia a un «mausoleo in cui sembrava dimorassero le ombre. Trionfava di cemento, e il metallo in ogni suo finimento, e le barche scosse dal Mediterraneo, allocate dentro un’insenatura costiera alla sinistra, erano simili a bare»; il luna park è il luogo della perdizione che collega due terre separate dall’oceano attraverso costellazioni fatte di insegne al neon e ballerine disincantate.
A Gela il tempo era scuro. Durante la luna di miele il pendolo dell’orologio fu freddo. La giostra del luna park su cui si erano fermati a sedere era immota. Lui sedeva su un cavalluccio; lei dentro una maldestra riproduzione della carrozza di zucca di Cenerentola. Si toccava la pancia e l’esserino scalciava a ogni ticchettio. La sua zampetta ruminava la parete della vita della madre. Giuseppe scese dal cavallo e la raggiunse lì dentro. Da quando si era sposato aveva l’impressione che gli si fossero acuiti e distorti i sensi, e mentre compiva quel brevissimo tragitto gli parve che la giostra odorasse di tempo e di legno.
In una mancanza di tempo definito l’unico punto fermo sarà Maria, la donna alla quale Giuseppe guarderà come donna angelica. Nelle vicende dei Buscemi le figure femminili si associano alla dolcezza del perdono. Quando nello Scuru Razziddu giace con Rosa abbiamo la visione di affondare nel corpo femminile, di penetrarlo per trovare conforto oltre ogni peccato: «Piangeva silenziosamente il ragazzo e Rosa Marturana lo amava. Amava la sua propensione all’alienazione corporea». In Suttaterra Maria sarà una figura chiave, una luce che brillerà come unico appiglio alla realtà, una boccata di ossigeno atemporale per riemergere dalla discesa negli inferi, salvifica e demoniaca allo stesso tempo. Più reali, paradossalmente, saranno le guide di Giuseppe, il neonato del luna park e il nano che lo condurranno in una divina commedia capovolta – con tutte le distinzioni del caso. Il percorso redentivo nelle composizioni di Orazio Labbate assume diverse forme la cui risposta non corrisponde alla vera e propria liberazione dal peccato. Nella tradizione della scrittura del sud americano Flannery O’Connor definiva il grottesco come un’improvvisa rottura dell’equilibrio: le caratteristiche dei personaggi «si allontanano dai modelli sociali tipici, in direzione del mistero e dell’imprevisto». Lo sguardo indifferente della natura, la contemplazione della catastrofe dei protagonisti che assaporano l’estasi, in Labbate non corrispondono a una vera e propria ricerca e accettazione della salvezza. Percorrendo i suoi racconti di Stelle Ossee al timore del peccato e all’arrivo della redenzione l’autore siciliano sostituisce una ragnatela di nuovi valori: gli episodi incendiari del racconto Case infestate permettono ai due protagonisti di soppiantare il vecchio significato di purificazione; il povero Vinny Butera contempla la visione del proprio battesimo in una terra lontana dalla patria, dove il monoteismo delle origini viene sostituito da nuove divinità in Madonna verde.
È proprio l’indugio nel peccato, più del peccato stesso, a costituire materia viva per le storie di Orazio Labbate. I suoi personaggi si muovono continuamente tra il conforto della tradizione e la tentazione dell’ignoto: domandano al buio di prenderli, ma non indossano il volto della vittima perché sanno di impersonare il ruolo universale del peccatore. I paesaggi si plasmano su di loro passando dall’ampio respiro della campagna all’asfissia della metafisica demoniaca che diventa reale. Un procedimento personalissimo che fino ad ora ha saputo unire l’attenzione alla lingua e una caratterizzazione che non si ferma al regionale ma travalica i confini scovando profonde similitudini.