Padre Joyce, che sei nei cieli

The waiting room III – ©Francesco Cozzolino

 

di Ezio Sinigaglia

Il testo che segue è il terzo capitolo di un romanzo, Il pantarèi, che dopo una lunga storia di elogi e di rifiuti editoriali, iniziata nel 1980, fu infine pubblicato nel 1985 da una piccola casa editrice di Milano, SPS (poi Sapiens), conquistando qualche isolato lettore ma passando sostanzialmente inosservato. Si tratta di un metaromanzo sul romanzo del Novecento. Il protagonista, Daniele Stern, viene incaricato da una casa editrice con la quale saltuariamente collabora di scrivere in pochi giorni una storia del romanzo del Novecento, destinata a trovar posto nell’ultimo volume di una Enciclopedia della Donna. Il libro affianca, in ogni capitolo, una parte saggistica, dedicata a uno dei grandi autori del XX secolo, e una narrativa, legata alla prima da analogie spesso sotterranee e misteriose. Quella che presento qui è la parte saggistica del capitolo su Joyce, già pubblicato integralmente sulla rivista Fronesis, n. 20, luglio-dicembre 2014, con il titolo “Padre Joyce, che sei nei cieli”. Il romanzo Il pantarèi, nel suo insieme, sarà invece riproposto nei primi mesi del 2019 dall’editore TerraRossa.


Dormire? No, a quest’ora (è l’una di notte) Stern è preso da un estro di sonnambulo. Potrebbe, lui che sul quarto gradino di una scala a pioli è già preda di norma dell’horror vacui, muoversi agilmente sui tetti e camminare disinvolto su angusti cornicioni.
Lo champagne ha lasciato dentro di lui una vaporosa leggerezza. Il cervello di Stern frizza e schiumeggia. Generoso è il suo spirito.
Joyce. Quale momento migliore per simili equilibrismi?
Lo champagne provoca anche frequenti minzioni. Mi punge desiderio di. Il ventre teso come un palloncino. Quando sei ritto e a gambe larghe, in posizione, crollano le difese, si rilassano gli sfinteri e devi esser lesto a estrarre l’animale. Che da giorni non serve che a questo.
Una pressione insostenibile, quasi da piangere. Poi il getto liberatorio. Fluisce. Tintinna argentina. Ah che sollievo! Limpida e bionda come lo champagne. Poi acqua gelata sul viso come a scacciare recenti dolorose allucinazioni. Stern è pronto. Si accinge al lavoro. Ebbro ed euforico, picchia sui tasti con impeto da invasato.
James Joyce aveva una splendida voce tenorile. Fu anche sul punto di vincere un concorso e di essere ingaggiato da un impresario dublinese. Anche suo padre, John Stanislaus, oltre che un forte bevitore e un instancabile dilapidatore di quattrini, era un buon cantante e talora si esibiva con successo in qualche caffè di Dublino (proprio come Simon Dedalus, padre di Stephen Dedalus-Joyce, in una pagina di Ulisse) interpretando romanze d’opera non senza un trascinante pathos di ubriaco. La musica fu per Joyce qualcosa di più di un violon d’Ingres: un atteggiamento dello spirito. Fra tutti i suoi sensi acutissimi, l’udito fu almeno primus inter pares e fin da bambino i suoni esercitarono su di lui un fascino arcano e avvincente.
Non vi è dunque di che sorprendersi se, nella fase decisiva della sua carriera di narratore, Joyce si dedicò anche, se non principalmente, a rivoluzionare il linguaggio, adattandolo alla sua esasperata sensibilità musicale. Senza arrivare alle acrobazie della sua ultima opera, Finnegans Wake, basterà questo passo di Ulisse come esempio di una scrittura che, pur nell’inevitabile violenza che le fa la traduzione, rimane quasi nient’altro che suono:
«Bronzo accanto a oro udirono i ferrei zoccoli, acciaisonanti.
Impertnt tntntn.
Schegge, levando schegge dall’unghia rocciosa schegge.
Orrore! E oro arrossì ancora.
Una nota roca di piffero la sbloccò.
Sbloccò. Bloom blu è la patina sul
Aurea chioma ingugliata.
Una rosa danzante su serici seni di raso, rosa di Castiglia. Trillante, trillante: Ahidolores.
Cucù! Chi c’è nel…cucudoro?
Din pianse pietosamente a bronzo.
E un richiamo, puro, prolungato e palpitante. Richiamo lentamorire.
Lusinga. Morbida parola. Ma guarda! Le vivide stelle vaniscono. O rosa! Note cinguettanti risposta. Castiglia. Sorge il mattino.
Tinnulo tinnulo in calessino tintinnante.
Risuonò la moneta. Pendola rintoccò.»
E ancora:
«Un picchio, un ticchio col chicchiric coccoricoc.
Pregate per lui! Pregate, brava gente!
Le sue dita gottose schioccanti.
Big Benaben. Big Benben.
Ultima rosa di Castiglia d’estate lasciato Bloom fiorire mi sento così triste solo.
Puii. Venticello zufolò uiiii.
Uomini leali Lid Ker Cow De e Doll. Sì, sì. Come voi uomini.
Alzerete il cin col cian.
Fff! uu!
Dove bronzo da presso? Dove oro da lungi? Dove zoccoli? Rrrpr. Kraa. Kraandl.»
Ma non ci si inganni. Non si tratta di delirio. La musica è sì fantasia liberata, ma anche rattenuto, freddo rigore formale. L’estro dell’artefice va incatenato a leggi ferree perché non si volatizzi in frivolo ghirigoro. La musica apparirà forse al profano puro ornamento, volteggio, inconscio al galoppo; ma essa obbedisce a regole ben precise, di armonia, di ritmo e, perché no?, anche di contenuto. Proprio perché è l’arte dell’inconscio, la musica è un universo di simboli. Una catena ininterrotta di simboli, connessi gli uni con gli altri secondo leggi elastiche ma non sovvertibili. Un discorso, quindi, con un suo significato.
Metti il morso, Stern, al tuo inconscio al galoppo. Iooooh! Frena, frena, frenetica bestia! Dove corri caracollante cavallo? Tàntaratàntaratàn taratàntatit ungula càmpum.
Relax! Prima di tutto non lasciarsi influenzare. Conservare gelido acume critico. E senso delle proporzioni. Non sei accademico sublime ma lavorante a domicilio. Enciclopedia di quart’ordine. Poche idee ma chiare.
Stern si misura col suo cimento. Joyce. Educazione cattolica. Gesuiti. Senso del peccato. Irlanda: patria e religione. Dedalus. Il labirinto. Uscire alla luce. Telemaco. Esilio. Trieste. Svevo. Il mercante di gerundi. Misogino e monogamo. Dissacratore di ogni valore. Ma con l’orrore dell’adulterio. Dunque sempre cattolico? Edipo. Oreste. Amleto. Nausicaa è una povera zoppa esibizionista. Spiritosone! Ulisse. Genio ma anche rompicoglioni.
E allora? Devi scrivere tre pagine, non un volume. Ri-di-men-sio-na.
Anche Ulisse è un universo di simboli; e anche Ulisse è rigore formale. La complessità dell’opera è tale che non si potrà forse mai estrarne l’ultima goccia di succo ottenibile. Ma, a oltre mezzo secolo dalla sua pubblicazione, sembra almeno che l’«ulissologia» abbia raggiunto un risultato definitivo: lo scheletro del romanzo, il suo schema compositivo, è completamente sviscerato. Se non vi è sufficiente sapere che Ulisse è la trasposizione in chiave moderna dell’Odissea omerica; che, come quest’ultima, è diviso in tre parti, la prima corrispondente alla Telemachia, la parte centrale al viaggio e alle varie avventure di Ulisse (Esodos), quella conclusiva al ritorno a Itaca (Nostos); che, più in dettaglio, ognuno dei diciotto capitoli corrisponde a un episodio del poema (Telemaco, Calipso, Ade, Eolo, Lestrigoni, Scilla e Cariddi, ecc.), che, naturalmente, ogni personaggio del romanzo è l’alter-ego di un personaggio del poema (Ulisse-Leopold Bloom; Telemaco-Stephen Dedalus; Penelope-Marion Tweedy; Calipso-Martha Clifford; Nestore-Mr Deasy; Nausicaa-Gertie Mc Dowell, ecc. ecc.); ebbene, esistono decine di «guide» alla lettura di Ulisse che possono soddisfare la vostra curiosità, tabelle addirittura, che in rapida sintesi vi rendono noto che ciascun capitolo: a. si svolge a un’ora diversa dello stesso giorno nella stessa città (Dublino, 16 giugno 1904, dalle otto del mattino a notte inoltrata); b. è sotto l’egida di una scienza o arte (teologia, storia, economia, retorica, medicina, ecc.); c. corrisponde a un organo del corpo umano (reni, genitali, cuore, polmoni, utero, ecc.); d. ha un riferimento simbolico (erede, cavallo, vergine, madre, prostituta, marinaio, ecc.); e. ha un colore predominante (bianco, bruno, verde, arancione, ecc.); f. utilizza una diversa tecnica narrativa; e così via anatomizzando.
Stern, dopo così cruda elencazione, è stanco. Il suo notturno estro scalpita, incatenato. Ha per le mani una di queste «guide». L’occhio gli corre, ansioso, su questa trinaria illuminazione trifase: «Costruito con perfetta simmetria, il libro evoca la trinità cristiana, i tre gradi del bello secondo san Tommaso, le tre età della vita, le tre vie dell’iniziazione, le tre aree di un tempio greco, d’una cattedrale e d’una loggia, il trivio medioevale, il triangolo massonico, i tre movimenti di una sinfonia, i tre termini della dialettica…»
E chi se ne frega!
Preso da autentica ira notturna, Stern scaglia il libretto lontano da sé. Non ha però l’alfieriano coraggio di gettarlo dalla finestra. Con quello che costano.
E perché non il triangolo matrimoniale? Tre è davvero il numero perfetto. Ma non ci aveva già pensato qualcuno?
O Dedalus, perché perderti nel labirinto della pedanteria? Non fosti proprio tu a dirlo? Grandi porte apre il genio per cui poi entra il tentennante bibliofilo calvo, assiduo, dalle orecchie lunghe e dal piede tenero dolcemente scricchiolante. Dunque, senza il genio, non avremmo neppure il bibliofilo, deo gratias! Godete, uomini, ridete, scopate liberamente! Vobis nuntio gaudium magnum! La Cultura è morta. Soffocata: causa mancanza geni apriporta. O forse: esplosa, come teso ventre di ranocchia.
Incatenato in una cornice così rigida a leggi ferree e minuziose, si potrebbe pensare che il romanzo attinga a una sua grandiosa unità, sul tipo di quella della Divina commedia o della citata Ricerca proustiana. In realtà, Ulisse è la frantumazione di tutte le sopravviventi unità del romanzo: non solo di quella temporale, ma anche (e questo punto fa di Joyce lo scrittore più «rivoluzionario» del secolo) della sola unità che gli altri innovatori conservano: quella stilistica. Ogni brano dell’opera è scritto, come già accennato, con una tecnica differente, che si sforza di «vestire» la differente situazione: autentico acrobata della lingua, capace di cavarne tutti gli effetti desiderati, Joyce usa la parola non per descrivere ma per riprodurre le sensazioni visive olfattive uditive tattili, i pensieri i desideri i ricordi che di volta in volta sfiorano o colpiscono la coscienza dei personaggi, per incidere nello stesso modo la coscienza del lettore. La lingua diviene quindi uno strumento mutevole, una materia liquida che assume la forma del recipiente in cui viene versata: l’inglese di Joyce si trasferisce rapidamente dai chiostri di Oxford ai marciapiedi dei sobborghi urbani, ricorre a prestiti latini francesi triestini romaneschi e a stupefacenti invenzioni onomatopeiche, si gonfia di artifici retorici, risuona di toni epici, si distende in abbandoni lirici, si snoda in un fiume di immagini prive di interpunzione e di nessi sintattici, per divenire a tratti cavo clangore di sillabe o dolcissima seduzione musicale.
Poema dell’esistenza quotidiana? Epopea dell’uomo qualunque? O non piuttosto ricerca sociologica, trattato di psicanalisi, manuale di filosofia, commentario di retorica, enciclopedia medica, pamphlet politico, saggio di teologia, guida liturgica, dizionario tecnico-scientifico, atlante di anatomia, fumetto erotico, album autobiografico? Ulisse non è né l’una né l’altra di queste opere: il virtuosismo «demoniaco» di Joyce le ha scritte tutte contemporaneamente. Quello che alla fine prende risalto dalla sua pagina è l’uomo, tutto intiero, fascio di nervi e di muscoli, completo di ogni sua parte, corpo e intelletto, l’uno all’altro fuso e contorto: se Joyce ha dissolto tutte le sopravviventi unità del romanzo, ha però restituito all’uomo l’unità del suo organismo.
La giornata di Stern è stata feconda. Come una molla che si distenda, balza egli ora dalla sedia e danza per la casa vuota intonando, a mo’ di epinicio, l’apostrofe seguente.
Lode a te, organismo uno e trino. Gloria al padre intelletto, al cuore figlio e alla santa spiritualità del corpaccio nostro gaudente e dolente. Padre Joyce, che sei nei cieli, posa i tuoi occhi sofferenti su di noi, proteggi il tuo umile servo Stern, che elevando oggi a te l’ammirato canto della sua devozione ha guadagnato il pane suo quotidiano con il sudore benedetto della fronte sua. Proteggilo, e tieni lontana da lui ogni tentazione, ma sopra tutte quella rovinosa della letteratura, che Satana con le sue arti malefiche tenta già di insinuargli nel petto. Scrolla via dal capo del tuo umile servo, o padre James, il peccato orribile della superbia. Ricordagli che, come tu hai stabilito, non vi sarà altro romanzo dopo di te. Amen.

 

3 COMMENTS

  1. da cultore (ovviamente critico) dell’opera di Joyce sarei onorato se l’Autore volesse aderire alla iniziativa EX LIBRIS
    r.m.

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Ornella Tajani insegna Lingua e traduzione francese all'Università per Stranieri di Siena. Si occupa di studi di traduzione e di letteratura francese del XX e XXI secolo. È autrice del saggio "Tradurre il pastiche" (Mucchi, 2018). Per Marchese editore ha tradotto e curato L'aquila a due teste di Jean Cocteau (premio di traduzione Monselice "Leone Traverso" 2012) e Tiresia di Marcel Jouhandeau (2013). Ha scritto una tesi di dottorato in Letterature comparate sul Kitsch e il romanzo contemporaneo ed è uno dei membri fondatori del collettivo italo-francese di traduttrici meridiem. Suoi articoli e recensioni sono apparsi anche su Alfabeta, L'indice dei libri del mese, Le parole e le cose. Seguendo questo link, la lista completa dei suoi post: https://www.nazioneindiana.com/tag/ornella-tajani/ - Cliccando su "View all posts", una lista parziale