Il buonuomo Lenin
di Gianni Biondillo
Curzio Malaparte, Il buonuomo Lenin, Adelphi, 2018, 311 pagine
Sembra non si riesca a fare a meno di Curzio Malaparte. Come un fiume carsico, non ostante ostracismi e amnesie, la sua opera torna, riaffiora, si mostra nella sua pienezza. Scrittura, diciamolo subito, di qualità indiscussa. “La miglior penna del regime” ebbe a dire di lui l’amico/avversario Piero Gobetti.
Malaparte, l’individualista, l’arcitaliano, fascista della prima ora, anarchico e liberale, comunista convertito al cattolicesimo sul letto di morte, strapaesano e stracittadino, l’esteta e il popolano, il realista e l’espressionista. Tutto e il contrario di tutto. Più amato all’estero, scevro da pregiudizi ideologici, autore di almeno due romanzi che lo pongono al centro della letteratura nazionale del novecento. E di quel secolo è, a modo suo, esemplare irrinunciabile e inimitabile.
Giornalista e viaggiatore, a pochi anni dalla morte del più famoso rivoluzionario dei suoi anni, con il corpo imbalsamato già parte della mitologia e del culto comunista, Malaparte, dopo il fortunato Technique du coup d’etat, decide di scrivere per Grasset, direttamente in francese, questo Il buonuomo Lenin che vedrà luce in italiano solo dopo la sua morte.
Cos’è questo libro? Saggio storico, romanzo, pamphlet, biografia, reportage giornalistico? Tutto questo assieme? È, inutile dirlo, un libro di Malaparte. Un libro, cioè, che nasce da una intuizione, da una provocazione che si dipana inesorabile lungo il corso dell’intera scrittura. Il ritratto imperante di Lenin in quegli anni, e siamo negli anni trenta, visto dalla parte delle democrazie avanzate europee lo raffigura come un uomo violento, brutale. Un Gengis Khan del proletariato, sbucato dal cuore dell’Asia, al di là del mondo razionale dell’Occidente, vissuto oltre il confine della ragionevolezza, un mongolo pronto a portare il caos nel mondo civile.
Ma per Malaparte Lenin è tutto il contrario di questa ideologica iconografia. Ai suoi occhi, ecco la profonda provocazione, Lenin è semmai l’emblema, quasi didascalico, del buon piccolo borghese europeo, capace, nella sua grigia esistenza, di costruire teorie slegate dalla realtà, ma con l’ordine e la disciplina del travet che, giorno dopo giorno, si occupa della ragioneria della rivoluzione a venire.
La Storia non lo vede mai anticipatore o condottiero. A questo ci pensando ribelli romantici, altrettanto denigrati da Malaparte, come Lev Trotsky. Compito del piccolo borghese Lenin, talmente vile che durante i giorni dell’insurrezione si tiene sempre da parte, nascosto, o ridicolmente travestito, è essere pronto quanto gli eventi, inesorabili, gli si porranno di fronte. Eliminando i nemici interni, facendo del partito il suo campo di battaglia, superando Karl Marx per, in realtà, esautorarlo.
Di Malaparte mi appare insuperabile il ‘Maledetti toscani’. Il resto ancorché brillante….Rileggevo ‘Kaput’ quando lo scrittore era al seguito di un’armata tedesca in Polonia….cene….conversazioni brillanti, affascinanti dentro le devastazioni e passi….poi capitano le pagine su i progroms degli ebrei….come in un caleidoscopio….Tutto inevitabile ma glaciale, terribilmente glaciale nella sua tutto sommato indifferenza. E la domanda allora come ora, a che pro?