Costanzo Ioni – Stive
di Daniele Ventre
La poesia di Costanzo Ioni vive da sempre nella dimensione verbo-motoria della performance, tanto che quando appare nello spazio bianco della carta stampata, vi si ritrova come confinata, deprivata in parte del suo effetto perlocuzionale. Una volta di più questo fenomeno si riscontra per i testi, fra verso e “iper-prosa”, raccolti nella silloge Stive (il suo secondo libro, dopo Prêt-à-porter del 1985), edita per i tipi di Guida nel 2017 e prefata da Antonio Pietropaoli. Sin da subito le forme poetiche di Stive, con la loro tensione espressiva e il loro impasto fonico, impongono all’avventurato fruitore l’infrazione della lettura del silenzio, come lo stesso Pietropaoli annota al termine della sua prefazione, un’avvertenza da cui abbiamo voluto prendere le mosse come da un fiat lux primordiale.
La genesi del linguaggio di Ioni, con la sua ποικιλία, la sua variegata polifonia, ha alla base una lunghissima tradizione. Ovviamente, nelle ascendenze immediate, la linea che arriva alle neoavanguardie, ai novissimi, al gruppo ’63, e si invera per altra via, quasi per rovesciamento dialettico, oltre che numerico, nel gruppo ’93 e all’area del Baldus, a cui Costanzo Ioni è storicamente contiguo; ma più a largo raggio, l’ars macharonaea e fidenziana, l’espressionismo, la deformazione comico-realistica con i suoi antenati contemporanei, moderni e medievali e antichi, da Gadda a Joyce, da Rabelais a Cervantes, fino a Dante, e a Petronio. Ioni costruisce così la sua lingua deviante, anomala, periferica eppure centrale, in una mescidanza abnorme, anticanonica, anticuriale, antiaulica.
Ne vengono fuori una poetica e una politica del ritmo e del linguaggio che riflettono la realtà in anamorfosi. Così la lingua di Ioni restituisce di sguincio, o in tralice, il quadro oggettivo di tutto l’affare del mondo, denunciandone l’irrisoria messinscena. Questa parola esagerata, passata sotto una gragnuola destruente di riassestamenti fonetici, morfosintattici, lessicali, al di là dei confini fra italiano standard e dialetto, fra dialetti italiani e lingue europee contingue, finisce per travolgere in sé i tic e gli automatismi della neolingua mercantile oggidiana, ne riarrangia gli idioms, ne riorienta le dinamiche comunicative usuali. Risultato: un argot plurivoco, surreale, di un surrealismo ontologicamente più solido del reale: una lingua creolizzata, che delle lingue creole riflette le dinamiche di auto-organizzazione, fra parole macedonia, calchi morfosintattici aberranti, spiazzamenti ortoepici. Nello stesso tessuto di Stive convivono, con permanente sfrigolio contrastivo, idiotismi dialettali, lessici pseudo-familiari da pubblicità, esotismi.
In questo pot-pourri di strutture convergono ovviamente apporti formali e metatestuali di ogni tipo e di ogni epoca. L’incipit (“n’iperbole e chenneso – ca l’opra s-terminata”) ricostruisce la quartina zagialesca di doppi settenari dei poemetti di Bonvesin de la Riva e delle laude di Jacopone. L’ironia metafisica di “Codice e regolamenti”, la prima sezione della raccolta, esordisce scandita da vasti versi atonali, pseudoprosa alla Mazzonis, brevi esquisse prosastici pseudo-didascalici. La sezione successiva, L’antica allegria del guidatore, comincia con un evidente richiamo all’incipit del Don Chisciotte, e procede esclusivamente per ampie lasse versolibere e atonali, di varia struttura e misura, in cui sembra campeggiare in sottofondo un io narrante tipico dei romanzi in versi alla Pagliarani e alla Bertolucci -naturalmente con tutt’altra impostazione formale e concettuale. Le lasse di pseudoprosa non giustificata di “Fuochi fatui” spezzettano la parola in una disgregazione ortografica scandita dallo slash e fonata al limite della lallazione. Una prosa di lingua anarcoide, fra dialetto dell’età dell’informazione e gergo cancelleresco tardorinascimentale, si esprime in “Limiti di velocità”, che però mostra una breve sezione versale connotata da nitido monolinguismo. Tutt’altra temperie espressiva è invece in “Clo(w)ne e il doppio”, in cui formalismo e tecnicismo ironizzati e degradati, ridotti al comico tramite calembour e figure etymologicae, campeggiano a ogni linea. Nelle brevi sezioni centrali di “Ciurme tempestose” e “War games graffiti (le donne, i cavalier, l’arme, gli amori)”, “Que ten(e)(n)iss” la lingua in assonometria esplosa di Ioni fa le sue prove più allucinate, travolgendo e stritolando senso e significato, introducendo lo stile debordante delle sezioni finali, “Rif.Lettere”, “A Chevalier donato”, “Stive”. L’intero libro segue dunque una climax ascendente della complessificazione espressionistica di forma e parola, così che i suoi due ideali emisferi si compenetrano e si integrano.
A chi segue questa climax comica e corrosiva, si squaderna davanti un descensus Averni dell’insensatezza quotidiana. Ma allo stesso tempo, l’autore di Stive accompagna per mano il suo fruitore lungo un romanzo di de-formazione che è anche guarigione da quella stessa insensatezza. A un primo contatto, taluni giochi verbali del poeta sembreranno eccessivi ed estranei al consorzio del comprensibile. E però già nella prima grande sinderesi poetica dell’Occidente medievale e moderno, il lettore si è trovato davanti ai “papé satan papé satan aleppe” e ai “lamè maì alecche zabì almi” di Pluto e Nembrotte. Nell’antipoema dissacrante della commedia umana troppo umana, nell’epoca in cui il poeta è ormai a-theologus, perché ogni dimensione assiologica si è disgregata e ogni fondamento è stato obnubilato dall’incertezza mediale, il medium linguistico deve per forza di cose, nell’ottica di questa poesia, destrutturare in più modi la sua sensatezza apparente, così da porre le basi di un ri-sensamento dell’esistenza.