Il racconto di un quadro e di una mostra
(La Pietà di Girolamo Troppa. Alatri, Chiesa degli Scolopi, fino al 17 giugno 2018)
di Tarcisio Tarquini
Questo quadro merita un racconto. Raffigura una Pietà, è stato dipinto in un anno imprecisato ma non prima del 1680 e non dopo il 1685, ne è autore Girolamo Troppa, un pittore nato in un piccolissimo borgo della bassa Sabina, Rocchette, che fu per secoli sede di vacanza della curia pontificia, a parecchie decine di chilometri da Castelgandolfo, luogo del riposo estivo del papa, quasi a mettere una distanza, tra questo e quella, sufficiente per assicurare ad entrambi la pausa e la tranquillità che la eccessiva vicinanza avrebbe potuto rendere più contrastate.
Il quadro è stato giudicato dal massimo conoscitore dell’opera di Troppa, il tedesco Erich Schleier, “acerbo”. Non se ne comprende la ragione. All’epoca in cui lo dipinse, il maestro sabino aveva più di quaranta anni, l’acerbità non pare dunque un portato dell’età, lo stigma di una maturità ancora non compiuta. Il severo richiamo del critico tedesco, dunque, sembra piuttosto alludere a una sorta di irresoluzione stilistica che spaccherebbe la grande tela in due parti: su una, quella bassa, la figura del Cristo rigorosa nella sua compostezza classica, sull’altra, quella superiore, la figura della Madre, quietamente appassionata, che non nasconde né esibisce il dolore, ma lo tradisce e lo risolve in un fremito barocco.
Il pregio e l’importanza del quadro, però, stanno proprio in questa sua duplice natura, classica e barocca. Lo scrive Mario Ritarossi, l’appartato storico dell’arte che lo ha scoperto, con la sua cornice d’epoca recante ancora il ricordo dell’originaria sontuosità, su una parete, nascosta allo sguardo indiscreto degli stessi fedeli, della sacrestia della cattedrale di Alatri, chiarendo a tutti che in questa doppiezza si trova enunciata la modernità del dibattito artistico in cui Troppa fu immerso, da protagonista sia pure minore. E che, come afferma Francesco Petrucci, il conservatore del Palazzo Chigi di Ariccia conoscitore assoluto del barocco romano, lo certifica quale pittore di dimensione europea, lui spinto solo dal talento a trasferirsi, nella ricerca di miglior sorte, dalla periferia in cui era nato a Roma, capitale delle opportunità.
Un quadro custodito, o dimenticato, dentro una sacrestia, ma collocato nel suo posto giusto. Chi lo commissionò fu infatti, con ogni probabilità, un vescovo di Alatri colto e potente, Michelangelo Brancavalerio, assai legato al circolo romano dei Barberini e perciò a contatto con gli artisti più in vista della Roma degli ultimi decenni del “gran secolo”, tra cui Troppa era annoverato con ruolo non secondario. Lo volle come quadro “devozionale”, preposto a fungere da richiamo meditativo per il sacerdote in procinto di dire messa, oggetto sacro di devozione per la intima funzione della “praeparatio ad missam”, tuttora vigente ma alla quale, forse, la “Chiesa in uscita” di papa Francesco ha tolto la secolare e suggestiva riservatezza.
Questa firma merita un racconto. Una pennellata persa nella sfilacciatura della tela, un filo d’erba che spunta dal terreno su cui è posto il giaciglio che accoglie il corpo di Cristo. In realtà quei segni sono un nome abbreviato, una firma in latino, invisibile a occhio nudo, nascosta già nell’intenzione e perciò scritta nell’estremità più segreta della tela. Potrebbe sembrare il gioco di un pittore tutt’altro che propenso al gioco, per il carattere impulsivo e facile all’ira che le cronache della vita romana gli attribuiscono. Improbabile che si tratti di un caso, visto che il nostro Girolamo non risultò immune dall’ansia moderna e laica di segnalare con l’opera la sua individuale presenza nel mondo. Se di gioco si tratta, comunque, è stato svelato da Mario Ritarossi, il primo ad aver individuato la firma e ad averla impressa in un scatto fotografico messo a disposizione di tutti. Anche a conforto di quegli studiosi che, a dispetto della frettolosa diagnosi emessa dai funzionari della soprintendenza, si erano opposti a menzionare il quadro come frutto della scuola napoletana del seicento e, per indizi stilistici sapientemente colti nelle foto d’archivio, lo avevano correttamente riferito a Girolamo Troppa, pare per un certo suo modo di disegnare – che so – il risvolto delle maniche delle vesti. Intorno alla firma – si è notato – il pittore aveva ingaggiato una personale e definitiva prova di autorevolezza. Egli si autografa, infatti, con il titolo di “equites” dal momento in cui per volere e riconoscimento del papa Innocenzo XI viene insignito del titolo di “cavaliere”, dopo il 1685 quando aveva già lasciato Roma, o era sul punto di farlo, per tornare alla sua Rocchette. La Pietà di Alatri è allora precedente, appartiene agli anni dell’ascesa, della ricerca del prestigio, ma è già il risultato di una committenza facoltosa, come il costoso lapislazzulo, identificati da Mario Ritarossi con un’accurata analisi dei pigmenti utilizzati nell’impasto che colora d’un azzurro strabiliante il manto della Madonna, starebbe a dichiarare.
Questa mostra merita un racconto che ha un protagonista assoluto e tanti comprimari. L’idea nasce da una emozione germinata nella fantasia di un bambino che, incuriosito di tutto ciò che la polvere nasconde ma non confonde, vede un quadro e lo custodisce dentro la memoria fino al momento in cui, da adulto, decide di rivelarlo al mondo che, dopo tanti anni di attesa, tarda ancora ad accorgersi della sua presenza e del mistero che sembra celare. Quel protagonista ha un nome, si chiama – lo abbiamo già ricordato – Mario Ritarossi, storico, docente di pittura ma soprattutto un artista anche lui che si divide tra ardite sperimentazioni coloristiche, composizioni digitali e un disegno che indulge, compiacendosene, in una provocatoria inattualità. È lui il bambino che osserva ed è lui l’adulto che studia la Pietà di Girolamo Troppa. Con una dedizione che mette a nudo un’ansia autobiografica, quella di aver ritrovato, tre secoli prima, una traccia della sua vocazione e il destino del suo carattere nel lontano maestro della provincia sabina che seppe farsi valere a Roma e i cui quadri e disegni sono esposti oggi perfino nei grandi musei europei ma non godono della giusta fortuna a casa loro.
È una mostra che si è fatta in una cittadina della nostra grande provincia italiana, ricca di idee e povera di eventi, senza contributi pubblici, con i cittadini e le imprese locali che si sono eletti a “azionisti” e testimoni di un’impresa culturale progettata per un risarcimento, per un cenno d’affetto della memoria. E con tante persone che hanno messo a disposizione lavoro, tempo, competenze professionali, attuando un progetto di comunità, che smentisce la maledizione del “familismo amorale”, con il suo orizzonte ristretto di azioni, che da sempre arriva dal meridione più profondo fin quassù a lambire queste terre denominate ciociare.
Può aprire una strada nuova di partecipazione civica, di cordialità umana, di fiducia comunitaria. Anche questa sarebbe poi una storia da raccontare.
“Il Cristo svelato. La Pietà di Girolamo Troppa”. Alatri, Chiesa degli Scolopi, fino al 17 giugno 2018. Un progetto di Associazione Gottifredo realizzato da Coworking Gottifredo.
Curatore: Mario Ritarossi, con la collaborazione di Eugenia Salvadori. Allestimento: Marco Odargi. Paesaggio sonoro: Luca Salvadori. Impianto audio: Marco Canegallo. Video: Angelo Astrei. Traduzione tattile per non vedenti: Paolo Cullae Alba Lisa Mazzocchia, con la collaborazione di Leonardo Roma e gli studenti e le studentesse del Liceo Artistico di Frosinone (progetto di alternanza scuola-lavoro).
Catalogo con saggi di Mario Ritarossi, Eugenia Salvadori, Marco Odargi, Alba Lisa Mazzocchia, Francesco Petrucci. Foto del quadro di Marco Ritarossi.
Dal lunedì al venerdì ore 9-13/16-19, sabato e domenica fino alle 22.
Informazioni: +39 3332821579/+39 3923145127