“Com’è che si chiamava?…” – Un racconto di Aleksandr Snegirev
[Falce senza martello è il titolo di una raccolta di racconti post-sovietici firmati da autori nati fra gli anni Settanta e Ottanta; il volume, tradotto e curato da Giulia Marcucci e pubblicato da Stilo editrice nel 2017, offre una panoramica sulla prosa contemporanea di lingua russa. Presento il racconto che apre la raccolta, ringraziando editore e curatrice. ot]
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di Aleksandr Snegirev
traduzione di Giulia Marcucci
Lei chiese: «È Stalin?».
Alberi, cespugli, sentieri scricchiolanti. Qui sono stati confinati i reggenti di stati e dicasteri passati. Imprese eroiche ed efferatezze sono alle spalle, dietro la svolta del secolo; i monumenti invece, come sclerotici smarriti, li hanno raccolti in giro per la città e portati sull’erba, sotto le fronde. Commissari del popolo, marescialli, rigorosi soldati di fronti dimenticati, di granito, cemento, fusi in variopinte leghe metalliche, privati di piazze, basamenti, alcuni vergognosamente stesi sul prato. Si possono abbracciare tutti, e vicino a tutti ci si può inginocchiare per una foto spassosa. E i vecchietti non sono che contenti. Spuntano dalla macchia, sbirciano da dietro i cespugli. Si sono trasformati in spiriti del bosco, satiri e bacchi, in tutti quei fauni che popolano boschi, parchi e laghi.
Mi ha trascinato qui la bambolina dai capelli color stoppa. Si mette in posa, mi prega di fotografarla. Sarebbe stato meglio se fossimo andati al cinema. Bisognava troncare quando, nella speranza di sembrare colta, aveva elencato i suoi libri preferiti: Il Maestro e Margherita e tutto Remarque. Da tempo mi ero ripromesso una cosa: «Come senti parlare di Remarque, tronca subito, non tirarla per le lunghe». Ed eccola, Giuditta che accarezza con le sue mani curate le labbra di pietra di Il’ič-Oloferne: occhio che potrebbe dare una bella scossa al vecchio e lui non resisterà, le sbaciucchierà il mignolino. E mi chiede anche se è Stalin. Del resto, avrebbe potuto chiamarlo perfino Puškin.
Tra l’altro ci eravamo già incontrati. Possibile che sia proprio lui? Solo il collo si è incrinato. Ricordo che mi trovavo in un piccolo cortile, e iniziava settembre, come adesso, e l’aria era di cristallo come un vaso. Quell’anno ero appena arrivato in città dopo il servizio militare, non avevo superato gli esami d’ammissione all’università, avevo trovato un lavoro come operaio negli studi della Mosfil’m e avevo preso una camera in affitto da Elizaveta Romanovna. Gironzolavo in un giorno festivo per il centro svuotato, i moscoviti se n’erano andati nelle loro dacie, quando vidi un annuncio: «Affittasi camera a studentessa». E con una grafia così accurata. Pensai anche che forse la ragazza era bella, che stesse cercando una compagna di studi. Difficile, certo, ma i miracoli accadono. E benché non fossi affatto una studentessa, come studentessa – diciamolo pure apertamente – sarei stata pessima, decisi lo stesso di andare a quell’indirizzo, era a due passi.
Elizaveta Romanovna risultò essere tutt’altro che una ragazza, una settantina d’anni li aveva tutti, però teneva la schiena dritta, due volte la settimana nuotava nella piscina Moskva per un’ora, passeggiate regolari, docce a contrasto, longevità attiva. Conobbi Elizaveta Romanovna alcuni anni dopo la perdita del marito, un colonnello in pensione che era morto lasciandole un appartamento di tre vani, un paio di pantaloni da parata con l’orlo commemorativo della Vittoria e un figlio che, come accade, era un ingrato, si era sposato per la seconda volta ed era partito per la costruzione di una centrale elettrica nei pressi di un lontano fiume settentrionale, le cui acque avevano completamente lavato via il ricordo della madre. All’epoca, la storia delle grandi costruzioni a Nord era ancora attuale, forse in declino, è vero, ma la domanda non cessava. In sintesi: il figlio era lontano, di nipoti niente, tutto era in ordine, il mucchio di piatti, la bottiglia verde, i tovaglioli bianchi, ed Elizaveta Romanovna decise di affittare una camera.
Le andai subito a genio. Cantilenando, alla moscovita, disse che le sembravo un giovane per bene e non avrei mancato di rispetto a una vecchietta. Mi fece alloggiare quello stesso giorno. Il prezzo risultò assolutamente onesto, ricevetti la chiave, il permesso di usare il bagno e un’intera lista di regole su come bisognava comportarsi in casa d’altri.
E così iniziai piacevolmente a vivere al fianco di Elizaveta Romanovna. Mi raccontava del marito, poi si mise a ricordare gli spasimanti, dispensando nel frattempo consigli su come comportarmi con le ragazze, cosa fare e cosa non fare per nessuna ragione.
Mi colpì il suo racconto di quand’era studentessa, quando la corteggiava il bello dell’Istituto, un atleta, un ragazzo ben messo, vincitore di gare, tutte le ragazzette non gli staccavano gli occhi di dosso, e la giovane Elizaveta Romanovna poco mancò che non acconsentisse a sposarlo. Se non fosse stato per una circostanza: una volta, alla mensa, vide per caso quel fisico d’atleta ripulire i piatti degli altri. Al poveraccio non bastava la borsa di studio per rimpinzarsi a dovere, era un accattone, tutti facevano la fame, certo, però mettersi a ripulire i piatti degli altri… Da quella volta d’andarci in giro mano nella mano era impensabile, ma anche di frequentarlo non se ne parlò più. Ecco qui che animo fine. Poi la compagna di stanza conobbe un allievo della scuola militare, che ovviamente aveva un amico. E combinarono. Il marito fu arruolato e spedito al confine con l’Estonia, che quasi volontariamente si era appena unita all’Unione delle sedici repubbliche. Si trasferirono in un posto nuovo, il marito iniziò a rientrare dopo la mezzanotte. All’inizio era cattivo, poi arrivava che era ubriaco o non si faceva vedere proprio. Correva voce che gli avessero affidato le fucilazioni notturne. Reclutarono tutti gli ufficiali più giovani. Bisognava far abbassare in fretta la cresta agli estoni. Grazie al cielo arrivò la guerra. È una tragedia, certo, ma almeno niente bagordi. Lei con la pancia, in quanto moglie di un militare, la misero sul treno e la evacuarono sugli Urali, il marito invece al fronte. Partorì il figlio in autunno inoltrato, quando i tedeschi erano lì lì per prendere Mosca e rimasero paralizzati, stregati dal primo gelo. Come sopravvissero non si sa, il ciarpame estone lo barattò col pane, e così tirò avanti fino al ritorno del marito, due anni dopo. Contusioni sì, ce n’erano, in compenso mani e piedi erano interi. Poi vagarono per il paese, per fortuna una vicina a Sachalin gli diede una dritta e il marito entrò all’accademia. Si spostò a Mosca, finì gli studi, ottenne un incarico allo Stato Maggiore, gli dettero una stanza, poi un appartamento. La casa era vecchia, sciatta, non c’era un angolo che fosse dritto, ma almeno non raccoglievano gli avanzi degli altri.
Io decisi di prepararmi per l’anno successivo e nel frattempo di guadagnarmi qualcosa con quello che capitava nello studio di cinema. Quando seppe delle mie ambizioni, la padrona si infervorò e mi disse che aveva sempre sognato di diventare un’attrice, venerava la Orlova e collezionava cartoline con le attrici italiane, che però erano andate perdute durante il trasloco. Avrei voluto vederla una donna che non sognasse di fare l’attrice. Probabilmente da qualche parte esistono anche, ma a me non sono mai capitate. Una volta, di mattina, Elizaveta Romanovna mi incontrò in cucina, mi diede il buongiorno con labbra abbaglianti di rossetto e una volpe artica gettata sulle spalle. Forse le risposi con un complimento abbastanza raffinato per essere di mattina presto. Così Elizaveta Romanovna si mise a fumare una lunga sigaretta.
Fumava, proprio così, incredibile: mano sospesa, anelli al soffitto e sguardo annebbiato. Una posa simile non l’avevo mai vista prima. Da quel giorno i mozziconi macchiati di rossetto erano ovunque, li spegneva nelle tazzine, nei cucchiaini, nei piattini. Un posacenere, Elizaveta Romanovna non se lo procurava, perché lei non ammetteva di fumare. «Se fumassi,varrebbe la pena comprarne uno» diceva. «Ma io, così, mi trastullo». Alle parole «mi trastullo» mi fece l’occhiolino con le ciglia incollate dal mascara.
Gli abiti sfilavano uno dietro l’altro. Non c’era colazione, pranzo o cena in cui Elizaveta Romanovna non comparisse con un vestito o una mantellina nuovi. Una pelliccia di volpe o quella artica già menzionata, trofei tedeschi narcotizzati dalla naftalina, per anni lasciati in pace nelle vecchie valigie in soffitta, furono risvegliati e restarono a bocca aperta nel vedere la loro padrona. Osservavo le metamorfosi di Elizaveta Romanovna, vezzo innocuo e affascinante di una signora anziana ancora in forma, finché non mi porse una scatola avvolta nella carta.
«Regalo».
Sospettando il peggio, iniziai a scartare il pacco, le dita tremavano leggermente. Una macchina fotografica. Elizaveta Romanovna mi aveva comprato una macchina fotografica. Uno di quei giorni doveva essermi scappato un complimento sul suo nuovo look pelliccia e sigaretta. Le presi la mano e, obbedendo a un qualche istinto, la portai alle labbra. Quando, già imbarazzato per il mio slancio, le diedi un’occhiata di sbieco, mi imbarazzai ancor di più: le sue labbra erano distese in un ampio sorriso semplice, senza malizia e senza senso, come sorridono i bambini, e dalle ciglia truccate scendevano lacrime.
«Grazie» disse lei e si voltò alla ricerca di un oggetto inesistente.
Iniziai ad affaccendarmi in un inutile trambusto, mentre lei si mise a parlare del tempo. Ed entrambi guardavamo in direzioni differenti, con la paura, più di tutto, di incrociare gli sguardi. Una cosa del genere succede alle persone solo dopo un momento d’intimità casuale.
«Dicono tutti che ho un ovale da ragazzina. Fumo con eleganza e so salutare come Anna Magnani» disse Elizaveta Romanovna dopo essersi soffiata il naso. Mi sferzò la sua volpe artica sul viso, si girò di spalle e sculettando uscì dalla cucina, ma sulla soglia del corridoio mi puntò contro il suo ovale da ragazzina, sbatté le ciglia e mi fece l’occhiolino. Poi andò avanti e fece solo un cenno con la mano, senza voltarsi. Non so se l’attrice italiana Anna Magnani sapesse fare giochetti simili, ma alla mia padrona riuscivano alla grande, un’autentica puta.
Quel giorno non feci altro che fotografarla. Sulla poltrona del marito, sul divano, sul letto. Qui posava abbigliata di merletti. Ovviamente mi chiese di fare un primo piano alla sigaretta accesa in bocca. C’è qualcosa di ingenuo, d’adolescenziale, in questa passione delle foto con la sigaretta. Fotografo, immortala come fonde il ghiaccio sul mio corpo di velluto. Questi scatti si assomigliano tutti, sono tutti ugualmente vuoti. Ma allora non lo sapevo, se non era la prima volta che tenevo una macchina fotografica in mano, poco ci mancava, e quello scatto mi riuscì bene. Lo conservo ancora. La sigaretta tra le lunghe unghie scure – teneva sempre le sigarette con le estremità delle dita, lei – e le labbra carnose cucite al volto imbiancato con le fitte impunture delle grinze incipriate.
Ci avevamo preso gusto. Non ci accorgemmo che s’era fatta sera. Mangiammo dei tramezzini. Mi disse che aveva adocchiato su una rivista polacca di fotografia una ragazza con la pelliccia sotto zampilli d’acqua. Non feci in tempo a valutare la portata del piano, che Elizaveta Romanovna aveva trascinato fuori dall’armadio un sacco enorme e già lo stava sventrando, tossendo per la polvere e la naftalina. Mi lanciai ad aiutarla e con i nostri sforzi congiunti fu portata alla luce un’enorme pelliccia di visone.
«Non guardare», disse la mia modella, e mi voltai.
Alle mie spalle frusciavano i lembi e le maniche della pelliccia, cigolavano le ante dell’armadio, arrivava il borbottio «adesso, adesso», sbatté il coperchio gettato di una scatola di cartone…
«Ora si può».
Mi voltai. Elizaveta Romanovna indossava la pelliccia e delle scarpe bianche col tacco alto. Non so se è il caso di dire che la pelliccia, con una evidente alopecia sulla spalla causata da una tarma, stava addosso al corpo nudo che Elizaveta Romanovna drappeggiava e schiudeva al contempo.
Mi balenò il pensiero che la faccenda stesse andando per le lunghe, ma la mia padrona andò dritta in bagno e una nuvola di profumo mi trascinò dietro.
Le persone fanno spesso pena quando posano. Cercano di sembrare qualcuno, realizzano goffamente i propri desideri, svelano il mondo interiore o quello che hanno da mostrare. Ma c’è una soglia oltre la quale una persona smette di fare pena e diventa qualcosa per cui non esiste definizione. Che suscita sconcerto e silenzio. Un’assurdità che produce la sensazione di un miracolo. Quel giorno fui testimone di una cosa del genere.
Elizaveta Romanovna balzellò in uno scintillio di calli, non senza difficoltà e con il mio appoggio, attraverso il bordo della vasca, poi aprì il rubinetto e solo in quel momento ricordò che avevano spento l’acqua calda per un guasto. Pensai rincuorato che l’avventura non si sarebbe realizzata, ma Elizaveta Romanovna, che non aveva più il minimo controllo, diede prova di inflessibilità, portò su di sé un getto ghiacciato e comandò: «Scatta!».
E io iniziai a fotografarla. Scattavo e scattavo. E lei a ogni scatto si intorpidiva sempre più. Come se non si stesse gettando addosso dell’acqua fredda, bensì si stesse crogiolando nell’idromassaggio. Avevo paura che si ammalasse e le dissi ripetutamente di smetterla. Le sue labbra illividivano attraverso il rossetto sbiadito, la pelliccia bagnata si era trasformata in uno straccio, eppure voleva continuare. Alla fine appoggiai la macchina fotografica e chiusi il rubinetto.
E lei cominciò a insistere di continuare. Si aggrappò alle mie mani.
E i nostri visi finirono per sfiorarsi. Scostai il mio.
Davanti a me c’era una vecchia dalla pelliccia bagnata, con ciocche tinte di capelli appiccicati alla fronte, il trucco che colava. Le ordinai di togliersi la pelliccia, le cui maniche non volevano liberare il corpo. D’un tratto divenni un dottore o un padre. La avvolsi nell’asciugamano e la condussi a letto. Non ricordo nemmeno se la vidi nuda.
Le feci una tazza di tè e le ordinai di dormire. Il giorno dopo, ovviamente, si ammalò e restò a letto con la febbre alta per una settimana, vaneggiava, disegnando sul petto il perimetro di una fossa che degli ingegneri avrebbero dovuto scavare. E per tutto questo tempo mi occupai di lei, cambiavo i fazzoletti freddi sulla sua fronte, le facevo bere il tè. Le mostrai le fotografie e le attaccai nella sua camera alla carta da parati. Tappezzai le pareti. Non per darmi delle arie, ma devo ammettere che erano venute proprio bene. Dopo di che, dite pure che la tenacia non è una virtù.
Poi guarì e ricominciò la tiritera. Dapprima chiese di farle sempre un cenno dal cortile ogni volta che uscivo. Il tragitto verso la metro passava attraverso un piccolo cortile accanto a un monumento e ogni volta, giunto all’altezza di Il’ič, dovevo voltarmi e farle un cenno con la mano. Io ci stavo, agitavo e riagitavo la mano, e lei ci prese gusto ad accompagnarmi in ogni momento della giornata, fossi uscito anche la mattina presto – le foglie secche erano volate via e la neve formava sulla pelata di gesso una capigliatura bianca – io continuavo a farle cenno con la mano, e addirittura mi ero affezionato a questa cosa, finché un giorno non me ne dimenticai. Andavo di fretta. Ritornai la sera, stanco morto, avevamo costruito le scenografie tutto il giorno, e trovai Elizaveta Romanovna sfigurata. Gli occhi gonfi, non aveva fatto altro che piangere. Era fredda. Le chiesi che cosa fosse successo.
«E non lo intuisce?».
Non c’è niente di peggio di quando ti chiedono se non intuisci una cosa, e tu saresti felice di intuirla, ma non ne hai idea. Quando poi ti si rivolgono dandoti del lei, vuol dire che le cose si mettono male.
«Mi ha ingannata. Non ha fatto il gesto come eravamo d’accordo» contestò lei con voce tremante. «E per poco non sono impazzita».
Era allora che avrei dovuto cambiare casa, solo che non diedi il giusto peso a questa scena, e mi ero già affezionato parecchio alla mia eccentrica padrona. Mi scusai con le espressioni più raffinate e palesemente adulatorie, e il giorno seguente le feci un cenno con la mano doppiamente più lungo del solito. Lei era già nascosta dalle tende che io continuavo a salutarla, non si sa mai che stesse sbirciando da una stretta fessura. Dopo il lavoro comprai cioccolatini, garofani, spumante. Errore fatale. Restammo per un po’ seduti, bevemmo, l’incidente a quanto pareva si era appianato, io iniziai a prepararmi per andare a dormire e lei afferrò la brocca con l’acqua, mi seguì in camera. Aveva fretta di annaffiare il cactus. Facesse pure, non ero contrario, solo che la brocca non arrivò al vaso, bensì me la rovesciò sul letto, bagnando irrimediabilmente il posto dove avrei dovuto dormire. Oh, ah, che sbadata.
Le assicurai che non era successo niente di grave, mi sarei steso sul pavimento.
Ma lei:
«Ho un letto largo, c’è posto sufficiente». «Russo».
«Sapessi come russava mio marito, non puoi immaginare». «Io…».
Mi interruppe con un bacio.
«Non sarà mica vietato scherzare!» con fare baldanzoso scoppiò a ridere Elizaveta Romanovna, dopo essersi staccata dalle mie labbra.
Mi contagiò.
Ci mettemmo a ridere.
Mi diede una spinta al petto.
Le diedi un colpetto sulla spalla.
Sfiorò come per gioco la mia pancia. E non spostò la mano. E si accostò tutta. E scivolò in basso. E iniziò ad accarezzare, come se stesse spianando la pasta. «Cosa, non si può nemmeno scherzare? Non si può?» ripeteva, ridendo ostinata e tirando i bottoni. Afferrai la mano ossuta.
«È vietato scherzare?» cominciò a piagnucolare lei. La tenevo forte. Solo il suo inaspettato strillo mi costrinse ad allentare la presa.
«Per chi mi prendi?!».
«Elizaveta Romanovna…».
«Io… Ho mancato a qualsiasi forma di decoro… io… non sono un giocattolo… Ha pensato di compromettere… Fuori di qui!».
Senza costringerla a ripeterlo una seconda volta, iniziai a buttare le mie cose, che per fortuna erano poche, nella borsa. Il mese volgeva al termine. Di debiti non ne avevo. Avrei dormito alla Mosfil’m, il guardiano mi avrebbe fatto entrare, e poi mi sarei guardato intorno, era ora di troncare con quella nonnina strampalata. Mentre raccoglievo le mie cose lei fumava, osservando sospettosa che non prendessi qualche pezzo della sua porcellana. Pensai se prendere o meno la macchina fotografica, decisi di sì. Nelle ultime settimane non era passato un giorno senza aver scattato delle foto, e alla Mosfil’m già le elogiavano.
«Arrivederci, Elizaveta Romanovna» le dissi io dalla soglia di casa.
A quel punto si afferrò le orecchie e le tirò fortemente. Del nastro adesivo rimase attaccato alle dita. Lo usava per tirarsi la pelle, mascherando questo espediente cosmetico con un foulard e i capelli. Il fruscio del nastro, l’ovale da ragazzina deformato e il suo ruggito maligno mi colpirono a tal punto che rimasi imbalsamato. L’idrofobia della vecchia si riversò nelle parole. Mi malediceva dicendomene di tutti i colori, mi dava dell’ingrato, della carogna, serpe, dalla sua bocca insieme a resti di rossetto volavano maledizioni in un dialetto russo a me sconosciuto, che evidentemente aveva imparato durante gli studi a Char’kov. Io ero a tal punto ammaliato da quanto stava accadendo, che non mi riebbi neppure quando lei, dopo aver finalmente liberato le dita dal nastro, ruppe contro il pavimento il vaso con il cactus, corse nella sua camera, si mise a strappare tutte le foto dalle pareti, stropicciandole e lanciandomele addosso. Poi all’improvviso si gettò ai miei piedi, li afferrò e mi implorò di non lasciarla.
«Morirò da sola! Non puoi andartene così! Chi ti nutrirà?!».
Mi limitai a sollevare un pochino la borsa, come se in basso sciabordassero onde minacciando di bagnare la mia roba. Alla fine, quando mi rinvenni, cercai di liberarmi dalla sua presa, non la pregai di smetterla con quella scenata isterica. Dissi semplicemente: «Rimango».
Occorre darle atto: le urla e le suppliche si placarono subito, le diedi la mano, lei si alzò e si scusò del suo comportamento. Quella notte la passai sul pavimento vicino alla mia brandina bagnata.
Passarono alcuni giorni senza vederci, lei si era chiusa nella sua camera, io scomparvi al lavoro. Poi le cose si aggiustarono. Dapprima con cautela, come sul primo ghiaccio, ripresero i tè insieme, poi con ampi gesti della mano rinnovai i cenni di saluto. Una volta uscii dal portone, mi fermai vicino al monumento e le feci il cenno di saluto senza girarmi. Come Anna Magnani. Poi mi voltai subito. E vidi le tende iniziare a ondeggiare. Senza metterci d’accordo decidemmo di non continuare a fare foto, restammo, come si suol dire, buoni amici.
L’inverno cedette il posto alla primavera, così da tanto attesa da volar via in un baleno, ed ecco che già i venti di agosto spingevano a tutta forza l’estate verso un nuovo settembre. Era passato un anno da quando ero arrivato nella capitale. Nel frattempo, senza rammarico, fallii al mio secondo tentativo di entrare all’università e conobbi una ragazza, anche lei di fuori. Voleva fare la stilista, ma intanto lavorava provvisoriamente come assistente truccatrice. Non è che fosse la mia prima ragazza, ma comunque era come se lo fosse. Avevo completamente perso la testa. Anche lei mostrava benevolenza nei miei confronti, mi cucì un paio di jeans a banana su misura. La passione, tuttavia, si spense subito, non appena l’oggetto della mia ammirazione si sottomise. Mi sentivo alla grande: cominciai a guardarmi intorno, a notare le altre, diventando da quieto forestiero a fighetto piacione. Fedele spasimante fino a un attimo prima, poi di colpo cinico inveterato, me la spassavo – così mi sembrava allora – con un’altra, quand’ecco che la mia rimase incinta. E decisi di consigliarmi con Elizaveta Romanovna. Non di consigliarmi, semplicemente di raccontarle. Mia madre mi avrebbe trucidato per la sconsideratezza, mentre io avevo bisogno di un parere ponderato. Dopo tutto quello che c’era stato tra noi, decisi che non avrei trovato miglior confidente.
Di lì a poco capitò l’occasione giusta. Fui ascoltato attentamente. Ero giovane. Tutta la vita davanti, nel paese c’era aria di cambiamenti, e presto per i giovani si sarebbero aperte prospettive tali che la vecchia generazione non aveva neppure potuto sognare. Elizaveta Romanovna elogiava il mio talento fotografico, diceva che il cammino di un artista era spinoso, ma pieno di gloria, e che non era il caso d’aver fretta a sobbarcarmi una famiglia, visto che ero senza esperienza e non avevo ancora mosso i primi passi in questo cammino. Intrecciando con destrezza fatti e adulazione, Elizaveta Romanovna mi fece sorgere il dubbio, anzi, la convinzione che vicino a un genio non poteva starci una truccatrice incinta.
Per un po’ riflettei sulle sue parole, dicendo tra me e me che amavo… com’è che si chiamava?… che amavo tutto sommato quella ragazza, e che desideravo diventasse la madre dei miei figli, ma la mia decisione già vacillava nella sua ovvietà. Poco dopo, al primo disaccordo su dove trascorrere il fine settimana – se passeggiare nel parco o se fare una scappata a Piter –, litigammo, e io dissi che dovevo riflettere su molte cose. Il giorno dopo avrei voluto scusarmi e dimenticare tutto, la tresca e il dissidio, ma lei disse che non voleva legare tutta la sua vita a uno come me. Risposi che già da tempo avrei voluto dirle la stessa cosa, che era ora di prendere strade diverse e che doveva abortire. Con un bambino non l’avrebbero ammessa in nessuna scuola per stilisti. Come se avessi pensato al suo futuro. Vendetti addirittura il walkman della Sony. Perché i soldi bastassero per il dottore, le medicine e tutto il resto. Ma avevo fatto male a venderlo, lei non volle niente. Però mi chiese di accompagnarla in ospedale. Andavo anche fiero del mio comportamento, da vero gentiluomo. La faccenda si sbrogliò così in fretta che non mi resi conto di niente. È stata la mia unica donna a restare incinta. Altri casi, ad oggi, non ne sono capitati. Almeno per quanto mi risulti. Ma il suo nome mi è passato di mente, cosa caspita non combina la memoria.
Quando quel giorno tornai nella mia camera, Elizaveta Romanovna stava bevendo del vino.
«Il vino preferito di Stalin».
Me lo versò, mi diede una strizzatina d’occhio e buttò giù tutto d’un fiato il calice. E io lo assaggiai. Che porcheria sono questi vini dolci. Il nostro generalissimo aveva proprio un gusto da femminuccia. Avesse bevuto vino secco, cognac, vodka, gli si perdonerebbe molto, ma buttar giù sistematicamente questi gradi dolciastri…
«Suo figlio le scrive?» le chiesi per non restare in silenzio.
«Io non ho figli» rispose Elizaveta Romanovna.
E sorrise.
E i suoi denti erano neri.
«Mio figlio è nato morto nella città di Irbit, regione di Sverdlovsk, il due ottobre del quarantuno».
***
Sono passati più di venti anni. L’Unione si è dissolta, gli estoni, che – in barba ai dubbi allora smorzati dalla vodka – erano stati sottomessi dal marito di Elizaveta Romanovna, insieme ad altri tredici popoli fratelli hanno lasciato la Russia, disperdendosi da una parte e dall’altra attratti dalle promesse di vicini e benefattori. Il cratere dell’amata piscina di Elizaveta Romanovna, lo hanno turato con una chiesa. Alla fine non provai una terza volta l’ammissione all’università, mi dedicai anima e corpo alla fotografia, che in fretta mi portò denaro e successo. Da quella notte non gettai mai più lo sguardo su quel cortiletto, cercando di dimenticare in fretta Elizaveta Romanovna, cosa che mi riuscì bene. E d’un tratto, ora che la mia compagna s’è imbattuta in un monumento trascinato e rovesciato nel parco, quei giorni lontani si sono risvegliati dinnanzi ai miei occhi con una nitida messa a fuoco.
Inventandomi un mal di testa, ho spedito l’ammiratrice di Remarque a casa per sempre, e io me ne sono andato da Elizaveta Romanovna. Sono entrato nel cortile, mentre sulla città stava calando la sera. Al posto del monumento una fontana e dei lampioni, al posto della finestra… La casetta era nello stesso posto di prima, ma era cambiato il suo aspetto. Dentro adesso ci sono un ristorante e un locale, e le finestre del primo piano, inclusa quella recondita, sono state ermeticamente murate.
Sulla veranda suonava un quartetto, e gli ospiti – i miei coetanei ubriachi e quelli più giovani – ballavano e cantavano canzoni sovietiche, russe ed ebree. Il pavimento d’assi tremava. Dalle finestre aperte si sentiva un pagliaccio grasso dalla gola stritolata nel papillon pronunciare un brindisi a Stalin. Il ciccione ha terminato e tutti sono scoppiati a ridere. E i musicisti hanno attaccato a suonare. E le ragazze a gettare i loro cenci londinesi e a calpestare i calici Ikea con gli stivali belgi.
Sono passato accanto agli autisti che seminavano sotto le ruote delle Mercedes addormentate bucce di semi di girasole, accanto agli alberi soffocati dall’asfalto, accanto alle case altrui e ai bidoni zeppi d’immondizia. Si dice che quel paese, dove fotografavo Elizaveta Romanovna e dove le facevo cenni di saluto con la mano, non esista più, ma eccolo qui. E risuona una lontana melodia, e una ragazza danza con la sedia, e tutt’intorno la notte russa, che nessuna luce artificiale può dissipare.
Ma torniamo a me… La mia padrona non s’era sbagliata: ho talento per davvero. Il mio lavoro costa caro, non fotografo mai nozze, cene sociali fra colleghi né bambini. Vanto premi, mostre, copertine. La fiumana di donne non si esaurisce: ottengo scatti in cui spilungone diventano fantastiche regine. Trasformo un vino leggero in bevanda divina, bigiotterie in preziosi metalli. E in cambio posso ottenere da loro ciò che voglio. Gli uomini mi invidiano, senza sapere quanto io invidi loro. Le donne non amano me, ma il potere del fotografo. Le rende belle e famose, regala grimaldelli d’accesso a un mondo che altre coetanee possono solo sognare, facendo incetta di riviste patinate alle edicole delle metro periferiche. Io invece invidio i poveri e gli indifesi. Se sono amati, lo sono semplicemente così… Solo Elizaveta Romanovna mi amava. E anche lei, quella ragazza… peccato che il suo nome non ci sia verso di ricordarlo.