Les nouveaux réalistes: Alberto Bile
Smarrirsi: quando lo smartphone sostituisce il destino
di
Alberto Bile
«Sono scappato a Honk Kong col primo idrovolante su cui son riuscito a salire, alle 3.45, e mi son messo a letto coprendomi bene per non farmi assaltare dai fantasmi, con una domanda in testa a cui non riesco a trovare risposta: che cos’è una città? Le case? La luce? I cammini che ci si sono fatti come le linee del destino sul palmo di una mano? O la memoria che si ha delle emozioni che ci si sono avute? Forse le fantasie che il solo nome suscita ancor prima di esserci stati? […] E tu dove hai la tua stella? In quale memoria trovi il tuo orientamento? Dove la tua sicurezza? A quale immagine di città ricorri quando vuoi sapere chi sei? Quando vuoi trovare la forza di sentirti diversa dal montare della marea altrui?». Così Tiziano Terzani in una lettera alla figlia (Un’idea di destino, Longanesi, 2014). Ora, nei nostri viaggi, sul palmo della mano più che il destino abbiamo uno smartphone, un telefono intelligente. L’immagine della città in esso contenuta stenta tuttavia a dirci chi siamo, e la marea altrui ci travolge altissima. Finiamo anzi per farne parte.
Il problema non sono cellulari e app di per sé, ci mancherebbe. Chi scrive ne ha fatto e fa uso in diverse fasi del viaggio. Il problema è che possono prendere il sopravvento e l’iperconnessione può snaturare il senso del partire. Non siamo educati alla tecnologia e non ne capiamo i rischi: cosa guadagniamo e cosa perdiamo. Non c’è un foglio illustrativo che menzioni tempo sprecato e solitudine, e che ci parli del senso di vuoto di arrivi in hotel con connessione immediata al wi-fi, invece di posare le valigie, affacciarci alla finestra e andare. Fotografiamo il mare in tempesta prima di farne parte. Accogliamo esultanti ogni nuova connessione, ma è comunque su un piccolo schermo, magari acceso di notte: illumina gli sguardi spiritati di ragazzi nei letti a castello, in un ostello che ha gli spazi comuni semivuoti, birre che meriterebbero di essere stappate, amache da dondolare e linguaggi da esplorare.
Nell’ultimo “Album Viaggi” de «la Repubblica», nell’articolo Nessuna mappa né conoscenza, l’app ci guiderà, Marino Niola scrive: «Ormai non servono più né cartine né senso dell’orientamento, né esperienza né conoscenza, né organizzazione né preparazione». Non servono a cosa? Occorre metterci d’accordo sull’obiettivo del viaggio: se è muovere il nostro corpo in luogo altro, allora è vero, non servono a niente. Se invece è conoscere e rigenerarci, tutto ciò è ancora indispensabile. Altrimenti il viaggio diventa una specie di “Pokemon Go”, una realtà virtuale aumentata, dove inseguiamo, acchiappiamo e passiamo oltre. Una processione di gente accartocciata su uno smartphone e non un cammino che drizza la schiena, alza le antenne e spalanca gli occhi e le narici.
La pallina che si muove su una mappa disseminata di stelle sarà anche a volte utilissima, ma il rischio è di essere solo pedoni su una scacchiera di percorsi consigliati. È l’emozione della scoperta a venir meno, se non in forma di imitazione e di sentire obbligato: possiamo arrivare più velocemente possibile alla stella (ma può mai essere lei quella cercata da Terzani?), inanellare una dopo l’altra le giostre della città luna park, possiamo farlo, certo, ma possiamo anche spegnere il cellulare, chiedere indicazioni in un negozio di alimentari, restare a parlare due ore di musica, uscire con una busta di caffè verde che non ci serve a niente. Possiamo, come invoca Claudio Magris ne L’infinito viaggiare (Mondadori, 2017), «viaggiare non per arrivare ma per viaggiare, per arrivare più tardi possibile, per non arrivare possibilmente mai».
Non consumare, ma immaginare e poi interpretare un luogo. Attendere, fantasticare. Masticare entusiasmo e timore. E, una volta arrivati, perché no, annoiarci pure. «Benevola noia, protettrice insignificanza», per dirla sempre con Magris. Foriera di intuizioni e incontri risolutivi. Starcene a guardare, sentire di perdere il tempo. Invece di riempire il vuoto fissando lo schermo tentatore, passare dalla sospensione all’azione, dal silenzio alla conversazione inattesa con i compagni di viaggio. Alzarci di scatto e fare una scelta indimenticabile. Trovarci a giocare a calcio in piazza con bambini colombiani, e segnare tre gol. Scoprire la musica portoghese da un vecchio juke-box. Fingere di essere assistenti di Tony Renis per poter entrare negli studios di Abbey Road (ma questa è un’altra storia).
Un luogo è molto più di un safari. È molto più di tre o quattro stelline di valutazione o di un hashtag. Persi tra reporter e blogger che dei loro viaggi sanno raccontarci solo un selfie e un sorriso smagliante (centinaia di like, consenso facile, un enorme “embè?” a spazzarli via) dimentichiamo di essere un paese di grandi raccontatori. Così Renzo Biasion in Sagapò (Einaudi, 2014): «Sulla passeggiata, nella parte della città rimasta intatta, tutto era come prima. Le donne camminavano allacciate ai loro amanti, reclinando la testa sulla loro spalla. Bambini, ignari, giocavano. Un vecchio seduto su una panchina fumava lento, assaporando con delizia ogni boccata di fumo. Le donne erano tanto belle, pulite, coi capelli lucidi, lunghi, abbandonati sulle spalle». Che cosa c’è in una passeggiata! Capiamo ancora che i bambini sono “ignari”, sentiamo anche noi la delizia del fumo lento? Cerchiamo donne belle solo in foto.
Niola saluta l’arrivo delle app che ci permettono «di cercare anime sorelle, desiderose di condividere la nostra erranza». Ma allora cosa rimane dell’erranza? Cos’ho in comune con queste anime sorelle, se non una certa ansia? Intento come sono a cercarle con un dito sullo schermo, a scorrere il catalogo delle autorappresentazioni, non troverò nessun’anima sorella, né alimenterò la mia con conversazioni da treno, ricordi d’infanzia e sogni.
Infine, propone Niola, «se poi sentiamo la mancanza delle persone che fanno parte del nostro quotidiano materiale e virtuale, c’è la possibilità di ricevere un alert […] che ci avverte se un conoscente, un amico o un nostro contatto è in giro negli stessi giorni e dalle stesse parti». Per amor di Dio! Non è meglio dimenticare per un po’ il nostro quotidiano (materiale e ancor di più virtuale), senza esserne prigionieri? Possiamo cambiare identità, in viaggio: ci rendiamo conto? Possiamo fingerci dj, scrittori maledetti. Possiamo tuffarci nel nuovo, e tornare un po’ nuovi anche noi, nel quotidiano.
L’anno scorso a Parc Guell, circondato da schiavi del selfie che non guardavano dov’erano, da allucinanti pose da sfilata di moda, osservavo un agente della Security con l’impossibile speranza di un suo intervento, un sequestro di cellulari. L’applicazione di un decreto legge che fissa un tetto alle foto, che proibisce quelle con autori inclusi. In un futuro ipotetico di selfie vietati, vuoi vedere che molti non troverebbero più ragioni per viaggiare? In quanti accetterebbero di confrontarsi con genti nuove, invece di condividere affannosamente con la nebulosa virtuale di conoscenze vecchie?
E invece siamo pronipoti di “Capitan Video”, il crocerista maniaco della telecamera ritratto nel 1997 da David Foster Wallace in Una cosa divertente che non farò mai più (Minimum Fax, 2010): «La registrazione magnetica dell’esperienza in crociera extralusso di Capitan Video deve essere una di quelle cose noiosissime alla Andy Warhol, di lunghezza esattamente pari alla crociera […] La gente mostra una tolleranza sorprendente verso Capitan Video, almeno fino alla terzultima sera, durante la Scorpacciata Caraibica di Mezzanotte in piscina, quando fa irruzione nel trenino conga e cerca di cambiarne la direzione in modo da riprenderlo al meglio; e a quel punto c’è una specie di incruenta ma irritata sommossa contro Capitan Video, che mostra uno sguardo offeso per il resto della crociera, mentre riordina e cataloga i suoi nastri».
La rivolta ha avuto vita breve. Adesso, tra tanti “Capitan App”, il trenino conga stenta a partire, e se parte è irriconoscibile: tutti sembrano più intenti a riprenderlo e a dargli un voto che a divertirsi. E poi è un trenino già ampiamente previsto, se ne conoscono i componenti da settimane. Non vale quanto quello dell’altra nave da crociera, il viaggio altrui che scorre sullo schermo.
E ci smarriamo smarriti, tra la gente che non sa smarrirsi.
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È una interessante riflessione, questa di Alberto Bile. Il viaggio per la sua bellezza in sé (e penso a Itaca di Kavafis), il viaggio non filtrato dall’abuso della tecnologia.