Una programmata disarmonia: il Geco di Gualberto Alvino

di Luigi Matt

 

Di romanzi sul disagio, oggi, ne escono sin troppi: non c’è dubbio che il tema del malessere esistenziale o psicologico goda di ottima fortuna; ma è anche innegabile che molto spesso viene trattato in modo banalizzante, enfatico o lacrimoso (o tutte queste cose insieme). Ogni oggetto di rappresentazione, naturalmente, si può prestare ad essere reso in molti modi diversi: di fronte ad un libro piuttosto che chiedersi di cosa parla, come quasi sempre si fa anche da parte dei critici, bisognerebbe guardare a come ne parla.

            Geco (Fermenti 2017), il secondo romanzo di Gualberto Alvino, è un ottimo esempio di come grazie a convincenti scelte stilistiche sia possibile dar vita in un modo non convenzionale e ricco di potenzialità conoscitive ad una narrazione incentrata su un personaggio che in sé rischierebbe di risultare un concentrato di stereotipi da fiction televisiva. La protagonista è infatti una donna oggetto sin dall’infanzia di abusi, anoressica, incline a comportamenti autolesionistici e all’accettazione di un rapporto con un uomo paranoico e violento.

La riuscita del romanzo è assicurata dalla sapienza con la quale è costruita la voce narrante, la quale è il risultato di una pluralità di elementi, in linea con la dissociazione psichica della protagonista. Tutto nel romanzo è dominato dalla contraddizione: la donna che racconta in prima persona è perennemente in balia di spinte opposte: la riflessività raziocinante e l’urgenza di pulsioni animalesche, la raffinata cultura e l’emergere di modi plebei. Allo stesso modo, il discorso è tenuto in precario equilibrio tra la pianificazione dello scritto e la spontaneità espressiva (i vari paragrafi altro non sono che lettere ad un’amica d’infanzia, ma si direbbero buttate giù di impulso e forse non rilette).

Se il tassonomista della narrativa italiana contemporanea può senz’altro inserire Geco nel filone del romanzo della marginalità (quello che ha come padri putativi il Sanguineti di Capriccio italiano, il Lucentini di Notizie dagli scavi e il Celati di Comiche), dovrà però avere l’avvertenza di registrarvi una diversa resa stilistica, a cui è sostanzialmente estranea la riproduzione del parlato.

D’altro canto, chi conosce l’intensissima attività critica di Alvino potrebbe essere portato ad attendersi dalla sua scrittura narrativa punte sperimentali o sontuosità linguistiche debitrici dei suoi scrittori d’elezione, come ad esempio i siciliani Pizzuto, D’Arrigo, Bufalino e Consolo. Niente di tutto questo: dal punto di vista lessicale, ad esclusione di un paio di regionalismi utili ad evocare la romanità della protagonista (sise ‘seni’ e tigna ‘testardaggine’) non si hanno elementi che evadano dall’italiano medio.

L’autore, in un’epigrafe, sembra voler offrire una chiave di lettura linguistica: «Un tuffo nello ‘stile semplice’. Con qualche impennata». Ma è sempre bene diffidare da quello che gli scrittori dicono delle proprie opere; Alvino attua qui un consapevole depistaggio: infatti alla medietà lessicale si coniuga una costruzione del discorso tutt’altro che semplice. Le spinte centrifughe evidenti nella mente della protagonista hanno pesanti ricadute nel procedere del discorso, che anche quando è costituito da singole frasi prive di qualsiasi scarto dalla norma trova una sua irregolarità negli accostamenti bruschi e disarmonici. Così, se la sintassi può ancora essere classificata come media (ma meno del lessico, per la presenza non sporadica di accumuli paratattici che rendono la concitazione di cui è preda la donna mentre scrive), è al livello superiore, quello della testualità, che le cose si complicano.

Nel romanzo viene messa in scena un’esistenza che si direbbe consacrata alla passività: molto più che vivere, la protagonista guarda la propria vita scorrere, senza possibilità di indirizzarla, e strologa su sé stessa e sugli altri. La sua quotidianità in effetti è regolata, tra le altre cose, dall’abitudine a spiare le esistenze delle persone a tiro di sguardo immaginandone lati oscuri e nascosti, riflesso di un’attenzione costantemente sovreccitata per ogni aspetto del mondo — si direbbe, spesso, senza alcuna gerarchia —, e del desiderio irrealizzabile di racchiudere tutto in un universo linguistico. A ciò si lega, però, la consapevolezza che il linguaggio non è mai neutro, e che ogni discorso, anche se animato dal desiderio di dar vita ad un nudo referto, genera da sé entità astratte e concrete: «Gesti, soliloqui, stracci di pensieri, associazioni. La parola dell’Altro, il suo feroce ronzio. Il lago di colla in cui siamo invischiati. Frasi mozze, interpunzione ai minimi termini: basta una virgola a staccare mondi diversi» (p. 55).

Da quest’ultimo aspetto discende anche il rigetto di ogni pretesa di oggettività, che unisce autore e voce narrante, e che viene richiesta anche al lettore che voglia comprendere ciò che gli scorre davanti agli occhi: per tutto il corso della narrazione si è incerti se ritenere le vicende raccontate veritiere o frutto dell’immaginazione patologica dalla protagonista. E ciò sin dalla prima pagina, ben prima di incontrare quest’ammissione rivelatrice: «ho l’impressione di non distinguere memoria e fantasia, cose e desideri» (p. 112).

Da tutti i punti di vista in Geco Alvino dimostra come — per tornare alle considerazioni da cui si era partiti — sia ben possibile dar vita a romanzi che pur non rifiutando del tutto le istanze della narratività, e confrontandosi con temi molto attuali, non rinunciano a sfruttare a fondo le risorse della letterarietà. Non è affatto necessario scegliere tra antiromanzo e feuilleton: le opzioni sono molte di più, anzi sono virtualmente illimitate. Peccato che troppo spesso gli scrittori e gli editori mostrino di non avvedersene.

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