Forma e colpa
(a seguito del dialogo fra Alberto Giorgio Cassani e Gianfranco Tondini inerente il crollo del ponte Morandi, e dei commenti che ne sono seguiti, l’architetto Andrea Tonus ha voluto mandarmi un suo approfondimento che qui volentieri pubblico. G.B.)
di Andrea Tonus
Ora dirò come è fatta Ottavia, città-ragnatela.
C’è un precipizio in mezzo a due montagne scoscese:
la città è sul vuoto, legata alle due creste con funi e catene e passerelle […]
Sospesa sull’abisso, la vita degli abitanti d’Ottavia è meno incerta che in tante altre città.
Sanno che più di tanto la rete non regge.
Italo Calvino, “Le città invisibili”
Apro con questa citazione da Italo Calvino, che immagina una città apparentemente fragile, mantenuta in funzione invece dall’umiltà dei suoi abitanti. La città non è fragile, ma regge solo fino ad un certo punto, che non va oltrepassato.
A fianco di questa citazione voglio ricordare anche la descrizione della città di Sofronia, contenuta nello stesso libro meraviglioso di Calvino, dove a essere provvisoria e smontabile, accanto al luna park fatto di tende e baracche è la città di pietra 1.
Le due citazioni assieme costruiscono per me le due parti di un assioma: se vogliamo conservare la città dobbiamo essere umili e amorevoli nei confronti di ciò che essa ci tramanda, anche se sembra esso possa durare in eterno. Illudersi di questa eternità è atto di hybris, come direbbero gli antichi.
Vorrei mettere in luce il fatto che da un lato vi sono ragioni che portano a chiedere la conservazione del viadotto Morandi (ovvero di ciò che ne rimane) e dall’altro come il progetto del suo abbattimento per far posto ad un nuovo ponte sia in un vero e proprio atto di hybris attualmente in corso.
Non è vero, come scrivevo pochi giorni fa in un commento su questo sito, che nessuno invoca la conservazione di quanto rimane del viadotto 2. In realtà le voci contrarie all’abbattimento ci sono, e la cosa più sorprendente è che concordano certamente su un punto fondamentale: non c’è monumento più consono alle vittime del crollo che il ponte stesso.
Non fosse altro che per questo motivo, il tentativo della conservazione di ciò che rimane del ponte andrebbe fatto. In realtà non è un caso che questa voce provenga da questo ambiente. Se ci si pensa, non può essere un altro ponte a rappresentare la memoria di ciò che è accaduto, come a Berlino è conservato ciò che rimane della chiesa commemorativa del Kaiser Guglielmo I a ricordo della tragedia della guerra, o la ancora più drammatica prefettura di Hiroshima, deformata e liquefatta dalla bomba atomica. Oppure, con un esempio forse ancora più parlante a noi italiani, come la sala d’aspetto di seconda classe della stazione di Bologna, mai cancellata dai cittadini dopo la strage del 2 agosto 1980, dove il muro lacerato e il pavimento incavato stanno a testimoniare quanta violenza l’uomo riserva all’altro uomo. E si vengano a vedere le commemorazioni annuali per capire quanta condivisione di quella ferita c’è ancora! Altro che i simbolici ricordi sulle nuove opere! Sul fronte opposto, purtroppo non si può che constatare una volontà di cancellare la tragedia che non si intona certo con il bisogno di ricordare le vittime.
Ci sarebbe da considerare seriamente anche i segni casuali, come l’infortunio all’atto di presentazione del modellino del nuovo ponte, perchè comunque sono in accordo col fatto che si sta mettendo in atto una cancellazione che servirà a coprire le responsabilità, o meglio ad accollarle infine a qualcosa che non può reagire, è muto testimone (finchè c’è) di tutta la tragedia: il ponte stesso, con la sua strana e drammatica forma.
Ora per arrivare alla conclusione bisogna osservare bene la forma del ponte di Morandi, poiché è in essa che si concentra l’atto critico creativo, che infine è forse l’unico rimedio contro la hybris, perché è consapevole della sfida che l’uomo fa alla natura mediante la sua opera.
L’ingegner Morandi non è nuovo alla messa in scena drammatica delle forze che agiscono nelle sue strutture: è nella sua poetica, rendere attraverso la forma la fragilità dello sforzo delle strutture contro le forze soverchianti della natura. Si pensi ai pilastri meravigliosamente inclinati del salone dell’auto di Torino. Le strutture dell’ingegner Morandi chiedono attenzione anche all’uomo comune, dichiarando la propria fragilità mediante la forma, come la città fatta di corde di Calvino. Tutt’altra cosa rispetto all’altro grandissimo ingegnere italiano del novecento, Pierluigi Nervi, con le sue strutture che invece mettono in evidenza e dichiarano la loro forza nella ripetizione e nell’imitazione delle strutture naturali (celle, nervature). A me il linguaggio poetico di Morandi ha sempre attratto di più di quello di Nervi. Tuttavia proprio la forma così drammatica, così parlante della fragilità umana contro la potenza della natura, ora forse sarà la condanna del ponte.
Infatti, fin dalle prime ore assistiamo alla critica della forma del viadotto. Si sostiene che è proprio la tipologia di ponte costruito da Morandi ad essere sbagliata, portando a riprova il fatto che non è stato replicato sovente, e che anche un altro viadotto costruito nello stesso modo ha avuto un incidente.
Questa critica, che pare oggettiva, perché il crollo è sotto gli occhi di tutti, è però totalmente al di fuori del campo dell’ingegneria, e perciò al di fuori del campo delle responsabilità verificabili. Significa porre sotto accusa l’intera opera dell’ingegner Morandi. Un progetto ingegneristico infatti non può essere sbagliato per forma: l’ingegnere opera continuamente supportato dalle leggi della scienza delle costruzioni, il progetto risultante non può dirsi neanche interamente suo. Dire che il ponte sul Polcevera è sbagliato per forma significa dire che Morandi non sapeva applicare le leggi della scienza delle costruzioni e che indirettamente tutta la sua opera è sbagliata da questo punto di vista. Infatti Clemente Mastella, sindaco di Benevento, trovandosi di fronte ad un altro ponte dell’ingegner Morandi, per prudenza l’ha chiuso al traffico. Infatti da più parte si insiste sul fatto che la tecnica e la scienza costruttiva hanno fatto passi avanti dagli anni della costruzione.
Niente di più falso, e le prove sono sempre sotto i nostri occhi: andate a vedere le piramidi di Giza, o i ponti romani o medioevali. Ogni epoca della scienza costruttiva ha costruito le sue opere durevoli. Gli argomenti addotti da questi critici sono capziosi, si infrangono contro l’evidenza del fatto che le altre parti del viadotto sono ancora in piedi nonostante l’enorme sollecitazione subita dal crollo, che gli altri viadotti costruiti da Morandi sono ancora li, che tutte le altre opere di Morandi sono ancora in piedi. In più aggiungo ancora con un brivido che il tratto crollato non era quello sopra le abitazioni, il che ha limitato grandemente il numero di vittime. Basta una foto di ciò che rimane del ponte per capirlo. Non grido al miracolo: forse la manutenzione è stata più accurata su quei piloni. Il viadotto è additato come un mostro, ma forse è stato più amorevole di noi. Morandi non ha progettato e realizzato un castello di carte che crolla al primo soffio di vento. Nonostante l’apparenza.
Ora si parla di demolizione, di costruire un ponte che duri mille anni (con tutte le tristissime memorie che mi evoca questa frase) di riqualificare urbanisticamente il quartiere sottostante. Questi atti sono atti di superbia, che illudono consapevolmente facendoci credere invulnerabili alle ingiurie della natura e dell’uomo. Il ponte Morandi invece è testimone, parlerà per sempre della tragedia. La sua demolizione corrisponde alla cancellazione della memoria pubblica, e il risultato sarà per l’ennesima volta la solitudine dei familiari delle vittime e degli sfollati dalle case sotto il viadotto a patire il dolore senza una collettività che li sostenga.
NOTE
- La città di Sofronia, la n. 4 delle “città sottili” sempre nello stesso testo di Calvino.🡅
- Vedi l’ing. Camomilla, ex direttore della Ricerca e Manutenzione di Autostrade, che ha partecipato in passato alla manutenzione del ponte, e la petizione di Antonino Saggio docente dell’Università della Sapienza di Roma Ma alla voce di chi chiede la conservazione non viene data troppa risonanza, solo un attento redattore di wikipedia sta registrando anche le voci contrarie all’abbattimento.🡅
caro Gianni, volevo ringraziarti pubblicamente della stima,
un caro saluto
ciao
Andrea
Caro Andrea,
grazie di questa tua testimonianza controcorrente. Nell’epoca del pensiero unico è manna. A proposito di quanti vanno cianciando che gli Antichi costruivano meglio della famigerata epoca Moderna, ho trovato un brano del trattato sull’architettura di Leon Battista Alberti (De re aedificatoria, libro X, capitolo 10) che mette a tacere tutte queste chiacchiere:
«La rotazione delle acque o vortice è come un trivello liquido, cui nulla è così duro da poter resistere a lungo. Ciò si può osservare sia nei ponti di pietra, i quali coprono in basso un letto incavato e profondo, sia nei punti in cui il fiume, dopo essere stato ristretto tra le rive, uscendo dalla strettoia si precipita in uno spazio più ampio, e abbassandosi improvvisamente di livello corrode e consuma all’intorno per ampio tratto tutto quanto trova sul proprio cammino, sulle rive come sul fondo. Il ponte di Adriano a Roma è – oserei dire – costruzione la più solida tra quante mai se ne fecero dall’uomo; con tutto ciò le inondazioni l’han ridotto a tal segno ch’io dubito possa ancora resistere a lungo».
Il problema, dunque, anche qui, era quello di una continua manutenzione, e anche questa, di fronte a eventi eccezionali (vedi ad esempio tutte le piene del Tevere che, nel corso dei secoli – disastrosa e definitiva quella del 1598 – hanno ridotto il Pons Aemilius nell’attuale “Ponte Rotto”), non serviva a molto. L’Alberti, che non era l’ultimo arrivato, ne era perfettamente consapevole.
E con ciò sono serviti tutti i laudatores temporis acti, nemici del Moderno.
Un caro saluto
Grazie Alberto del commento. Dalla scienza che infondi si capisce chi è qui il vero docente…
Ma va!
Siamo tutti filosofi, come diceva Platone, basta uscire dalla caverna…
Un abbraccio
Alberto G.
Si dice che l’architettura sia la più civile tra le forme d’arte perché ha a che fare con la vita quotidiana delle persone, perché una costruzione brutta è lì sotto gli occhi di tutti e tutti i giorni. Ebbene, di questa civiltà dell’architettura in questo articolo riesco a vedere solamente l’attenzione per la memoria, ma manca qualcosa di molto concreto: che cosa costruire al posto del ponte? Un altro ponte a fianco, sopra o sotto? Davvero i parenti delle vittime e gli sfollati si sentirebbero meno abbandonati con due ponti sulla testa? Un altro ponte con conseguente nuova galleria sotto gli Erzelli? Quanto tempo occorrerebbe per realizzarlo?
Renzo Piano pecca di hybris quando parla di un ponte che duri mille anni – è verissimo , ma anche questo articolo manca di senso della misura: conservare una sala d’aspetto a Bologna, una prefettura a Hiroshima, una chiesa a Berlino è un po’ più semplice che conservare un gigantesco viadotto monco.
Caro Alessandro,
prima di tutto grazie del commento. Conservare un viadotto come dici forse è più difficile di una chiesa o della sala d’aspetto della stazione di Bologna. Tuttavia anche pensare ad una demolizione del ponte è un cantiere con grandi difficoltà: è pensabile lasciare che l’abbattimento coinvolga anche i fabbricati sottostanti? In cui il recupero dei beni delle famiglie potrebbe essere il danno minore, in quanto andranno dispersi senz’altro anche tutto il tempo impiegato da quelle persone a costruire la propria vita in quel luogo, i rapporti sociali, le relazioni tra persone che in quel luogo sono state costruite.
Forse tutto ciò è anche sacrificabile alla sicurezza psicologica, perché sicuramente fossi un abitante del quartiere penso vivrei costantemente con la paura che il ponte mi crollasse addosso, però considero anche che quando il ponte venne costruito parte del quartiere c’era già, e coloro che negli anni lo hanno abitato ne avevano accettato la presenza.
Insomma al di là dei proclami è molto probabile che il moncone del ponte rimanga comunque dov’è, ma come monumento al fallimento, come i tanti monconi di opere pubbliche e private sparse per l’Italia, non finite per esaurimento dei finanziamenti, per perdita delle motivazioni e tanti altri motivi. E non accade solo da oggi, penso per esempio al Duomo di Siena o a S. Petronio a Bologna.
Nel tempo quei monumenti sono stati conservati poi per ciò che avevano di funzionale, e oggi fanno parte delle nostre città e danno il loro contributo in memoria e bellezza.
In ogni caso il mio intento, nel dichiararmi a favore della conservazione, è quello di dare voce all’architettura, che manca sia di parola che di figura, nell’esprimere quello che vuol dire. Un ponte non suda sotto sforzo, non grida aiuto quando sta per cedere. L’architettura ha un’apparenza di solidità ingannevole, ma vale anche il contrario: ciò che sembra fragile a volte non lo è per niente. Non è detto che il ponte lo si debba conservare monco, come dici tu. Non è impossibile che i lacerti rimanenti possano essere nuovamente rimessi in funzione, posto che le verifiche strutturali attualmente in corso ne verifichino la stabilità. A questo punto potrebbe essere fattibile la costruzione di un raccordo che ripristini la funzionalità dell’autostrada. I monconi del ponte potrebbero essere ben più solidi di quello che potrebbe apparire in questo momento, e demonizzare la loro apparenza attuale non significa per niente criticarne né inficiarne la solidità strutturale. Bisogna riflettere su questo.
Se fosse per me, non ci sarebbe niente da costruire al posto del ponte, ma da ricucire il ponte esistente, con una nuova struttura.
Volevo rendere noto che stiamo organizzando un incontro a FIRENZE LIBRO APERTO il 29 Settembre (Fortezza da Basso, Padiglione Spadolini) probabilmente alle 16,00. Ho invitato Alberto Giorgio Cassani a parlarcene. Chiunque voglia venire è ben accetto.