Il misterioso alfabeto della malinconia di Magliani

di Giacomo Sartori

In Prima che te lo dicano gli altri di Marino Magliani (uscito da poco per Chiarelettere) un protagonista di un’età non facilmente precisabile, scopriamo poi che ha cinquant’anni, vive in un piccolo paese di una valle della Liguria. Acquista all’asta un rudere, perché lì ha vissuto moltissimi anni prima l’argentino che proprio in quella casa, e per una estate, gli ha dato ripetizioni e si è occupato un po’ di lui, che non aveva un padre. Ora parte alla ricerca di quell’uomo ripartito molti anni prima per l’Argentina, e dato da tutti per morto.
L’uomo, solitario e un po’ spostato, vive principalmente nel passato, all’insegna della malinconia, vale a dire in compagnia della madre e delle altre persone della sua infanzia, che sono in maggioranza morte. Come è morto il carruggio (molti non liguri, come me, lo hanno imparato leggendo Magliani, cos’è un carruggio), nucleo vitale della frazione, sventrato per fare passare le macchine. E vive anche nel presente, ma come aggirandosi sulle macerie lasciate dalla malinconia, in un paesaggio anch’esso disastrato, al meglio riciclato per finalità edonistiche dagli stranieri (“La Liguria invasa dai tedeschi e dai rovi.”). Esegue azioni molto concrete, vivide, quali comprare olive e incontrare un avvocato, ma prive di un senso esplicito e di una necessità, e quindi per certi versi astratte. E poi vive anche nel futuro, nell’aspirazione di incontrare quell’uomo con il quale ha avuto un rapporto effimero ma bello, alla ricerca del quale partirà per l’Argentina. E lo troverà, perché non fa parte dei desaparecidos, come si diceva. Ricevendo conferma che è suo padre.
Quello che non si capisce è cosa lo muova, questo personaggio. E pare intuire che forse nemmeno lui lo sa più di tanto. O meglio, sa quello che vuole fare nelle sue giornate, sono i perché profondi, e le spiegazioni che dà a se stesso, che rimangono misteriosi. Certo per incapacità sua (“I ragionamenti che non riusciva mai a formularsi bene del tutto, per la poca abitudine a lasciare che le idee parlassero, ora popolavano il buio”), ma non solo. Anche il padre ritrovato, che pure è un uomo di studi e di cervello, è così.
Quello che li lega, scopre, è la malinconia (“Pensò che solo in quel momento poteva vedere per la prima volta cosa aveva preso da suo padre. Forse la malinconia”). E’ lì che i due si ritrovano (“Era l’alfabeto della malinconia. Forse l’unica cosa che aveva ereditato in egual misura da un padre e una madre e dall’aria del carruggio.”), non certo nella gioia o nell’emozione. Forse proprio per incapacità di scardinarla, la malinconia, parlano di cose di ordine pratico, di quello che è successo nella valle nei cinquant’anni che sono trascorsi, non di cose intime, di loro stessi. Con il risultato che quello che non è detto risulta essere più importante di quello che è detto (“Come se il buio e il silenzio e gli odori di quella camera contenessero i cinquant’anni trascorsi, ripensava alla quantità di cose che s’erano confessati e a quelle di cui non erano riusciti a parlare. In confronto, le seconde erano molte e molte di più, e allora avrebbe voluto rimediare, invece di star lì, in quel letto, in attesa che fosse mattina e l’uomo che dormiva nella stanza accanto si svegliasse.”)
Magliani evacua anche questa volta la falsa credenza, che regge le nostre vite, che le nostre giornate e i nostri anni abbiano un senso, o almeno una direzione, una logica voluta. O forse il senso c’è, ci suggerisce con questa storia che è legata alla Storia della Liguria e dell’Argentina, ma gli interessati non ne sono consapevoli. Quello a cui sono confrontati sono le azioni quotidiane, e le sensazioni, e i ricordi, soprattutto i ricordi, soprattutto quelli dell’infanzia, perché noi viviamo di ricordi dell’infanzia, che sono per noi più vividi e struggenti del presente (“«Uno è il posto dove si nasce» disse. «Poi ti innestano.»”). E i pensieri elementari che a questi stimoli del passato e del presente sono collegati. Ma anche se questi fossero più elaborati non cambierebbero nulla, non sarebbero un supporto. Forse un tempo il padre li aveva, dei pensieri più ambiziosi (come anche i protagonisti dei due recenti romanzi autobiografici di Magliani ambientati in Olanda, Il canale Bracco e L’esilio dei moscerini danzanti giapponesi), caratteristici delle persone colte o che fanno dei ragionamenti una professione, ma ora sembra essersi arreso anche lui al mistero.
In questo magma senza direttive e senza spiegazioni convincenti di passato, presente e futuro, tipico di Magliani, e con la sua solita lingua bellissima e imprevedibile, questa volta ha un posto centrale anche la violenza. Che prende la mano del protagonista, che è cacciatore e bracconiere, da un momento all’altro senza essere annunciata e misteriosa per le sue origini e le sue finalità, come qualcosa di inevitabile e non bello, questo lo vede anche lui stesso. Non sappiamo, e non lo sa lui, cosa lo spinge a commettere in Argentina una lenta turpitudine ai limiti del sopportabile, applicando all’uomo i suoi gesti di bracconiere. Potrebbe essere una vendetta, e con una sua solida giustificazione morale, ma risulta che lo non è, perché la vittima, pur sempre macchiata di infami delitti, non si rivela essere colpevole nei confronti dell’uomo che cerca. Ma dove c’è Storia c’è anche violenza, sembra dirci Magliani, in Liguria (la lotta partigiana, e i suoi strascichi, che abita molte sue storie), come altrove. E anche quella è incomprensibile, come tutto il resto.

1 COMMENT

  1. Un’altra grande prova di Marino Magliani. In un certo senso, il romanzo della modernità: il protagonista sa “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”, ma ha perso (o forse non ha mai avuto) la capacità di programmare il futuro, di ragionare in positivo.

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