Il gioco
di Mirfet Piccolo
L’asciugamani elettrico era così rumoroso da risucchiare ogni suono vivente oltre la porta del bagno. A Corrado piaceva resistere alla pressione del getto d’aria calda, comporre movimenti rotanti come di astronave, quasi fosse anche quello un gioco con possibili bug da cacciare. Era, quello, un anfratto di tempo durante il quale poteva allentare il controllo che esercitava su se stesso quando era in compagnia di persone nuove, o quasi; lavorava alla TheGameZ solo da qualche mese e lui ancora non si era esposto più di tanto, non più di quanto fosse strettamente necessario per una serena convivenza.
Alzò lo sguardo allo specchio: quel taglio di capelli sbagliato lo avrebbe fatto sistemare presto, magari sabato; la cicatrice che dall’occhio sinistro si distendeva lungo tutta la guancia, invece, era sempre lì ed era inutile pensare potesse essere altrimenti. Corrado, in fondo, aveva imparato a conviverci. Il getto d’aria calda si interruppe bruscamente, la sessione era finita e lui guardò il palmo delle sue mani tiepide: forse è vero che ci si abitua a tutto, pensò, e tornò dai colleghi impegnati a risolvere l’enigma.
Prima di sedersi alla sua postazione, Corrado lanciò una rapida occhiata fuori dalla finestra, come era diventato solito fare. L’ufficio era in cima a una strada alberata, e da lì era possibile vedere la curva discendente e poi, dall’altra parte, eccola risalire verso i negozi e locali del centro. Ai piedi della discesa, su di una panchina, sostava una donna dall’età indefinibile: indossava un numero imprecisato di abiti logori, e in testa portava un buffo cappello viola a bombetta con un fiore che un tempo doveva essere stato di un colore giallo limone; il suo corpo era cinto da un alto numero di sacchetti stracolmi di stracci ma non solo, e da un piccolo carrello; dal carrello, spuntava una grossa papera azzurra di plastica che era stata forse un gioco e che adesso chissà, si chiedeva Corrado ogni volta che la guardava, che funzione aveva per quella donna. Poi successe ancora quello strano aggancio di coincidenze: Corrado guardò la donna e lei alzò la testa e lo fissò dritto negli occhi.
Lasciò la finestra e la donna, e tornò a testare il gioco; quello di oggi, e che teneva impegnato lui e suoi colleghi ormai da qualche giorno, aveva, in teoria, come obiettivo la costruzione e il mantenimento di una serie di astronavi all’interno di una nuova galassia. Era un nuovo mondo, ma a quanto pare non funzionava: era impossibile trovare pezzi di ricambio e i rifornimenti energetici si esaurivano in fretta al primo combattimento contro forze opposte; mancavano personaggi essenziali, come il medico, quindi i nuovi umani, privi dell’immortalità, perivano. Corrado e i suoi colleghi avevano provato ogni mossa ed esplorato ogni angolo di quel nuovo mondo, avanti e indietro e in largo, ma sembrava non ci fosse soluzione. Chi lo aveva ideato forse si era divertito al pensiero di dare ad altri un rompicapo dimenticandosi che un gioco non è un gioco se non dà un qualche tipo di gratifica a ciascuno dei partecipanti. Prima di pranzo, arrivarono alla conclusione che avrebbero scritto una relazione negativa agli sviluppatori; spensero i pc, indossarono le giacche e uscirono.
A Corrado piacevano i suoi colleghi, e Sandro, il responsabile era anche lui sempre di buono spirito. Nessuno si era mai permesso di porre a Corrado domande troppo personali e a lui questo, per certi aspetti, faceva piacere: ci teneva a lavorare bene, a non lasciarsi distrarre da discorsi del tutto personali e fuori contesto; allo stesso tempo, avrebbe voluto sentirsi meno osservatore in disparte, meno frenato, ma lui ormai era così, con il suo carattere e bagaglio personale, pensò, e non avrebbe davvero saputo come diventare altro, come migliorarsi. Seguì i colleghi in direzione del solito bar-ristorante, e quando passarono davanti alla panchina con la donna con il cappello viola, Corrado evitò di guardarla, ma non poté evitare di essere investito dall’odore acre della miseria tipica dei caduti, così vicino a lui.
Il pranzo fu leggero e piacevole, e Corrado parlò poco e sorrise molto; al termine, Sandro lo invitò ad andare a bere il caffè da un’altra parte mentre gli altri tornavano in ufficio. In quei mesi, Sandro si era dimostrato serio ma non autoritario, comprensivo rispetto alle difficoltà quotidiana del suo staff e, poi, era pur sempre il suo capo. Il bar era nuovo; il profumo del legno fresco era piacevole e accogliente, le luci non troppo forti e, soprattutto, era privo di musica obbligata. Era un ottimo posto per parlare.
Sandro chiese a Corrado come si trovasse a lavorare con loro e di eventuali altri progetti lavorativi, e gli chiese anche quale visione avesse per la società in termini di futuri sviluppi. Corrado sì sentì lusingato, e con grande meraviglia espose la sua opinione su possibili nuove strade di successo per l’azienda.
Al termine del caffè, con un gesto quasi distratto, Sandro si lasciò sfuggire di mano lo scontrino e nel raccoglierlo chiese a Corrado la causa di quella cicatrice. Ma non voglio essere indiscreto, precisò. Corrado sentì di potersi fidare, e nel tornare indietro, quindi, glielo raccontò non senza una punta di turbamento. Quando furono di nuovo nei pressi dell’ufficio, la donna era distesa sulla panchina con una mano sulla papera; il cappello viola le nascondeva il viso e pareva stesse dormendo.
Di nuovo tutti in postazione, testarono il gioco rompicapo ancora per qualche ora e poi ne decretarono l’insuccesso e non la vendibilità, a meno che non venissero apportate importanti modifiche. L’indomani sarebbero passati ad un altro gioco, perché il mercato era esigente e mutevole sia in termini di tipologia di prodotto sia di quantità.
A casa, la gatta Polly accolse Corrado con le consuete fusa attorno alle gambe e si lasciò accarezzare il pelo morbido e rossiccio, per poi correre alla ciotola vuota a reclamare il suo pasto. A Corrado piaceva accontentarla subito, prima ancora di togliersi la giacca, e così fece. Poi, si spogliò della giacca e del maglione e tornò in cucina a preparare la sua cena: prese un piatto piano e lo riempì di fette di prosciutto crudo in vaschetta e patate lessate il giorno prima, e pensò che la giornata era andata davvero bene e poteva considerarsi soddisfatto. Si sentiva anche alleggerito da un peso che fino a quella mattina lo aveva tenuto in disparte. Quella sera, provò un insolito senso benessere e soddisfazione per il suo lavoro e per l’uomo che era diventato. Non tutto il male viene per nuocere, pensò.
Sul divano, con il piatto colmo e la gatta Polly al suo fianco, tornò a guardare quella serie televisiva che finalmente era riuscito a recuperare per intero. In questa puntata, era stato trovato un nuovo cadavere e l’ispettrice sapeva già cosa andare a cercare: le lettere lasciate dall’assassino sulla schiena delle sue vittime dopo l’avvelenamento: erano sempre sette, seppur diverse da vittima a vittima, ed erano scritte con un pennarello dal tratto cosiddetto indelebile. C’erano alcune piste aperte e molte abbandonate, e il clima della cittadina non era uno dei più favorevoli alle indagini, sebbene tutti mostrassero il timore di essere tra le prossime vittime. Su questo corpo, l’enigma era così composto: A G N T N W P. Apparentemente solo una cosa sembrava accumunare le vittime prima che divenissero tali: erano tutte persone adulte.
Corrado era molto stanco, perciò quando terminò la cena spense anche la tv e si staccò da Polly che emise un miagolio di lamento. Prima di spegnere le luci della camera da letto, Corrado inviò un messaggio a Sandro per ringraziarlo della chiacchierata al caffè, e Sandro rispose prontamente: ci vediamo domani.
Il giorno dopo in ufficio ci fu un gran da fare. La relazione sul gioco fallimentare chiedeva di essere ultimata, un nuovo gioco era pronto e tutti non vedevano l’ora di testarlo. Il bello dei giochi sparatutto era banale e assai richiesto: giocare alla morte e alla vita, non ferire né ferirsi mai per davvero. E infatti fu così travolgente che i ragazzi non uscirono neppure per pranzare, andarono avanti fino a sera e con grande divertimento. A fine giornata, erano tutti certi che quel gioco sarebbe stato un successo; tra una risata e l’altra di sollievo, tra una pacca e l’altra, Sergio disse che il giorno dopo sarebbero potuti andare a pranzo in un posto nuovo, molto carino, solo un po’ più distante dal solito locale. Uscirono contenti: quello era il lavoro più bello del mondo.
Corrado varcò la porta di casa ed ecco la sua gatta tra le gambe. Hai fame, vero? Vieni Polly, brava Polly, brava la mia principessa. Dal freezer prese una porzione di pasta al forno e la mise nel microonde: osservò la vaschetta girare, le luci illuminare un piatto di dubbia qualità ma facile e lui, soprattutto questa sera, dopo una giornata di duro lavoro era sempre molto stanco. Aveva smesso da tempo di chiedersi come sarebbero state le sue cene se avesse avuto la compagnia di un altro essere umano.
Polly lo aspettava sul divano, e persino il telecomando era pronto per ricominciare a svolgere la sua funzione. In questa puntata, il corpo riverso di una giovane donna portava sulla schiena le lettere C P M R F C J. Un assassino di buona cultura, anzi, eccellente. Anche questa puntata si stava dimostrando tanto avvincente quanto inquietante, ma la stanchezza ebbe la meglio su Corrado che lasciò il piatto sul tavolino di fronte a lui e si distese sul divano. Sì, lui faceva il lavoro più bello del mondo e con persone uniche nel loro genere. E così, con questo pensiero, si addormentò senza difficoltà e con Polly attaccata alle sue gambe.
La mattina dopo si svegliò di soprassalto e in ritardo; non fece colazione, non si cambiò, afferrò lo zaino e uscì di corsa. Arrivato in ufficio, i suoi colleghi erano silenziosi e concentrati a sbrigare noiose e lunghe pratiche, e non fecero particolare attenzione a Corrado il quale, quindi, grazie al cielo non si sentì particolarmente osservato. Appese il giubbotto e gettò uno sguardo fuori dalla finestra: la donna non c’era, sebbene di solito a quell’ora aveva già occupato il suo posto sulla panchina. Non avrebbe saputo dire esattamente il perché, ma Corrado provò un senso di sollievo nel constatare quell’assenza. Si sedette e iniziò a lavorare.
L’orologio a monitor segnava le ore dodici e cinquanta, ed ecco scoppiare il solito trambusto di chi non vede l’ora di andare a pranzare. Corrado spense anche lui il pc, si alzò e andò in bagno. Quando fece per tirare su la cerniera dei pantaloni, questa s’inceppò e lo costrinse a compiere il movimento inverso e poi di nuovo a riprovarci. Notò del pelo rossiccio di Polly sul pantalone, e provò un leggero imbarazzo; con la mano cercò di pulirsi ma senza successo; pazienza, si disse, non è niente di grave, può succedere a tutti. Finalmente con le mani sotto il getto d’aria calda, Corrado sentì la gran fame imputabile alla colazione saltata per la preoccupazione di aggiungere al ritardo ulteriore ritardo. Sarebbero andati in un posto nuovo e poi, magari, un altro caffè con il capo perché Corrado aveva altre idee che avrebbe potuto illustrargli: progetti di espansione, nuovi contatti; gli affari andavano bene, giusto? Farli andare meglio.
L’asciugamani elettrico terminò il suo lavoro e Corrado uscì dal bagno: non c’era più nessuno, nessun suono e nessuna voce; l’ufficio era uno spazio immobile e spento. Andò alla finestra: dall’altra parte del vetro vide i colleghi affrettarsi giù dalla strada; vide la donna logora alzare lo sguardo verso di lui, levarsi il cappello con il fiore non più giallo e portarselo al petto.
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La morte?