Joan Sales, l’«Incerta gloria» della guerra e della memoria

Incerta gloria di Joan Sales, un classico della letteratura catalana, esce per la prima volta in Italia per iniziativa dell’editore Nottetempo (608 pagine, 28 euro), nella traduzione di Amaranta Sbardella.

Scrittore, traduttore, editore, Joan Sales (Barcellona, 1912-1983) è una delle figure più importanti del panorama catalano e spagnolo del dopoguerra. Allo scoppio della Guerra Civile, nel 1936, Sales, militante del Partito comunista, era assessore alla lingua catalana presso il governo della Generalitat. Dopo una breve formazione nella Scuola di Guerra, partì per il fronte di Madrid, poi passò in quello d’Aragona. Nel gennaio del 1939 attraversò la frontiera francese con il grado di comandante dell’Armata repubblicana e fu internato nel campo francese di Prats-de-Molló. Durante il suo esilio, durato nove anni, iniziò a dedicarsi all’attività letteraria. Dopo il suo ritorno in Spagna, nel 1948, lavorò come editore durante la difficilissima rinascita culturale catalana sotto il franchismo. Nel 1955 fondò una collana entrata nella storia della letteratura iberica, Club dels Novelist, all’interno della casa editrice Club Editor, che accolse, tra gli altri, La piazza del diamante di Mercè Rodoreda.

Incerta gloria  – romanzo testimoniale e filosofico sulla Guerra Civile spagnola –  fu pubblicato in una prima versione nel 1956, con numerosi tagli da parte della censura franchista. Di edizione in edizione, ciascuna con nuove aggiunte man mano che la censura cambiava pelle, Incerta gloria arrivò alla pubblicazione definitiva nel 1971. L’opera ha ricevuto numerosi premi ed è stata tradotta, tra le altre lingue, in francese, tedesco e inglese.

Giugno 1937. I ribelli di Franco hanno attaccato la Seconda Repubblica da quasi un anno, e tutta la Spagna è chiamata alle armi in una lotta tra fratelli destinata alla rovina. Nella retroguardia di Castel de Olivo, sul fronte di Aragona, il tenente Lluís de Brocà ritrova un vecchio amico dei tempi universitari, l’eccentrico Juli Soleràs, e s’innamora della Carlana, l’enigmatica vedova del signorotto locale. A Barcellona, però, Lluís ha lasciato una compagna e un figlio piccolo. Non appena questi lo raggiungeranno sul fronte, le tensioni e le passioni tra i tre giovani amici si acuiranno sino a deflagrare.

Per gentile concessione dell’editore, proponiamo a seguire: 1) un’introduzione al romanzo firmata da Maria Bohigas, curatrice dell’edizione francese; 2) la Confessione dell’autore (prefazione all’opera); 3) un estratto dalla prima parte del volume.

***

1) Il romanzo dei vinti che sopravvive alla censura

«Mi vergogno della complicazione di tutte queste note, che si sono sovrapposte alla prima “Confessione dell’autore”. Ma chissà che questa confusione di note successive, scritte tutte velatamente, non possa restituire alle nuove generazioni una vaga idea delle difficoltà che dovevano affrontare molto spesso i libri catalani durante il franchismo, se non parlavano solo di fiori e di violette».

Così si esprime Joan Sales nel 1981, all’inizio dell’ennesima edizione di Incerta gloria, testo travagliato, sottoposto a continua censura negli anni di Franco. Basti pensare che Sales presentò la prima versione del romanzo al premio Joanot Martorell nel 1955 e ne pubblicò l’ultima nel 1971. Un quarto di secolo separa questi due momenti: quattro versioni diverse, dal primo volume di 335 pagine a quello definitivo di 910. E un verso di Michelangelo – “mentre che ’l danno e la vergogna dura” – nel colophon, in una pagina che non si è soliti leggere, per sconfessare un prologo in cui Sales, dietro imposizione del censore, assicurava che il suo romanzo non sarebbe più cambiato.

Oggi abbiamo finalmente la fortuna di leggere Incerta gloria senza imposizioni e note, con un unico testo di apertura, la “Confessione dell’autore”, in seguito al quale Sales tace e lascia la parola ai personaggi sotto forma di epistolario o di confessione. Dal fronte d’Aragona Lluís scrive al fratello; dalla Barcellona assediata dalle bombe Trini, compagna di Lluís, scrive a Soleràs, suo grande amico e compagno d’armi di Lluís; Cruells, soldato seminarista, scrive a se stesso, dal fronte, ma vent’anni dopo. Una donna e i suoi tre uomini – il proprio, in pieno vortice d’amore con un’aragonese; gli altri due, innamorati di lei; i tre vinti nell’amore come nella guerra.

“Esprime idee eretiche
in un linguaggio 
grossolano
e schifoso. 
Trapela una filosofia esistenzialista
da condannare per forma e contenuto.
Anche venissero eliminati interi passaggi,
l’opera rimarrebbe IMPUBBLICABILE.
Va PROIBITA ASSOLUTAMENTE.”
Parere della censura franchista,

scheda del lettore n. 32, 1956.

Hanno tutti vent’anni. Sono tutti partiti volontari per il fronte, mossi da quell’affanno che nulla deve alle ideologie, poco agli ideali e tanto alla “sete di gloria” o d’immortalità che si chiama ancora desiderio. Tutti e tre si ritrovano nella stessa brigata, in un “fronte morto” dove la guerra è per mesi uno scenario di fondo. Lluís fa lunghe passeggiate solitarie, e le sue lettere traboccano di paesaggi desertici e di visioni allucinate dopo il passaggio degli anarchici, come quella delle mummie che, in un monastero abbandonato, mimano la parodia di una scena di nozze. Parlano della vita quotidiana dei soldati e poco di battaglie. O restituiscono i dialoghi con Soleràs, giovane goffo che sogna un bel corpo mentre parla di Kierkegaard, psicoanalisi e cristianesimo, che finge di aver provato cocaina e prostitute ma ha sempre vissuto sotto l’ala di una zia bigotta e zitella. Mitomania o onestà radicale, nessuno lo sa.

Seguono le lettere di Trini, speculari a quelle di Lluís: dalle retrovie dove lotta per la sopravvivenza sua e del figlio di sei anni, riprende gli stessi episodi per piegarli verso la verità, se falsi, verso il falso, se veri. L’imbroglio (di Soleràs) diviene santità; l’eroismo (di Lluís) miseria sessuale. L’oscuro affanno di gloria mostra ora il rovescio della medaglia. In questo epistolario femminile compare pure la rivolta anarchica di Barcellona, implacabilmente demistificata e senza gli orpelli orwelliani, raccontata peraltro da una figlia di anarchici: Trini evoca a lungo la militanza di prima della guerra, l’ateismo in cui è cresciuta e che s’incrina quando scrive: “Il Male esiste”. Il Male che Cruells non vedeva prima della guerra e che riconoscerà solo dopo la guerra, perché per lui la guerra è gioia. Scopre l’amicizia, mai conosciuta, e l’intensità della vita. Del romanzo potrebbe essere stato il copista, giacché le azioni degli altri si imprimono nella sua memoria vergine di esperienze. Cruells è l’unico a prendere la parola vent’anni dopo. Il seminarista di vent’anni è, a quaranta, un prete nevrastenico, un “rosso” durante il franchismo. Vent’anni dopo, Cruells può finalmente parlare di sé. Se la guerra era azione, il dopoguerra diventa riflessione, talmente ossessiva da far assumere a ogni cosa le sembianze di un sogno. In Incerta gloria il tempo ha una profondità particolare. Non corrompe la memoria bensì l’individuo che, incapace di riconoscersi, è perseguitato da quegli “istanti di gloria” orfani di giovinezza e di senso. Sotto l’apparenza di un affresco, Incerta gloria è forse innanzitutto una parabola, del fallimento come destino umano, quando l’istante degenera in durata.

Maria Bohigas
Editrice e traduttrice al francese di Incerta gloria
Madremanya, 18 luglio 2018

 

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Joan Sales. Foto di Arxiu Sales. Da www.lletres.net/sales/cmt/

2) Confessione dell’autore

The uncertain glory of an April day… Qualsiasi amante di Shakespeare conosce queste parole – e se proprio dovessi riassumere il mio romanzo in una sola riga, non potrei fare altrimenti. Arriva un momento, nella vita, in cui si ha come l’impressione di risvegliarsi da un sogno. Non siamo piú giovani. Ovviamente non avremmo potuto esserlo in eterno. E cosa significava essere giovani? Ma jeunesse ne fut qu’un ténébreux orage, dice Baudelaire. Forse ogni giovinezza lo è stata, lo è, lo sarà. Una tempesta tenebrosa attraversata da lampi di gloria – di incerta gloria – in un giorno di aprile… Un oscuro affanno ci muove in quegli anni tormentati e difficili. Cerchiamo, piú o meno consapevolmente, una gloria che non sapremmo definire. La cerchiamo in molte cose, ma soprattutto nell’amore – e nella guerra, se la guerra incrocia il nostro cammino. È stato questo il caso della mia generazione. In alcuni momenti della vita, la sete di gloria diventa dolorosamente acuta. Tanto piú acuta è la sete quanto piú incerta è la gloria di cui siamo assetati, ovvero, piú enigmatica. Il mio romanzo prova a cogliere, in certi suoi personaggi, proprio alcuni di questi istanti. Con quale risultato? Non sono io a doverlo dire. Tuttavia, so che molto verrà perdonato a chi molto ha amato. Un tempo c’era una maggiore devozione per san Disma e per santa Maria Maddalena. Non esisteva la pedanteria di oggi e la gente non cercava di dissimulare con tesi, messaggi o teorie astratte quel fondo appassionato che tutti portiamo dentro di noi. Siamo peccatori con una grande sete di gloria. Perché la gloria è il nostro fine.

Barcellona, dicembre 1956

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3) Lettera di Lluís

8 luglio
Continuiamo a starcene con le mani in mano, in attesa che arrivino le reclute. Abbiamo già deciso i quadri delle future compagnie: a me spetta la quarta e come capitano avrò il tenente Gallart, l’ex garzone del caffè.

Il paese non potrebbe essere piú triste; infossato, non lo vedi finché non ci sei finito dentro. Il comune si estende per un’area vasta: si tratta perlopiú di terre incolte e deserte, e dei grandi ulivi ne giustificano il nome. A quanto mi hanno riferito, il monastero è distante, piú in basso lungo il fiume, a valle. Faccio delle lunghe camminate, a volte mi siedo ai piedi di un ulivo e me ne rimango talmente immobile che i corvi scendono a posarsi a terra a pochi passi da me, quasi non ci fossi. Ce ne sono centinaia, e mi fanno compagnia. Sullo sfondo, delle montagne di roccia brulla chiudono l’orizzonte. Capita che una nuvola le sovrasti: la roccia e la nuvola, la permanenza e l’evanescenza. La nube fila via, ma quanto è splendido il suo aspetto cangiante al calar del sole; la roccia è sempre uguale. Cosa è roccia e cosa è nuvola nella nostra vita? Quale vale di piú, tra le due? Qual è la parte di noi che deve rimanere immutabile? E siamo sicuri che valga piú dell’altra, quella che sfugge a ogni istante? O siamo in tutto e per tutto dei fantasmi, delle nuvole senza altra speranza che conoscere un istante di gloria, un solo istante, per poi dissolverci?

Ogni nostro istinto si ribella a una simile idea. “Sentiamo e sperimentiamo di essere eterni”[1], parole di Spinoza. Conosco questa citazione grazie a Soleràs: chi, altrimenti, sarebbe capace di sorbirsi Spinoza? E l’immensità del nostro desiderio, come spiegare questo mistero? Come spiegare che proviamo questo immenso desiderio se non sappiamo per cosa lo proviamo, cosa desideriamo?

Tutto ha una spiegazione, se riusciamo a trovarla. Per esempio, il gran numero di corvi che tanto mi incuriosiva. Mentre me ne erravo senza meta per la regione, mi sono trovato all’improvviso come in mezzo a un cerchio di montagne della luna. Un posto davvero singolare: una sorta di cratere lunare, ampio, profondo ed enigmatico. Il sole era basso, la sua luce obliqua finiva per conferire all’insieme un’aria extraterrestre. Non un albero, non un cespuglio; nient’altro che il minerale… E un gioco di ombre e luci cosí crude come può esserlo solo il vuoto interplanetario. Era affascinante. Mi sono spinto avanti fino al ciglio del cratere per vederne il fondo, e un mucchio di ossa mi ha svelato il mistero. È il carnaio; la buitrera, come la chiamano loro. In questi paraggi ci sono piú pastori che contadini, pastori di pecore e di capre che gettano qui le bestie morte di malattia. Quando una mula si ammala e il veterinario non dà molte speranze, non aspettano nemmeno che tiri le cuoia, peserebbe troppo. La guidano a nerbate fino al fosso e lí le danno uno spintone. La mula vola di sotto e, se è fortunata, muore nella caduta, talvolta invece muore solo dopo qualche giorno. I corvi e gli avvoltoi sono deputati a mantenere pulita la buitrera, e bisogna ammettere che sono efficienti: niente è piú netto di quelle carcasse spoglie, di un bianco avorio. Ossa arida: non ricordo quale profeta descrive un grande deserto pieno di ossa. Umane, ovviamente, ma che cambia? La buitrera mi ha colpito nell’anima. L’aridità di quelle ossa mi faceva provare una sete indefinita, e mi tornavano in mente certe parole di Soleràs. “Una sete immensa, una goccia d’acqua per placarla, ecco che hai tutto: l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo. Non so se hai mai sentito parlare degli atomi…” “Scusami,” l’avevo interrotto, di malumore, “ora non attaccare con le solite storie. Gli atomi sono una merda”.

L’aridità di quelle ossa mi faceva capire a quale sete immensa si riferisse Soleràs. “Devo vivere,” dicevo a me stesso. “Devo sbrigarmi a vivere prima che le mie ossa vengano gettate nella buitrera senza fondo che ci attende; devo vivere, ma come si fa, a vivere? Vivere! Un anno di guerra, un anno senza sapere cosa è una donna, e ce ne danno cosí pochi, di anni! Avrò consumato già la terza parte della razione che mi spetta…” Un pomeriggio, sul tardi, mi trovavo a un crocicchio, a quell’ora particolarmente deserto. Intendo, acutamente deserto, perché il deserto vi si palesava. C’era una nuvola, e il suo sfavillio era talmente silenzioso da mettere soggezione. La bellezza fa paura; per fortuna, ci si offre solo rare volte. In un crepuscolo come quello – fuori dall’Aragona non ne ho mai visti di cosí impressionanti – ci si sente soli davanti all’universo, come un reo davanti a un tribunale inappellabile. Di cosa ci accusano? Di essere cosí piccoli, cosí meschini, cosí brutti. L’immensità ci giudica e ci schiaccia… Ero assorto a tal punto che non sentii i passi; non mi accorsi della sua presenza finché la voce, grave e distante, mi distrasse dai miei pensieri: “Buonasera”.

Era una donna, con un bambino in braccio e un altro attaccato alla gonna. Una donna vestita a lutto, alta, ben fatta; e mi passò davanti senza nemmeno guardarmi. Una sorta di aura dolorosa l’avvolgeva mentre si allontanava lungo la strada, in controluce, pian piano. Chi era? In paese non l’avevo mai vista. Quando ormai erano già scomparsi dietro una svolta, mi resi conto che mi aveva salutato in catalano. Una catalana in questo paesello? Mistero. Sono stato tentato di crederla un’allucinazione.

(parte I, pp. 37-40)

 


[1]B. Spinoza, Etica, in Tutte le opere, a cura di A. Sangiacomo, quinta parte: proposizione 23, scolio, Bompiani, Milano 2010, p. 1583.

Immagine di copertina: Gerda Taro

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