Liturgia dello sballo
di Hilary Tiscione
Prende un piatto dalla credenza, lo scalda sul fuoco.
Prende un pacchetto dalla tasca, lo apre sul piatto.
Fa due linee proporzionate.
Prende una banconota da dieci euro e ne fa una cannuccia.
Mauro, porta la cannuccia al naso. Aspira forte e fa un grugnito.
La cocaina la prende lungo una strada vicino ai campi di carciofi.
Nei campi ci sono i marocchini che la notte non si vedono, ma scrutano tutto.
Spegne la Punto blu metallizzata in un varco sterrato, scende dall’auto e fa un fischio, poi un altro ancora. Quel verso scuote i marocchini, li accende. Hanno gli occhi rotondi e lucenti come fanali.
“Dammene due”, dice. “Grandi eh, fai il bravo”. I marocchini gli sembrano tutti uguali. Tranne uno che ha un neo sporgente sulla mascella, sembra il culo di una zecca. Ha la punta del naso piegata all’ingiù e le labbra sottili, atipiche.
Poi gli dà una pacca sulla nuca quando infilano la testa dentro al finestrino per sporgere la roba e prendere i soldi. A volte le banconote sono piegate su sé stesse come fossero origami.
La Punto di Mauro è scassata. Certi peli del suo cane lupo stanno incastrati dentro le fibre scure dei sedili, ci sono un numero imprecisato di mozziconi sbocconcellati e cotti dal sole dentro il posacenere che poi è un portabottiglie, in verità. Involucri di cioccolati fondenti, fazzoletti, depliant, scontrini dimenticati nelle tasche delle portiere. C’è anche un verbale, una matita senza punta e qualche cavo.
La notte, la lascia nel parcheggio del condominio dove vive; a volte la dimentica aperta. Scende nel garage con i pacchetti sistemati nella tasca dei jeans e chiude la saracinesca arrugginita dietro le spalle. Prende da un vecchio baule una bottiglia di plastica da un litro e mezzo con un foro rotondo nella parte più alta, è piena d’acqua per metà. Incomincia così la liturgia dello sballo.
Prende un cucchiaio.
Prende l’ammoniaca.
Prende una penna svuotata dell’anima, la carta stagnola e uno stuzzicadenti.
Appoggia la stagnola sulla bocca della bottiglia, la blocca con l’anello di plastica del tappo.
Accende una sigaretta e la lascia consumarsi sul posacenere. Bucherella la stagnola con lo stuzzicadenti, con il rimasuglio di un pacchetto di sigarette vuoto solleva la cenere della sigaretta e la sistema sopra i fori della stagnola.
Guarda per un momento la bicicletta a righe verdi e rosa della sua bambina. Ha ancora le rotelle. Starà dormendo, pensa. Nel letto grande della mamma – lo chiama così – al posto suo vicino a una donna buttata sul materasso come se ci fosse caduta per sbaglio con la bocca un po’ aperta e gli occhi aggrottati.
In modo meticoloso fa scendere un po’ di cocaina sul cucchiaio.
Dentro il cucchiaio lascia cadere qualche goccia di ammoniaca, poi accende il fuoco con un acciarino. Il dorso concavo del cucchiaio è marchiato dalle fiamme, dove si accavallano gli uni sugli altri dei cerchi fra il bronzo e il caffè.
L’ammoniaca si scalda e la cocaina diventa olio. Forma delle chiazze che Mauro sposta via con lo stuzzicadenti. Lavora l’olio stupefacente, in sostanza.
Lascia asciugare i cristalli di cocaina sulla carta, poi ne prende uno e lo sistema in cima alla bottiglia, sul letto di cenere.
“Eccoci”. Si rivolge alla bottiglia, alla stagnola, all’ammoniaca, alla cenere, alla penna vuota, alla bicicletta di sua figlia.
Fa un bel respiro e sputa fuori l’aria.
Brucia il cristallo sulla cenere, aggrappato con le labbra al fusto della penna, aspira. Si forma una nebbia densa sopra l’acqua della bottiglia che pare piscio.
La inala tutta e tiene il collo su per aria. Conta sette, forse di più. Poi ne butta fuori lo scarto sguarnito del veleno.
Resta per qualche ora in sintonia con tutti i suoi ordigni del crack.
All’alba, Mauro, riparte verso i campi.
- Fotografoa: Smoking Crack by Michael L Kimble