Il loro campo e il nostro
di Fabrizio Bajec
Ci è stato detto che quando il popolino insoddisfatto delle proprie condizioni sociali si arrabbia ha l’apparenza di una massa informe, disarticolata, piena di rancore, con la bava alla bocca, ma incapace di organizzarsi. Alla meglio può fornire una lista di rivendicazioni e delegare a un rappresentante il compito delle difficili negoziazioni con lo Stato. Fino a qualche tempo fa, questo compito spettava ai sindacati, ai partiti “progressisti”, che dicono sempre di avere lo stesso e identico programma del popolino, solo che quest’ultimo non sa esplicitarlo, per mancanza di competenza nelle cose che lo riguardano. Nella peggiore delle ipotesi, la massa eterogenea e contraddittoria può rivoltarsi e prendersela con i beni pubblici, per frustrazione e impotenza. Ci hanno anche detto che prima o poi serve un’avanguardia illuminata, per spiegare al popolino quale tattica seguire in termini di egemonia. Altrimenti si scivola nel caos, nell’anarchia, l’ingovernabilità. Ci hanno infine detto che in assenza di tale avanguardia, lo Stato è aperto al dialogo, sebbene non serva più gli interessi del popolino; rimane pur sempre l’ultimo orizzonte, quello del reale.
Il colore giallo, nella tradizione francese, rimanda a ciò che una volta si diceva dei crumiri o del sindacato che tradisce i suoi membri, cedendo nelle negoziazioni con il padronato e facendo ingoiare a tutti le peggiori condizioni lavorative, spacciate per un male minore. Per cui al giallo si è sempre opposto il rosso del sangue e della lotta fino all’ultimo colpo. Ma il giallo delle casacche o dei gilet protettivi, piegati sotto i sedili delle automobili, quelli portati dai ciclisti, o ancora dai netturbini e costruttori edili, serve ad essere più visibili, è un giallo fluorescente che vuol dire: «attenzione, non mi investite, non passate sul mio corpo». Questo giallo è stato scelto dalla massa informe dei rivoltosi, che fin qui erano appunto invisibili al governo. Il Presidente ha detto loro: «Vi ho udito » e potremmo aggiungere: «Ma me ne sbatto. Non posso accontentarvi». Allora i gilet gialli sono venuti da tutte le regioni della Francia per convergere a Parigi e non limitarsi più ai blocchi stradali e delle raffinerie di benzina, compromettendo varie attività commerciali in grave perdita. Sono venuti a cercare il Presidente, che mesi prima, preso dalla solita spocchia aveva dichiarato: «Se non siete contenti, venite a cercarmi!»
Ora mi trovo alla stazione dei treni di Saint Lazare, in compagnia di un collega che non nasconde le sue tendenze di estrema destra. Siamo circondati da un centinaio di altre persone con idee diverse dalle sue (anarchici, anticapitalisti, militanti LGBT, queer, antirazzisti, ferrovieri, postini e musicisti che tenteranno di alleggerire con la fanfara il tragitto fino agli Champs Elysées). Questa manifestazione non è autorizzata dalla prefettura. Vogliamo andare a prendere il Presidente nel suo palazzo dell’Eliseo, ma non ci lasceranno passare, e soprattutto, il Presidente è in Argentina per un ennesimo vertice con le più grandi potenze economiche del pianeta e il Fondo Monetario Internazionale. Insieme decideranno di mettere ancora più sotto pressione il popolo argentino. Ormai è chiaro; il nemico numero uno per noi è l’austerità economica. Per questo i gilet gialli hanno quarantadue proposte in flagrante contraddizione con il programma politico del nostro governo, ma direi con qualunque tipo di direttiva europea degli ultimi quarant’anni.
E dunque che facciamo? A che serve dialogare? Sarà davvero una moratoria sulla tassa del gasolio a cambiare qualcosa? Io non porto il gilet giallo ma sto con loro, perché mi trovo in accordo con molte di quelle quarantadue richieste che corrispondono al minino, se penso a una società moderna. Sono richieste sociali legittime. Il costo della vita aumenta e devono aumentare anche i salari e così il livello (scadente) dei servizi pubblici. Non bisogna privatizzarli come nel resto del mondo. Perché è il resto del mondo che funziona alla rovescia. Di questo siamo convinti, io e il mio collega. Lui si è fatto prestare un gilet giallo dal fratello che ha la macchina. Noi apparteniamo alla piccola borghesia urbana ed ecologica.
Mentre avanziamo in direzione degli Champs, so che gli viene l’urticaria a forza di sentire gli slogan contro il patriarcato gridati dai gay e dalle femministe. Il patriarcato si sposa bene col sistema capitalistico, che però adesso fa schifo anche a lui. Il mio collega non ne può più della mondializzazione e vorrebbe che Macron fosse preso, arrestato e sbattuto in prigione, o allora linciato dalla folla. Mi guardo intorno e sondo cosa ne pensano gli altri. Vedo volti conosciuti, gente che avevo lasciato due anni prima, durante le lotte contro la riforma del lavoro. Sarebbero d’accordo anche loro per appenderlo al cancello, arrestarlo, o forse semplicemente destituirlo? Ma come? La quinta Repubblica non lo prevede. Lui ha pieni poteri. Solo i deputati in parlamento potrebbero avvalersi di un articolo della costituzione. E non lo faranno mai. La maggioranza sta con lui. La maggioranza è salita al potere per trasformare il paese e togliergli ogni residuo di vecchio socialismo del dopoguerra. Perché la verità, dicono i saggi, è che l’epoca del welfare state è bella che finita. Lo Stato non ha più soldi e non può più occuparsi di salvare le grandi imprese in difficoltà o come un bravo papà, soddisfare i bisogni primari dei suoi sudditi. La nuova politica è che se siamo sudditi, dobbiamo abbassare la testa come fanno i cinesi e accettare che si faccia un discorso individuale, ad personam, ognuno per sé e Dio per tutti, come in ufficio, ciascuno trovi il suo modo di sopravvivere. Anche se gli agricoltori di suicidano, dopo i tagli ai fondi europei, come i poliziotti esposti ai pericoli con mezzi insufficienti, o come i dipendenti di France Telecom e di Orange. Questo comincia ad accadere anche alle Poste; un’impresa che una volta apparteneva allo Stato e che oggi è vittima dello stesso management crudele imposto agli operatori telefonici di Free, altra invenzione di un grande magnate e sostegno economico della campagna elettorale di Macron.
Il popolino ha dovuto subire gli insulti ripetuti del Presidente. Lui ci teneva a distinguere chi riesce nella vita e chi non vale nulla: i refrattari al cambiamento, i galli insoddisfatti, incapaci di pagarsi la stessa sua giacca, gli alcolisti e analfabeti che lavorano in fabbrica.
E dunque, i gilet gialli, sbucati dai quattro angoli del paese, se la prendono proprio con il papà che non li riconosce. Come farebbe un adolescente ferito nell’orgoglio. Spaccano tutto. Dipendono quasi affettivamente dal loro governo e decidono di sporcare la Repubblica e sfregiarne i simboli; fermo restando che conoscono a memoria i loro diritti. «Non siamo più in democrazia. Questa è una dittatura!» grida una donna, togliendosi la giacca militare e inginocchiandosi davanti a una fila di celerini che, al contrario, non si toglieranno mai il casco.
Tra le persone che non vedevo da due anni, c’è Mickaël. Da libero professionista in un settore che non ricordo è passato dal lato del blackblock. È uno di quelli che sfondano le vetrine delle banche e delle imprese che ci intossicano di pubblicità. Se la prende con il lusso che vede nei bei quartieri e per salutarmi fa: «Allora? Hai finito i tuoi studi di merda? O le inutili menate letterarie da che propinavi?». Gli voglio bene, ma lo trovo pallido, emaciato. Tra qualche minuto infilerà il casco, girerà in un angolo e si vestirà di nero, per entrare in azione coi suoi compari di cui non conosce neanche il nome, ma questo non importa. Le manifestazioni sindacali lo hanno deluso, quindi le evita. I segretari nazionali che escono dalle loro Mercedes sono a suoi occhi dei venduti, che percepiscono del denaro pubblico e smorzano gli scioperi al momento più interessante, senza annunciare la convergenza delle lotte con i gilet gialli. Allora lui non rimarrà con le mani in mano.
Ho sentito che un poliziotto ha perso un fucile quando lo hanno fatto scendere dalla sua volante per incendiarla. Chi l’ha recuperato? Mi chiedo se Mickaël saprebbe usarlo e se potrebbe fare un salto ulteriore, passare alla lotta armata, invece di raccogliere sampietrini o sbarre di ferro.
Ma più lontano c’è anche Camille, la militante anticapitalista, quasi un’icona della gioventù studentesca, col suo rossetto scarlatto e lo sguardo di ghiaccio. Pallida anche lei, meno bella e sfiancata da non so quanto tempo. Questa gente è stata consumata dalle organizzazioni e ha dovuto ingoiare così tante sconfitte sociali da rimanere ammutolita. La domanda è: Perché non ci siamo rivoltati in massa molto prima di subire tanti soprusi simbolici e non solo? La povertà corrode le province, ma è visibile ad occhio nudo anche nella capitale. I pensionati rivoltano i contenitori delle immondizie. Impossibile dimenticarli.
Sarebbe bello che Camille parlasse col mio collega neofascista e che discutessero del loro comune obiettivo: far cedere il governo, anzi farlo cadere e sostituirlo forse con un’assemblea costituente, magari per eleggere altri rappresentanti a tempo determinato, i quali eserciterebbero la loro funzione in una Repubblica Sociale. È il sogno della Comune di Parigi del 1871. Ma il mio collega conosce questa pagina di Storia? Gli interessa?
Di sicuro oggi vuole un’altra forma di governo per il popolo, composto dal popolo, e protettivo rispetto ai mali che si infiltrano a causa degli accordi transnazionali di libero scambio con l’estero. Vorrei che leggesse alcune delle richieste dei gilet gialli: fine dei senza tetto, asilo politico per gli immigrati. A ognuno un alloggio. Ne abbiamo molti in disuso. Nel frattempo, mi indica le bandiere dei monarchici, dei bretoni, del fronte identitario, e sui muri dei palazzi troviamo croci celtiche e le grandi A degli anarchici, con tanto di insulti ai poliziotti.
Ci è andata bene, alla fine. Non abbiamo preso troppi lacrimogeni. E però, deviati tra la Madeleine e Opera, non siamo nemmeno arrivati sugli Champs. Il giro lungo che ci hanno fatto fare ci ha permesso di bloccare il traffico per alcuni chilometri ed assistere alla distruzione delle boutique di lusso, incidenti a cui non siamo più sensibili (è grave?), o le finestre perforate dai sassi con le mazze-fionde, tra applausi e foto dei turisti che ci incoraggiavano o fissavano sbigottiti. Non so se il mio collega prova la mia stessa sensazione di libertà, di prendere possesso per la prima volta di questi viali, come se fossero nostri solo da oggi. E di qui siamo passati varie volte, ma sui marciapiedi, per sbirciare nelle vetrine con passività.
Saremo capaci di tornare a una situazione normale? Lo vogliamo davvero? Consumare, acquistare, votare una volta l’anno. Per ora sappiamo solo che non vogliamo esibire un documento ai poliziotti, non vogliamo più eleggere nessuno, né essere picchiati a terra, o perdere un occhio. Vogliamo tornare qui la settimana prossima perché abbiamo scelto il nostro campo. È giallo. Dentro questo colore sbiadiscono le nostre ideologie, affogano tutti i nostri emblemi, insieme a un certo vocabolario. Sappiamo che la marea gialla è contagiosa perché ha dilagato anche in Belgio, Olanda e Germania. Forse è un segno del fatto che il modello capitalistico, con i suoi incesti mafiosi tra capitani di industria e Stato, si sta spaccando e l’intonaco frana. Quest’amara pozione non la vuole più bere nessuno. Cerchiamo solo di salvare un modello di vita più equo, che viene dal passato e i cui principi sono stati scritti nero su bianco, per la salvaguardia del popolo tutto, in un tempo in cui avevamo perso quasi ogni risorsa, e bisognava ricostruire.
Loro invece hanno già deciso che la terra non basta per tutti. Fra poco avremo bisogno di un altro pianeta da colonizzare e di una vita aumentata dalla cibernetica, ma sempre meno autonoma. Alla faccia dell’ecologia.
Scusate ma non era più di quaranta anni fa che qualcuno cantava: ” Chi non terrorizza si ammala di terrore.” Nel mio lavoro non ho potuto nè voluto terrorizzare ma sono stato terrorizzato dal popolo e dai figli del popolo. Facevo l’ insegnante.
“Nel mio lavoro non ho potuto nè voluto terrorizzare ma sono stato terrorizzato dal popolo e dai figli del popolo. Facevo l’ insegnante.” Puoi essere più esplicito, Vincenzo?
Le proposte dei gilet jaune sono “in flagrante contraddizione” con parecchie cose oltre alla politica del governo francese, comprese la logica e l’aritmetica (due parolacce in tempi di demolizione della cultura, lo so, ma non mi interessa suscitare simpatie). Dove dovrebbe prendere i soldi uno Stato che riduce le tasse al 25% ma contemporaneamente regala alloggi e sussidi, assume in massa impiegati pubblici, “quadruplica le spese per la giustizia” e si riassume l’onere di gestire autostrade e ferrovie (e immagino gratis o quasi, secondo i desiderata dei gilet)? Cancellando il debito cancelliamo anche i risparmi di chi lo ha finanziato comprando titoli di Stato: siamo certi che sia una buona idea, o che sia giusto? Infine, bisogna impedire i flussi migratori non assimilabili *e* rispettare rigorosamente gli accordi internazionali, che impongono tra le altre cose di accettarli almeno entro certi limiti … un’altra quadratura che richiede una certa creatività.
Sorvolo sugli aspetti più scopertamente comici, come l’abolizione degli autovelox, per porre all’autore una domanda diretta: se “consumare, acquistare, votare una volta l’anno” (orrore!) lo lascia così insoddisfatto, perché non migra in un Paese in cui si consuma poco, si acquista anche meno e non si vota? Non so se se n’è accorto, ma in buona parte del mondo aldifuori dall’aborrita Europa le cose funzionano già così.
@ Piergiorgio, l’autore ti risponderà per suo conto, ma un paio di cose, leggendoti, ho voglia di scriverle anch’io.
Sarà la prima volta che dei movimenti di contestazione spontanei e popolari sono contradditori.
I movimenti non si valutano solo per quello che dicono, o che fanno dicendo altro, ma anche per quello che effettivamente producono nel contesto politico e sociale su cui intervengono. Tu hai letto una lista tra le varie circolanti in rete, e su quella cerchi di basare l’impatto politico che questo movimento ha? Audace.
Per ora i gilet gialli, a differenza di quanto accade in Italia, non hanno avuto bisogno di darsi un papà, che sia il comico popolare o il vecchio leghista nazionalista come nuovo. Qualcosa magari hanno da insegnare agli italiani, che hanno avuto papà Benito per un Ventennio, mamma DC per quarant’anni, papi Berlusca per Venti, e ora si vedrà…
Quanto alla matematica. E’ bello vedere che a forza di ricevere lezioni di economia dalla classe dirigente, tutti siamo i primi a darne agli altri, in quanto abbiamo interiorizzato il ragionierino del Gabinetto di Bilancio… Un po’ di marxismo nel frattempo ci aveva insegnato che la matematica dei padroni non è la stessa degli impiegati, che quella delle grandi aziende e del grande capitale non è la stessa delle partite iva e delle piccole imprese, ma forse oltre alla demolizione della “cultura” (termine rassicurante e vago) c’è stata ancora prima quella dello spirito critico e delle aspirazioni all’autonomia.
Talvolta i tribuni della blebe venivano uccisi proprio dalla blebe ed anche Cristo è stato crocifisso. Ora che ci penso bene è stato crocifisso anche Barabba. Inoltre ho un vago ricordo di uno scritto di Moravia che credo si intitolasse proprio ” Bisogna andare incontro al popolo”. Sicuramente ne saprai più di me.Grazie comunque.
Intervengo forse un po’ tardi per rispondere a Piergiorgio. Ma faccio qualche aggiunta a quanto già detto da Andrea. Commenterò la prima parte della critica alle 42 rivendicazioni contradditorie dei gilets gialli che neanche io approvo in toto (ci sono cose di destra e di sinistra che cozzano fra loro), ma bisognerebbe lodare invece il fatto che è stata messa per iscritto (come non si faceva da tempo) una serie di condizioni necessarie all’emancipazione di una società civile che vuole riprendere in mano una democrazia oggi più apparente che reale. Si vedano i punti sui referendum, la formazione di un’assemblea costituente, la reintroduzione fondamentale della tassa sulle grandi fortune patrimoniali (la classe capitalista francese è formata in gran parte da eredi con grandi proprietà terriere e immobiliari) ecc.
Quando lei dice:
“Dove dovrebbe prendere i soldi uno Stato che riduce le tasse al 25% ma contemporaneamente regala alloggi e sussidi, assume in massa impiegati pubblici, “quadruplica le spese per la giustizia” e si riassume l’onere di gestire autostrade e ferrovie (e immagino gratis o quasi, secondo i desiderata dei gilet)? Cancellando il debito cancelliamo anche i risparmi di chi lo ha finanziato comprando titoli di Stato”.
Non so dove ha trovato che lo Stato francese riduce le tasse al 25%. Se parla delle tasse delle imprese che subiranno uno sgravo del 25%, tale riforma è all’orizzonte 2022 e progressiva. I cittadini continueranno a pagare le tasse (prima fascia 14% e seconda 30% per esempio) e a occhio e croce dovrebbero aumentare l’anno prossimo, con la furbata del prelievo diretto sul salario. Poi, sugli alloggi: lo Stato non regala nulla, apre alloggi sociali dove si paga un affitto più basso. Sono stati aperti centri di alloggio per migranti ( dentro i quali le permanenze sono sempre provvisorie). I sussidi non sono regalati. Li paghiamo noi, si chiama ridistribuzione e sono gestiti da organismi indipendenti dallo Stato. Le assunzioni in massa di funzionari avvengono tramite concorso (difficili come in Italia ma forse meno truccati), se parliamo solo di insegnanti c’è una massa che non si presenta a tali concorsi viste le difficili condizioni di lavoro soprattutto i primi anni (le cronache sono piene di incidenti e bur-out). Ora lo Stato ha introdotto dei piani di partenza volontaria per i lavoratori statali (demissioni caldeggiate) ed è un primo passo verso un puro e semplice licenziamento. Sulla giustizia, anche i magistrati sono in piazza (sfilano oggi mi pare) proprio perché chiedono rinforzi e aumenti. Le autostrade e le ferrovie dello Stato sono ormai semiprivate e aperte alla concorrenza (le seconde ufficialmente da quest’anno, ma era già accaduto prima). Magari potessimo annullare il debito pubblico, che oggi è il miglior modo per tenere in scacco la società civile e lo Stato che ha subito le speculazioni finanziarie e perso migliardi (ogni anno) per via dell’evasione fiscale proprio da parte delle grandi fortune di cui sopra (e molto meno dalla classe media), ma in primis dalle 40 più grandi società quotate in borsa e naturalmente dalle multinazionali americane (Amazon, Google, Microsoft, Facebook, Starbucks) che non pagano le tasse in Europa. E’ già successo che un paese rifiuti e annulli il proprio debito pubblico, come in Argentina.
Per concludere, rispondo alla sua domanda diretta, perché sono quelle che preferisco.
Se potessi votare più di una volta l’anno in Francia (se ci fosse una democrazia diretta), sarei contento di farlo. Vorrebbe dire che siamo consultati a prescindere dalle ricorrenze presidenziali
, legislative ed europee. Ridurre il potere del cittadino a un voto per una mandato di cinque anni è ammazzarlo politicamente (esagero ma fino a un certo punto, considerando il fatto che non è del tutto libero delle sue scelte, se viene orientato da una collaborazione mediatica pro-Macron o se non si tiene conto del suo voto, tipo nel 2005 per il trattato costituzionale europeo). Al verbo migrare, preferisco quello di emigrare, perché se deciderò di farlo non sarà in compagnia di una massa di gente e non avrò bisogno di ali. Fuori dall’Europa ci sono molti paesi dove si acquista, consuma e ci si distrae più del dovuto. E spesso sono società più moderne tecnologicamente parlando (penso all’Asia). Ma non mi piace l’idea che se critico il piatto che mi viene servito, devo uscire dal paese per cercarmene un altro, come si cambierebbe lavoro. Mi piace pensare che si possa ancora fare qualcosa e che la critica è sacra, se le contro-proposte non mancano. Andarsene è l’ultima scelta, quando non c’è più niente da fare. E a seconda della propria situazione (anche famigliare) non sempre è possibile. Ho diversi amici che avrebbero fatto meglio a lasciare l’Italia, ma non hanno potuto, e non li biasimo per questo.
Cari Andrea e Fabrizio,
vi ringrazio molto per le risposte a un messaggio che aspirava a essere anche calcolatamente provocatorio. Sono un macroeconomista e lavoro da circa 10 anni su temi di politica economica; questo mi smarca dalla prima critica di Andrea (non credo di aver interiorizzato alcun ragionierino in pillole), potenziando ovviamente la seconda (uso per mestiere la matematica dei padroni!). Infine, sono stato a suo tempo stupito da Inventario del Gesto. Esaurite le confessioni, rispondo nel merito a qualcuna delle vostre riflessioni.
I movimenti popolari hanno pieno diritto di essere magmatici e contraddittori. Quando però il discorso si sposta da una piazza a un circolo di commentatori, anche se virtuale ed estemporaneo come questo forum, mi pare legittimo se non doveroso introdurre un elemento di critica. La mia è che i gilet jaune sono “contro” molte cose ma “a favore” di nulla di chiaramente definibile, come mi pare riconosca anche Fabrizio. Più Stato o meno Stato? Più o meno assistenza? Più o meno libertà per l’individuo nello Stato? Non saprei rispondere per conto loro e credo che neanche loro sarebbero in grado di farlo, o quantomeno non collettivamente. Ma la linea tra demagogia e politica passa tra l’altro anche per la coerenza interna di una proposta: considerati separatamente, la botte piena e la moglie ubriaca sono due obiettivi politici; promettere la botte piena e la moglie ubriaca invece è demagogia.
(Andrea, riconosco senza problemi l’azzardo del tentare conclusioni sulla base di documenti posticci circolanti in rete (e infatti neppure mi fido di forme di sedicente democrazia diretta sulla rete basate); ma tu credi che si possa fare politica senza leader e senza strutture di potere interne? Mi pare altrettanto audace.)
Considero la Francia un esempio di successo (anche se ovviamente perfettibile) di declinazione europea della democrazia parlamentare; mi auguro che l’energia dei gilet la migliorino piuttosto che indebolirla; ma a oggi non saprei dire francamente quale delle due evoluzioni è più probabile.
Buona serata
Considero il movimento dei gilet jaunes una manifestazione di profonda insoddisfazione per le politiche francesi degli ultimi anni, per gli effetti della crisi economica e del congiunto di globalizzazione finanziarizzazione automazione nell’economia. Il malessere ha superato il livello in cui lo si poteva diluire nell’alcol, nell’eroina e nel credito al consumo, e va rispettato nella sua umanita’, nelle contraddizioni e confusioni con cui si manifesta, nel coraggio di chi si mette in gioco con rabbia o curiosita’.
E’ un movimento cresciuto nel tempo e diventato molte cose insieme.
All’inizio mi aveva incuriosito il legame con la tassa sul carburante, perche’ l’industria automobilistica e’ uno dei grandi settori in crisi e se mai si riprendera’ sara’ fra molto tempo e in modi che non ci piaceranno. Il parco auto circolante in provincia rimarra’ pressoche’ lo stesso per anni, sempre piu’ vecchio e scassato come le persone che lo guidano. La correlazione tra crisi del settore in senso lato e protesta orizzontale mi e’ parsa interessante.
Un altro aspetto e’ quello della genericita’ degli argomenti di protesta (la tassa sul carburante) unita alla riconoscibilita’ della divisa gialla. Vi vedevo i segni di un nuovo squadrismo leggero e diffuso, e mi sbagliavo: mentre gli squadristi sono violenti disciplinatamente incanalati contro un bersaglio, questi gilet sono incazzatissimi e non c’e’ modo di controllarli.
Poi la riflessione sul complotto: a chi giova indebolire la Francia quando gia’ annaspa sul piano europeo, quando l’accordo con la Germania non decolla? Ci sara’ lo zampino di Putin e di Trump? In realta’ si potrebbe ribaltare la domanda, a chi giova un Macron eletto per rifiuto di considerare le alternative, con le sue politiche impopolari ed elitare?
Infine l’ultima riflessione, sui mezzi organizzativi della protesta e su cio’ che e’ cambiato. A partire da ottobre Facebook ha modificato l’algoritmo per dare rilievo alle notizie iperlocali, finendo per fare conoscere organizzatori di iniziative locali finora molto piccole e marginali, spesso figure eccentrice di antivaccinisti e ciarlatani; lo stesso nuovo algoritmo ha permesso di saldare tra loro tante piccole proteste locali dando reciproca visibilita’ ai partecipanti e permettendo di misurare l’effettiva diffusione del consenso (dello scontento). Se Facebook ha permesso di organizzare un genocidio in Myanmar, potra’ bene coordinare delle normalissime proteste francesi.
D’altro canto: e’ il nuovo algoritmo di facebook che ha svelato le persone le une alle altre nella protesta, o e’ il vecchio algoritmo che le teneva apposta nella nebbia e nell’inazione?
Ottime riflessioni, ma la “ genericità’ degli argomenti di protesta” non mi rassicura molto: eclettismo e fluidità sono una delle caratteristiche dell’ur-fascismo di Umberto Eco (ancora lui!). Lettura consigliata se non la conosci:
http://www.unmarzianoaroma.it/documenti/Ur_fascismo.pdf
PS Jan, vorrei chiarire che concordo pienamente sul fatto che il malessere espresso dai gilets vada rispettato “nella sua umanità e nelle sue contraddizioni” (ben detto, anzi ben scritto). A preoccuparmi sono le sue possibili derive e strumentalizzazioni.
Caro Piergiorgio,
bene la tua provocazione ha funzionato, e una discussione si è innescata. Bene, per una volta mi sono imbattuto non in un ragionierino improvvisato, ma in un macroeconomista di professione. Io non tento di fare il ragionierino in nessun caso, perché davvero non è il mio campo, ma devo dare ragione alla diagnosi realizzata già un decennio fa dal sociologo Boltanski, che in sintesi diceva: dove una volta era il campo della politica, ovvero della mediazione tra interessi contrastanti, è subentrato il campo dell’economia, ossia della perizia, che mette fine alle contese. In questi anni, su qualsiasi proposta politica, quale che sia la sua urgenza o fondatezza sociale, prima si fanno i conti, e quasi sempre si chiude il dibattito dicendo: “sarebbe bello, ma non è possibile”, come si dicesse, appunto, la forza di gravità c’impedisce di volare… (Che ne pensi tu, che sei del mestiere, di questo uso dell’economia per ridurre lo spazio della politica?) Una delle cose belle dei gilet gialli e che in un modo o nell’altro dicono: va bene, voi sostenete che non potete fare nulla per noi, altrimenti lo stato andrebbe in bancarotta. Ma se noi mettiamo a ferro e fuoco tutto quanto, perché non ne possiamo più, lo stato andrà in bancarotta ugualmente.
Questa pero’ è una parentesi. In realtà sto finendo di scrivere un lungo pezzo su questo movimento, che uscirà anche su NI lunedi prossimo. T’invito a leggerlo e a commentarlo, criticarlo se vorrai.
Una risposta pero’ alle domande che ad un certo punto ci poni…
Innanzitutto: meno assistenza e salari più alti. Questo è un punto che al di là di tutto per me è emerso chiaramente. Della serie: basta fare gli aiutini (detassazioni) qua e la per noi lavoratori poveri. Alzateci il salario, e ce la sbrogliamo da noi. Più o meno tasse? Meno tasse ai piccoli più tasse ai grandi. Anche questo è coerente. Più o meno Stato: scuola (non più di 25 allievi per classe, contro i 30 e più di zone anche popolari), treni nelle zone periurbane e rurali, poste, ecc. E poi, nonostante ci siano componenti anche di estrema destra, ma per me per ora è determinante un punto: in un mese di lotta anche durissima (con un morto pure oggi), la questione migranti è rimasta del tutto periferica. Confrontiamo l’Italia.
Andrea,
E’ il pensiero del documentarista inglese Adam Curtis, che la politica abbia abbandonato la proposta di visioni per il futuro e sia appiattita sul management dell’esistente.
aggiungerei solo, per ora (e in attesa di leggere il post di Andrea) che per capire i gilets jaunes molte nostre categorie (tra cui destra e sinistra, reazionari a progressisti, stato sociale e consumismo) non funzionano. Al di là delle liste disparate di rivendicazioni, colpiscono due cose: 1) la frattura sempre più netta tra “élites” e cittadini, 2) una parola diversa, finora poco udibile, per non dire inesistente e marginalizzata. Giornalisti e politici stanno tentando di ridicolizzarla, mostrarne le contraddizioni, criminalizzarla, censurarla, recuperarla e forse ci riusciranno. Ma basta parlare con il vicino di casa, il collega, la tabaccaia, lo studente, a parigi e in provincia, etc. per rendersi conto che quell’80% di sostegno dell’opinione pubblica è reale e fondato su condizioni di vita che sono peggiorate per quasi tutti, classi popolari e ceti medi
Piergiorgio. Le sue teorie economiche sono le solite utilizzate dall’establishment. Dove troviamo i soldi? Il mondo non è mai stato tanto ricco e tecnologico. È necessario cambiare le regole del gioco e far sì che la ricchezza, il lavoro, il potere e i diritti vengano ridistribuiti. Non è semplice, ma è l’unica strada percorribile. Tra automazione e capitalismo finanziario fra non molti, se si continua con le attuali politiche economiche e del lavoro i poveri disoccupati o occupati saranno la maggior parte della popolazione. P. S. È giusto che esistano gli autovelox, riducono gli incidenti, ma le multe dovrebbero essere più democratiche, comminate sulla base del reddito… e pagate da tutti…anche quelli che girano con targa Svizzera o tedesca. Stesso discorso vale per i tickets sanitari nel bel paese. Esiste la proporzionalità in base al reddito. Io non la vedo. È una presa per il c***…come le nostre pagliaccesche o regolarissime, a seconda di chi le osserva, demo/plutocrazie.
Caro Gianfranco, lasciamo da parte le teorie e limitiamoci a dire che i conti pubblici devono ‘tornare’ in qualche modo. Possono tornare ugualmente bene con tasse alte e progressive, redistribuzione, elevati servizi pubblici (Svezia) oppure con tasse basse, nessuna redistribuzione, pochi servizi (Cile). La matematica non tifa per nessuno, ci aiuta solo a identificare i casi patologici (tasse alte e servizi nulli) e quelli impossibili (tasse basse e servizi da favola), eliminati i quali rimane un’amplissima gamma di soluzioni tra cui scegliere. Queste sono fattibili, internamente coerenti e compatibili con un’altrettanto ampia gamma di visioni politiche della società, dal “ciascuno per se” al “tutti per uno, uno per tutti.”
La domanda che le faccio è: perché alla prova dei fatti le proposte che vanno in direzione svedese non vincono (Melenchon) o straperdono (LeU) più o meno a tutte le latitudini?
Il mio sospetto è che quando si passa dalla piazza alla cabina elettorale, dalla rabbia alla riflessione, dallo slogan (demagogico e gratuito) a una proposta politica più concreta (sperabilemente meno demagogica e sicuramente non gratuita) l’idea della redistribuzione perda molti dei suoi fan. Al contrario di altre, come protezionismo e lotta all’immigrazione, che contribuiscono a riempire le piazze ma poi vanno forte anche nelle urne.
Magari sbaglio. In ogni caso tentare di rispondere a quella domanda mi pare più utile che prendersela con fantomatiche “plutodemocrazie”, complotti e poteri forti.
Caro Piergiorgio, quando scrivi dei conti pubblici che devono tornare, tolti i casi patologici e quelli immaginari, restano i diversi scenari nazionali allineati a seconda di quanto piu’ o meno convincono i propri cittadini a pagare le tasse. Laddove pagar le tasse e’ convincente, in negativo e in positivo, si puo’ discutere se si vuole di progressivita’ e redistribuzione, stato leggero o stato pesante, laddove invece il cittadino non si convince razionalmente, abbiamo il socialismo reale e il liberismo puro a fasce sociali alterne, l’arte di arrangiarsi insieme alla socialdemocrazia.
Finche’ l’economia sommersa e informale e’ piu’ competitiva e attraente della societa’ moderna complessa e interconnessa, non conviene pagare le tasse, specie se si puo’ godere ugualmente dei vantaggi della societa’ complessa: telecomunicazioni, salute pubblica, infrastrutture, educazione e trasporti. Un paese del genere vive nella schizofrenia, stanno male sia quelli costretti a pagare le tasse, sia quelli che non pagano ma hanno in cambio solo un pezzo della societa’ moderna (ad esempio, nelle regioni dove la salute pubblica e’ a livelli piu’ bassi)
Caro Jan, sono assolutamente d’accordo. È anche per questo che l’economista serve a poco senza il politico, o senza un politico sufficientemente ispirato e capace di ispirare la comunità.
Caro Andrea,
Leggerò senz’altro il tuo articolo.
Sulla tragica inversione della gerarchia naturale tra politica ed economia sono completamente d’accordo con te (e con Boltanski, a quanto mi dici). Credo che a combinare questo guaio sia stata la sovrapposizione a partire dagli anni ‘70 di tre fattori: il consolidamento globale di blocchi d’interesse omogenei di orientamento liberista; una rivoluzione metodologica interna alla disciplina economica, che l’ha spinta incessantemente verso l’elaborazione di una (ambiziosissima e improbabile) “teoria del tutto”; la stabilità economica: dopo le crisi petrolifere l’Occidente se l’è passata bene per 30 anni, rafforzando la percezione che le nuove teorie ‘funzionassero’. Il primo fattore è sicuramente quello che oggi riceve più pubblicità, ma personalmente credo che la hubris neopositivista derivante dalla somma degli altri due abbia giocato un ruolo anche più importante. L’illusione di aver capito tutto è una droga che confonde anche i ragionierini animati dalle migliori intenzioni… e l’apparente successo delle loro ricette non può che renderli autorevoli e se-ducenti. (Un quarto fattore complementare a questi potrebbe essere la dubbia levatura dei politici che avrebbero dovuto tenere le briglie dei ragionierini). Ci sono oggi segni di un ripensamento autocritico; sospetto però che il 90% dei miei colleghi non sottoscriverebbe la riflessione di cui sopra.
Dal mio punto di vista questo spiega ma non legittima il rigetto del calcolo economico in politica. Il ruolo dei tecnici va ridimensionato, ma buttare a mare la techné sulla base dell’idea che è tutta una truffa, che dietro ci sono i “poteri forti” (o comunque gente che ti vuole fregare) e che “è tutto molto più semplice” sarebbe una stupidaggine colossale. Non solo: questo discorso è un esempio da manuale di demagogia populista. Punta (come ogni forma di demagogia) a costruire un altro blocco di potere, e da quello che vedo si tratta di un blocco molto ma molto peggiore del precedente.
Nel primo post parlavo di “demolizione della cultura” perché è ovvio che gli economisti sono in ottima compagnia. Rischiamo di far riemergere malattie debellate da un secolo perché “le multinazionali farmaceutiche ti fregano”, “tu ne sai quanto il medico” (un figlio di papà che si sarà certamente comprato la laurea), e “i rimedi della nonna funzionano meglio dei vaccini”. Così nel mondo della scuola, dell’università, della stampa, dove schiere di impostori ti danno a bere di saperne più di te per manipolarti. Si marcia verso l’abolizione di ogni forma di autoritas e la glorificazione (strumentalissima) dell’uomo qualunque: l’era di Mike Bongiorno, per dirla con Eco.
L’Italia è all’avanguardia (si fa per dire) su molti di questi fronti, hai ragione, ma il fenomeno è ovviamente massiccio, globale, multiforme. Mi domando se i gilet finiranno per farne parte. Non sono in grado di fare congetture, ma noto che “forconi” e “popolo viola” erano partiti da premesse analoghe e sono finiti nel Movimento 5 Stelle, al fianco della Lega.
Per quanto riguarda il programma,
1) chiedere allo Stato un salario più alto di quello disponibile sul mercato vuol dire chiedere un salario sussidiato, cioè una forma di assistenza (intesa come parte del welfare state). Se no la richiesta sarebbe indirizzata alle imprese e non a Macron.
2) sulle migrazioni mi pare che le vedute siano più eterogenee di quanto dici (Migrations : le pacte de l’ONU qui affole les Gilets jaunes, https://www.google.it/amp/m.leparisien.fr/amp/politique/migrations-le-pacte-de-l-onu-qui-affole-les-gilets-jaunes-09-12-2018-7963857.php).
Ma ribadisco che ne so poco, certamente meno di te e degli altri commentatori.
Grazie ancora per gli scambi e alla prossima.
@Piergiorgio,
sui gilet gialli ci risentiamo lunedi.
Invece, su quanto scrivi qui:
“Nel primo post parlavo di “demolizione della cultura” perché è ovvio che gli economisti sono in ottima compagnia. Rischiamo di far riemergere malattie debellate da un secolo perché “le multinazionali farmaceutiche ti fregano”, “tu ne sai quanto il medico” (un figlio di papà che si sarà certamente comprato la laurea), e “i rimedi della nonna funzionano meglio dei vaccini”. Così nel mondo della scuola, dell’università, della stampa, dove schiere di impostori ti danno a bere di saperne più di te per manipolarti. Si marcia verso l’abolizione di ogni forma di autoritas e la glorificazione (strumentalissima) dell’uomo qualunque: l’era di Mike Bongiorno, per dirla con Eco. ”
Mi aiuti a mettere in chiaro un punto importante. Il Partito Cinque Stelle che incarna l’ideologia che tu hai qui riassunto in modo non troppo caricaturale, è nato nel 2009. Un anno dopo l’impatto della crisi finanziaria USA sull’Europa. Questo mi fa capire che un’indagine sociologica importante potrebbe cercare di mettere in luce una doppia storia: il declino del sapere esperto (con la crisi sistemica del 2007) e l’ascesa del non-sapere arrogante (dal 2009 fino ai giorni nostri). Sono due parabole connesse. Negli articoli che scrissi su alfabeta2 tra il 2010 e il 2014 circa, mi concentrai soprattutto sull’idea che i saperi esperti, nel loro impatto politico, mancavano di un baluardo critico da un lato e mancavano di condivisione dall’altro. NON avevo ancora visto un ulteriore pericolo: il rifiuto globale e spesso complottista dei saperi in quanto tali. Nello stesso tempo queste due storie vanno ora scritte assieme. Mi permetto intanto di linkarti l’introduzione che ho scritto a un libro che raccoglie quegli interventi, introduzione che si concentra proprio sulla questione generale dei saperi esperti (tra cui quello appunto economico): https://www.alfabeta2.it/2018/10/14/la-civilta-idiota/