Mio padre e le sue mogli

di Ruska Jorjoliani

Non mi ha mai detto che aveva già avuto una moglie, prima di mia madre. Ne sono venuta a sapere per caso, giusto qualche anno fa, e ho cercato in modo ossessivo di saperne di più. “Erano molto giovani e ingenui” mi ha detto la zia. “Che t’importa?” si è meravigliato lo zio. Solo una loro cugina è stata disposta a dirmi di più: “Lei era molto bella, lui è andato a fare il militare in un paese baltico, c’è rimasto per più di un anno e quando è tornato era come se si fosse guastato qualcosa, come se non si riconoscessero più”.
Volevo capire mio padre, quest’uomo taciturno facile alla depressione e al disincanto, che quando si decideva a parlare stava attento a non ripetere mai cose che aveva sentito dire ad altri, che era spesso barricato dietro a un umorismo non sempre divertente, insofferente al minimo rumore che tendesse a reiterarsi – fosse il martellare o crepitare, fischiare o tossire, non faceva differenza – la gamma delle sue reazioni andava dal bestemmiare allo sbraitare. E un uomo così, chi fosse in grado di conoscerlo bene, pensavo io, forse non era mai nato, o forse era già morto. Ora invece mi si insinuava un dubbio: possibile che questa donna, sua prima moglie, compagna della sua lontana e spensierata giovinezza, l’avesse conosciuto meglio di chiunque? Meglio persino di mia madre?
Qualche volta sbircio il profilo di questa donna, in cerca di qualcosa che forse non troverò mai. È tuttora molto bella, elegante, sicura di sé. Ha poi sposato un uomo ricco e ha avuto due gemelli, maschio e femmina. Hanno più o meno la mia età. La ragazza è pittrice: alta, capelli corti alla Jean Seberg, residenza a Parigi. Del ragazzo non ne so nulla, non ha un profilo facebook.
Tutta questa storia continua a ossessionarmi, come mi ha sempre ossessionata lui, mio padre, che ha visto sua sorella ancora bambina – più grande di lui di due anni, di cui io porto il nome – morire per mano di un cuginetto, per caso, giocando con il fucile da caccia di mio nonno. Mai una parola neanche su questo, a parte il mio nome.
La donna che ha sposato dopo, mia madre, è sempre stata una insicura, anemica, freddolosa, capace di perdonare le più gravi offese. Qualche giorno prima di sposare mio padre dice di avere sognato suo padre, mio nonno materno, morto giovane in un incidente stradale. La chiamava al telefono e le diceva: “Allora, figlia, ho saputo che ti stai per sposare”. “Sì, papà,” gli rispondeva lei, “è il figlio di quel signore che ti lasciava usare il suo garage, ogni volta che ti trovavi a Mestia, te lo ricordi?”. “Sì che me lo ricordo. Non so il figlio, ma lui era uno a posto”. “Be’, dicono che somigli a suo padre, papà”. Voleva dirgli molte altre cose, che la sorella aveva avuto una bambina, che il nespolo dietro casa aveva ripreso a fiorire, che la Dinamo Tbilisi aveva vinto la Coppa delle Coppe, ma la linea era già caduta.
Riuscì a sopravvivere a più di una telefonata vera, mia madre, aggrappata a quel sogno, la peggiore delle quali è stata quella in cui le si diceva, in piena guerra e con mio padre in mezzo, che era morto un Jorjoliani, lì dove si presumeva si trovasse lui. Ho il ricordo di lei che parla, la cornetta stretta all’orecchio, e poi non parla più. Sta lì ferma, la cornetta ciondolante sul petto, addossata alla parete con carta da parati su cui sono scarabocchiati a penna dei numeri sghembi. Subito dopo, un’altra telefonata: non si trattava di mio padre, li scusassimo tanto, ma di un suo cugino. Ci veniva a trovare spesso, lo zio Rezo, alto, robusto, rosso, puntualmente in uniforme. Più che risollevate, eravamo proprio felici, io e mia madre, che non fosse toccato a mio padre, benché fosse toccato allo zio. Per questa felicità ci sentivamo in colpa, avevamo la sensazione di avere raggirato qualcuno, arraffato qualcosa che non ci spettava e che aveva un grande valore, consapevoli che a monte c’era qualcosa di ingiusto e irriducibile che cadeva come cadono i massi, e se l’avevamo scampata, quella volta, non era detto che sarebbe andata così la volta successiva. Intanto, eravamo felici.
“Vuoi che ti faccia le crêpes che ti piacciono tanto?” mi sorrise lei, stropicciandosi le mani. “Allora bisogna chiedere un po’ di zucchero a Evelina”. Balzai in piedi. “Corro subito!” dissi.
Non so se mio padre abbia mai fatto qualche sogno particolare. Non ne ha mai parlato. Di quando era giovane e ancora sposato con quella bella ragazza, ho trovato solo un libro, firmato in cirillico con una grafia da scolaretto: “Guram Jorjoliani. 13 novembre 1979. Città di Haapsalu (Estonia)”. E poi più sotto, cerchiata, una parola strana con delle “i” latine in mezzo. Non gli ho mai chiesto cosa significasse. Tanto, sapevo che tra cento risposte possibili la più vera, sua solita, sarebbe stata un’alzata di spalle.

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