La metà di bosco
di Edoardo Zambelli
Laura Pugno, La metà di bosco, Marsilio, 2018, 139 pagine
…Salvo si sentiva stranamente sereno, come non gli capitava da giorni. Sapeva cosa doveva fare, ed era come se fosse passato in un altro mondo, retto da altre leggi. L’ospedale, Lili, Adele, la sua vita, tutto ora era presente e sfocato allo stesso tempo, come una fotografia, qualcosa che ha fissato su carta, o fermato nella materia viva e impalpabile degli schermi, un tempo che è accaduto ma che non per forza continua ad accadere o esistere ora.
Salvo è un medico, lavora all’Unità del Sonno, e da qualche tempo non riesce a dormire. Ha una moglie da cui è separato e una figlia che vede poco. Costretto a prendersi una pausa dal lavoro – la mancanza di sonno inizia a comprometterne l’efficenza -, su suggerimento di un amico decide di fare un viaggio, di andare a stare per qualche tempo su una piccola isola greca, Halki, che ha visitato da giovane e di cui conserva piacevoli ricordi. Il ritorno all’isola sembra fargli bene, ricomincia a dormire, e bene gli fa anche la vicinanza con Nikos e Cora, due adolescenti, anche loro lì in vacanza.
Questa è la situazione d’avvio dell’ultimo romanzo di Laura Pugno, La metà di bosco, che parte con un passo lento e dimesso – ma un po’ tutto il narrare di Laura Pugno è così -, descrivendo un piccolo microcosmo in cui sempre è centrale il rapporto tra l’uomo e la natura che lo circonda, portando avanti una routine – quella del protagonista – fatta di piccoli gesti, comportamenti ripetuti, rapporti sfumati.
La quiete del recupero di Salvo – e della vita sull’isola – viene spezzata dall’improvvisa morte di Cora, uccisa durante un gita notturna al vicino isolotto di Krev in compagnia del fidanzato, Nikos. Inutile qui continuare a raccontare una trama che da lì in poi prende una piega che sconfina nel fantastico. È importante però segnalare che l’evento delittuoso non è di per sé il motore della trama, lo sono piuttosto le sue conseguenze: il confronto di Salvo, e Nikos, e di tutti i personaggi con la morte. Anzi, con i morti.
Guardandosi indietro a romanzo finito, si ha quasi l’impressione di aver letto una favola, la cui morale è da ricercare nella risposta ad una domanda: quanto è bene rimanere attaccati a una persona perduta? Quello che all’inizio può essere sollievo diventa, a lungo andare, veleno. In buona sostanza ci racconta una storia universale, abitata dalle presenze che tutti, in un modo o nell’altro, siamo prima o poi costretti ad ospitare: le presenze di chi non c’è più.
A confrontarsi con la perdita, Laura Pugno mette in scena tutto un insieme di solitudini. I personaggi, anche quando sono insieme, non sembrano mai davvero “appartenere” l’uno all’altro, si incontrano – e in certo modo si scontrano – ma solo per brevi momenti, pur lasciandosi addosso segni importanti.
Tutto questo per Nikos faceva parte del lutto, pensò Salvo, era un modo di lottare con il dolore, di sentire una vicinanza con Cora, come se non l’avesse abbandonata e lei in qualche modo, in quel luogo lontano da tutto, quell’isolotto dimenticato, fosse ancora con lui. Presto Nikos sarebbe tornato in sé, avrebbe capito l’inutilità del tentativo. Non c’era modo di insegnargli la morte, doveva impararla da solo.
La metà di bosco è un romanzo splendido, la bravura di Laura Pugno sta sempre, a mio avviso, nella capacità di unire la ricerca linguistica ad un forte senso della trama e del romanzesco. La narrazione non è mai frenetica, le svolte, anche quelle più drammatiche, arrivano quasi come carezze – questo anche grazie ad una lingua che è sempre precisa e tersa, non fa mai troppo né troppo poco. Il suo è un raccontare che è un prendere per mano il lettore e con passo lento portarlo in un mondo altro, fatto spesso di dolori profondi, di lutti, un territorio selvaggio (per citare il titolo di un saggio della stessa Pugno, uscito per l’editore Nottetempo) in cui, proprio per la delicatezza del narrare, viene voglia – e direi addirittura che viene facile – perdersi.