Luis Garcia Montero, un poeta senza eroi
di Lorenzo Pompeo
Un inverno mio, la raccolta di poesia di Luis Garcia Montero, appena uscita nella collana “Poesia” diretta da Giorgio Manacorda ( Eliott edizioni, 2018, euro 17,50) rimette a disposizione del distratto lettore italiano un altro tassello per conoscere meglio il poeta nato a Granada nel 1958. Nel 2000 era uscita per i tipi della fiorentina Casa Editrice Le Lettere la traduzione della raccolta del 1994 Habitaciones separadas (tradotto in italiano come Tempo di camere separate) il cui quarto di copertina riporta una dichiarazione di Octavio Paz nella quale veniva definita «opera di un giovane, ma già importante» (anche se al momento in cui il libro uscì in italia aveva già 48 anni!). Sempre in questa edizione Paz ricollegava l’autore al filone della “poesia dell’esperienza” («potremo chiamarla anche poesia della vita, poesia che tratta di esplorare la realtà di tutti i giorni, che confina da una parte con il meraviglioso e dall’altra con il quotidiano» – chiosava il poeta messicano).
Successivamente, nel 2012 è uscita per Di Felice edizioni Cinquantina, una personale antologia uscita per il cinquantesimo compleanno dell’autore (2008) con cinquanta poesie («Adesso che compio cinquanta anni ho sentito la necessità di fare un’antologia con le 50 poesie che mi lasciano più tranquillo» – scrive l’autore nella nota).
Quest’ultima raccolta, appena uscita in Italia (era uscita in Spagna nel 2011) rappresenta quindi una specie di consacrazione per un poeta che, evidentemente, non può più essere ignorato dalle nostre parti. Luis Garcia Montero esordì con la raccolta Y ahora ya eres dueño del Puente de Brooklyn nel 1980 (con la quale vinse il premio Federico García Lorca) mentre nel 1983 la sua successiva silloge El jardín extranjero si aggiudicò il premio Adonais. Dopo la laurea all’Università di Granada, si dedicò allo studio della poesia di Rafael Alberti, che fu anche suo amico (ne curò anche l’edizione delle opere). Nel 1983 firmò insieme agli altri due poeti di Granada Álvaro Salvador e Javier Egea, l’articolo La otra sentimentalidad, che viene considerato il manifesto della cosiddetta “poesia dell’esperienza”, termine sotto il quale si riconosceva un raggruppamento di autori che proponeva di arrivare a una nuova poesia adatta ai nuovi tempi rifacendosi alla lezione di Jaime Gil de Biedma (poeta protagonista della cosiddetta “scuola di Barcellona”) e di Rafael Alberti. Il concetto nel quale si riconoscevano i membri di questo effimero raggruppamento era la “storicità radicale”, secondo il quale la letteratura è il prodotto del soggetto, il quale a sua volta è il prodotto della storia. L’impegno politico, la dimensione collettiva e la vita privata del poeta si trovano, secondo questo postulato, all’interno della medesima circonferenza.
In Luis García Montero, poeta del nostro tempo Gabriele Morelli, il curatore del volume, così definisce la poetica dell’autore: «Diciamo che lo sguardo del poeta rivolto al lettore è condizione essenziale del discorso poetico di Luis García Montero in quanto coglie e rappresenta la realtà quotidiana. La persona con cui l’autore si confonde è il cittadino che vive a contatto con gli oggetti e i simboli lacerati della modernità, dove il sentimento di solitudine creato delle relazioni sociali sostituisce il senso del male baudelairiano, come indica il poeta nei componimenti della raccolta Las flores del frío (1991). Anche i libri precedenti e successivi affermano un tono monologante che oscilla tra l’autobiografia e i condizionamenti ideologici propri della collettività.» (pp. 7-8). Morelli coglie bene quello che in sostanza è il punto centrale della poesia di Montero: l’imprescindibile presenza dell’io dell’autore, impegnato in un fitto e incessante dialogo con il mondo che lo circonda, la circonferenza della contemporaneità nella quale la prima persona singolare diventa plurale, partendo da e tornando sempre all’io, al punto di vista del soggetto-autore, ma dopo avere realizzato un movimento circolare nel quale la circonferenza della sfera pubblica e di quella privata si sono perfettamente sovrapposte. Paolo Ruffilli, a proposito del granadino, scriveva: «Muovendo da una profonda esigenza interiore di verificare con se stesso e di comunicare agli altri la propria visione del mondo e della vita, Garcia Montero costruisce i suoi rigorosi quadri, mirando a isolare i tagli, le fessure, gli scollamenti, in cui si esprime e si dichiara il disagio personale del non-riconoscimento, del vuoto.»[1].
Le situazioni a cui le liriche fanno riferimento sono spesso scene di vita quotidiana e di ambientazione urbana, molto comuni, che però l’autore riesce a distillare e trasfigurare in modo originale come, ad esempio, in Ci sono aerei che partono da nessun luogo e non atterrano da nessuna parte in cui la scena di un passeggero che deve spogliarsi per passare i controlli di rito all’areoporto («Sulla vaschetta metto / l’orologio, il portafoglio, il cellulare / e la cintura») che diventa un pretesto per tracciare un bilancio della propria vita («La luna mi chiede, / chi sono io?, / scusate l’insistenza, / ma non so rispondere »). Oppure in Vivere è piegare le bandiere dove l’autore racconta il commiato da una casa nella quale ha vissuto.
Altrove l’autore ricorre all’espediente dello specchio per creare uno sdoppiamento che gli consente di passare dal monologo al dialogo con il riflesso («Lascio i vestiti sudici ai piedi della sedia / il letto disfatto, / i piatti da lavare, / gli asciugamani per terra, e nella stanza da bagno / lo specchio velato di nebbia / dove ancora appare / il nudo senza pelle dell’impostore / che ora esce in strada, / e saluta gli altri, / e attende chi lo chiama per nome» scrive in Forse usciamo da noi stessi, ma rimane quasi sempre una porta mal chiusa). in Gli specchi, (tratta da Tempo di camere separate) scriveva: “Non importa se hai dormito molto o poco, / gli specchi d’hotel non perdonano mai / e sono come gli animali di montagna / che non accettano il contatto con gli uomini”[2].
La scelta di puntare il compasso della propria poetica sempre e solo sull’io costituisce il punto di forza e, nello stesso tempo, il punto debole della poesia di Montero, evidentemente sempre fedele a se stessa (in senso positivo o negativo, secondo i gusti e i punti di vista). Il teatro dell’io è quello in cui sono ambientate tutte le sue liriche, che appaiono sempre legate a un vissuto personale semplice e comune. Nell’epoca del “selfie” e dell’egolatria dilagante, tale scelta potrebbe sembrare puro autolesionismo, ma per fortuna l’autore sfugge a un vacuo autobiografismo attraverso scarti improvvisi e lampi, colpi d’ala che riscattano la banalità del pretesto che era stato il punto di partenza.
Quella di Montero è una proposta chiara e semplice: lavorare su materali presi dalla vita quotidiana. Mai alcun riferimento al mondo del mito o alla sfera del sacro o una ipotesi di trascendenza così come assente è la voce della natura, che non viene considerata un elemento dotato di un qualche ruolo autonomo o di una sua voce in quel panorama urbano in cui agisce l’io lirico.
Montero ci propone in sostanza una poesia che rinuncia all’epos, di impianto materialista, inscritta totalmente nel piano della sincronicità con il suo autore. Può piacere o meno, ma credo sia una proposta che vada presa seriamente in considerazione.
[1]Paolo Ruffilli, Premessa, da: Cinquantina,Di Felice Edizioni, Martinsicuro 2012, p. 8
[2]da: Tempo di camere separate, Le lettere, Firenze 2000, p. 63, traduzione di Alessandro Ghignoli.
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Va bene…..Ma non conoscendolo (io come tanti altri potenziali lettori) non era opportuno presentare ANCHE la materia prima, ovvero quanche poesia…