Verumtamen in imagine pertransit homo
Firenze, maggio 2018
Non lasciare in sé null’altro che una nebulosa di refettori, di coliche e viuzze smunte. […]
L’afa ci pigia nel fondigliuolo della vita, tra l’asino quasi nolano, frontale allo sbalzo dei secoli, il pavone derviscio e ciascun’altra bestia inventata per noi da Benozzo Gozzoli: labirinto broccato, orificio, di chi ha già bevuto la sua eternità. E sotto gli angeli, nella scarsella, una fumigazione marmorea, un frangimento di colori come frotta di cesti gassosi in cui già fingiamo di calarci dentro la cecità del convento di San Marco, per cui poi siamo venuti, colla stanchezza metafisica di quattro telefonate al polo museale della Toscana, la flebo di benzina, i ravioli imburrati, la cartuccia Super 8 che si può sviluppare solo in Canada, e a costo di non far portare nulla sul bilancino di Michele l’Arcangelo, di non far quadrare niente, neanche il salmo 38 («verumtamen in imagine pertransit homo»), neanche la successiva visita a Santa Trinita per far nuovo l’oblio nelle stive del tempo.
Usciti all’aperto il cielo pare soltanto un arazzo oltraggioso, per giunta oziosamente cavato da una qualche caricatura digitale. Sicché, quando qualcuno ci toglierà la fede nel mondo mostrandocelo davvero una volta per tutte, che ne sarà del mondo stesso, se realtà è stata sino ad ora soltanto la paziente, incompiuta svelatura del suo originario nascondimento? Comunque è maggio, mese del senso rosaio! Faremo lo sforzo di spingere il carretto sino alle lenzuola della sera. Nessun collirio di splendori liquidi, nessuna sophrosyne da macinare: soltanto la polpa ombrosa del mezzogiorno, i gettoni di liquirizia e l’abbraccio con la sinistra per quando duole lo stomaco in vista di tutte le indigestioni che verranno più avanti, a giugno, salutate -possibilmente- con due melagrane da marcire e calcinare sul volto del Battista nella notte di San Giovanni, come monito per le pupille. Perché -sia detto- dalla farmacia terreste non sgorga più rimedio alcuno, ma solo “l’ecco” dello sguardo, cioè: vedi, bada! È il segreto florifero di Ruusbroec, la cuccia della parola che latita, che manca davvero:
«Per questo Egli pronunzia in eterno nel segreto del nostro spirito, senza intermediario e incessantemente, una parola profonda come l’abisso, e nulla più. In questa parola egli annunzia se stesso e tutte le cose. Questa non dice altro che: guardate.» Guardate.
Mi piace molto: un po’ gaddiano, no?
Senza sporgermi troppo, ringrazio, sul filo dell’appunto.
A me pare che i sensi siamo cinque…almeno.
Chi ha detto altro?
A me pare che i sensi siano cinque…almeno.