Elogio bellico di Richard Millet – appunti francesi
di Edoardo Pisani
Ogni anima è da sola una società segreta.
Marcel Jouhandeau
Il ventiquattro agosto del 2012 Anders Breivik viene condannato a ventun anni di carcere per gli attentati terroristici da lui ideati e commessi in Norvegia l’anno precedente, l’autobomba nel centro di Oslo e l’eccidio sull’isola di Utøya, per un totale di settantasette morti e oltre trecento feriti, perlopiù ragazzi. Qualche giorno dopo, in Francia, con un tempismo forse non incolpevole quanto i suoi scritti, l’editor e scrittore Richard Millet pubblica l’ormai conosciuto (ma non troppo letto) Elogio letterario di Anders Breivik, che dà addito a violente polemiche nel mondo letterario francese, fra liste di scrittori pro e contro Millet e articoli, accuse, insulti, rotture. È il caso letterario, o meglio editoriale, dell’anno, l’affaire Richard Millet, che il tredici settembre lo costringerà alle dimissioni dal comitato di lettura di Gallimard, come racconta in Lettera ai Norvegesi sulla letteratura e le vittime, pubblicato due anni dopo; e da Gallimard per il momento Richard Millet non pubblicherà altre opere, né romanzi né saggi né libri di appunti né diari, come i primi volumi del suo Journal, ora editi per i tipi di Léo Scheer, dal 1971 al 1994 e dal 1995 al 1999, comprendenti gli anni della guerra in Libano già narrati ne La confessione negativa, seguito romanzesco de La mia vita fra le ombre, con il suo alter ego Pascal Bugeaud che si unisce ai falangisti cristiani per combattere palestinesi e musulmani sunniti e sciiti, in piena guerra civile, nel 1975, come l’autore stesso – che scrive: “Ho dovuto uccidere degli uomini, tempo fa, e delle donne, dei vecchi, forse dei bambini. E poi sono invecchiato. Siamo invecchiati prima degli altri. Abbiamo visto ciò che nessuno può guardare fissamente: il sole, la sofferenza, la morte…” Questo è l’incipit del romanzo.
Le opere di Richard Millet, il suo percorso letterario e umano, valgono più delle polemiche che hanno suscitato due o tre suoi testi in fondo minori, che pure lo hanno fatto conoscere in Europa e pubblicare in Italia, seguitando a far discutere, contrapponendolo al milieu letterario parigino e ai vari cultori del multietnicismo e antirazzismo europei, che Millet avversa in ogni scritto, non sempre a ragione. Le sue opere più ambiziose, il ciclo di Corrèze, sono tuttora poco lette, anche in Francia, dove l’autore dice di essere ostracizzato, combattuto, isolato dal potere editoriale e librario e non solo, non più un editor di Gallimard malgrado due premi Goncourt da lui scoperti e editati, Le benevole di Jonathan Littell e L’arte francese della guerra di Alexis Jenni.
“Elogio letterario di Anders Breivik è un pamphlet fascista che disonora la letteratura” ha dichiarato perentoriamente Annie Ernaux su Le monde, qualche anno fa, e in parecchi hanno sottoscritto il suo articolo, le sue parole, autori importanti quali Amélie Nothomb o Céline Minard o Tahar Ben Jelloun o Le Clézio, mentre altri hanno o taciuto o criticato la stessa Ernaux, come Patrick Besson e Gabriel Matzneff, che ne ha scritto nel proprio diario, dolendosene, perché “quando uno scrittore firma una petizione deve essere per difendere qualcuno, per tirarlo fuori dai guai, per aiutarlo, non per mandarlo a fondo…” Invece da qualche anno nel mondo culturale francese c’è un clima da guerra civile, delatorio, del tutti contro tutti, fra scrittori integrati o apocalittici o ribelli o isolati, come Millet, che pure si è fatto isolato, si è voluto isolare, stilisticamente e biograficamente, per continuare a scrivere – o per vendere di più, forse? Questo suggerisce Bernard Henri Lévy, alias BHL, sorpreso dal clamore eccessivo suscitato da “tre libelli traboccanti di pensieri insulsi e di odio”, come ha dichiarato a Le point, soggiungendo che Millet in passato aveva già cercato altri casi, altre provocazioni, arrivando a lodare Osama Bin Laden e a difendere Bashar al-Assad, ne L’obbrobrio, perché “se non hai il tuo Grande Scandalo a sessant’anni sei un fallito”, chiosa Lévy – sbagliando, ignorando completamente tanto le opere di Millet quanto i suoi abissi, le sue battaglie e il suo grido di allarme nei confronti non soltanto della Francia ma dell’Europa intera, allarme sia linguistico che filosofico e umano e quindi culturale, allarme letterario.
“La parola Dio è scomparsa con la parola pidocchio. Dio è morto insieme al pidocchio e per la stessa causa: uno spruzzo d’insetticida. Per questa Morte del Pidocchio l’umanità sprofonda nell’igiene e nella rovina.” Così scrive Guido Ceronetti in Pensieri del Tè, e Richard Millet lo pone in epigrafe a L’Oriente deserto, libro di viaggio e di nostalgia che dedica ai cristiani di Oriente e che ravviva l’idea e il bisogno di Dio in letteratura, la sua ricerca e la sua preghiera, talora la sua verità. “Misero cattolico, certo” scrive Millet, “ma cristiano fino al midollo: non passa un solo giorno senza che pensi a Dio, alla mia religione che è ormai la cosa più infangata in Europa, disprezzata, sfottuta, al punto che nei giorni difficili finisco per dirmi che forse hanno ragione loro, che bisogna prediligere una modernità risolutamente agnostica, materialista, edonista, buttando al fiume ciò che non sarebbe altro che un insieme di superstizioni, di illusioni, di pulsioni sublimi, di errori in passato sanguinosi…” È una delle lotte più difficili di Millet, di certo votata alla sconfitta, la difesa del classicismo e dell’elitismo della cultura europea contro il chiasso assordante della modernità, lo stilismo francese contro l’anglismo imperante dei media e gli ateismi fin troppo diffusi nella cultura stessa e nel mondo, contro l’ignoranza e per la sacralità della parola, per la sacralità della vera arte. Ne L’obbrobrio scrive: “Sono gli stessi censori che, denunciando l’oscurantismo papale e l’Inquisizione e facendosi portatori del razionalismo degli Illuministi, mi odiano per dirmi cattolico e vanno in visibilio per Tom Cruise, John Travolta e Nicole Kidman, adepti della chiesa di Scientology. È questa setta di mangiatori di ali che mi rimprovera ciò che dovrebbe essere la sua unica virtù: la ricerca della verità.”
La ricerca della verità, dunque, sacra o scandalosa che sia, orrida o sublime o inaccettabile, e il confronto non è soltanto letterario e umano, cioè linguistico: è filosofico. “Sta venendo il mattino” dice l’Oracolo di Duma nel libro del profeta Isaia, nel passo 21:12, la sentinella di guardia, detta del Silenzio, “ma la notte durerà ancora, tornate e ridomandate, venite ancora, insistete…” Insistete e cercate; nel caso nascondetevi e aspettate la vera alba, la vera luce, la parola che si alimenta di deserto e che nel deserto si ravviva, come suggerisce Guido Ceronetti ne L’occhio del barbagianni, perché “la sfida della scienza alla filosofia è questa: ‘Fatti mia serva se vuoi sopravvivere’” – quindi per restare libera e non doversi umiliare “la filosofia si ritira nell’ombra e aspetta che tornino come proprio futuro i pensatori presocratici.”
La sfida della scienza alla filosofia si traspone anche nel narrare, nel romanzo e contro il romanzo, è un monito alla letteratura stessa (e all’arte: “Il mio eroe è il fisico Werner Heisenberg” diceva Dalí) e una sfida allo scrivere più autentico, vissuto, con centinaia e centinaia di romanzetti o di libri teorici che applicano le più semplici tecniche della narrazione alla scienza divulgativa, per esempio, sempre in voga, leggibile, esportabile, tradotta dall’angloamericano o anglicizzata dai nostri stessi autori, che perdono in stile e indeboliscono la propria lingua, inchinandosi al Dio anglofono della Scienza o al Dio della chiarezza e dell’amenità, come direbbe Roberto Bolaño, procacciando uno stilismo annacquato che tradisce il vero senso dello scrivere e il silenzio che ne deriva, l’imperfetto e sofferto silenzio che crea ogni autentica opera letteraria – e ogni ricerca.
Un altro autore che ha preso spunto da Anders Breivik e dalla strage di Oslo e Utøya, come Richard Millet, è l’italiano Giuseppe Genna, ne La vita umana sul pianeta terra, uscito nel 2014, seguito ideale del suo Hitler, opera che indaga sul male e sulle sue infinite sfaccettature umane, disumane, storiche, orrifiche. Il suo Breivik è un libro di tenebre, che alle tenebre si rivolge e alle cui tenebre risponde, trae voce e visione, struttura e storia. “Di cosa si ha paura?” chiede a un certo punto il narratore, interrogandosi su Breivik e sulla sua insensatezza, sulla sua immane perfezione. “Di avere paura e di finire di avere paura, morendo. Verso cosa stanno transitando tutti? Possiamo qui azzardare l’ipotesi che molto velocemente stiamo osservando lo sviluppo, la crescita e la raggiunta età adulta della vittoria postuma di Hitler…” La vittoria postuma di Hitler, dice Genna, rifacendosi a Emil Fackenheim e al suo stesso Hitler, pubblicato sei anni prima, non una biografia o un libro storico ma una visione/opera che indaga sulle radici della follia nazista, che vera follia non è, del Male eletto a simbolo umano e dello sterminio mutuato in normalità, perché “la normalità non è indifferente al genio: lo aggredisce, sogna il suo martirio” – così Genna a proposito di Hitler, a Vienna, nel 1908, rifiutato dall’Accademia di Belle Arti, uno studente frustrato che ignora o disprezza Klimt e Kokoschka, una non-persona e un non-artista che prescinde dal tempo e dagli altri e che metterà a fuoco e conquisterà l’Europa e che infine, nell’apocalisse ultima, si ucciderà. “Ancora arde ciò che fu il corpo del Fürher” scrive Genna.
Anders Breivik, a differenza di Hitler, non si ammazza, arrendendosi dopo il massacro, sessantanove morti innocenti sull’isola di Utøya. E di Europa e tenebre anche Richard Millet scrive, trascendendo Hitler e difendendo in qualche maniera la “visione postuma” di Utøya, di Breivik, il suo eccidio gridato, orrido perché perfetto, perfetto perché disumano. “Lontano dall’essere un angelo sterminatore o una bestia dell’Apocalisse” afferma Millet, “Breivik è al tempo stesso vittima e carnefice, sintomo del male e suo impossibile rimedio.” Sintomo del male, certo – ma quale male? E quale impossibile rimedio, soprattutto? Elogio letterario di Anders Breivik di fatto viene letto più in chiave nazionalista che culturale, più politica che letteraria o artistica, benché l’autore condanni più volte Breivik e i suoi atti, il suo orrore – che pure sono europei, che pure lo rendono un creatore a tutti gli effetti, un écrivain par défaut, scrive Millet, come peraltro definisce se stesso ne L’obbrobrio, écrivain par défaut, scrittore per difetto, per errore, Anders Breivik, simile al protagonista di Fuoco fatuo di Pierre Drieu La Rochelle, sebbene, a differenza di Hitler o dello stesso Drieu La Rochelle, non morto suicida, imprigionato nel carcere di Skien.
La guerra, come la solitudine e la morte, pervadono tutta l’opera di Richard Millet, i suoi silenzi e la sua tragedia, compreso il primo volume del suo diario, invero un semplice libro di appunti, dal 1971 al 1994, con riflessioni filosofiche e teoriche e romanzesche, in fondo non dissimile dal già tradotto L’inferno del romanzo, una raccolta di paragrafi numerati alla maniera di Cioran o di Ceronetti, scritti “tra le rovine della letteratura francese, specchio in frantumi della fine del romanzo…” – cioè nel trionfo del romanzo non europeo, per consumatori più che per lettori, internazionale, vendibile, tanto riproducibile quanto inutile. Difatti molti autori europei, specie in Francia, si rifugiano ormai nei taccuini, nei saggi o nei diari, come lo stesso Richard Millet, tralasciando il romanzare, la narrazione pura, o cercando nuove vie narrative, non sempre romanzesche, perdendosi spesso nei modelli d’oltreoceano, più venduti e vendibili e quindi più richiesti dagli editori, più riscritti; mentre altri cercano di restare a galla soppiantando il silenzio della scrittura con il caos degli “spazi prostituzionali online”, come ripete spesso Millet, blog e siti e social network – e “il making of di un romanzo diviene non un bonus ma una sorta di dovere più importante del libro stesso…” E le opere, la letteratura, ne risentono, e così gli autori. Ma poco importa, purché il libro venda, no? Perché si tratta soltanto di sopravvivere editorialmente e di esistere e resistere in quanto scrittori e artisti, in quanto creatori – o no? “Il mestiere di scrivere è popolato di canaglie, questo lo intuiscono più o meno tutti” diceva Roberto Bolaño. “Ma è anche popolato di stupidi che non si rendono conto dell’immensa fragilità dello scrivere, di quanto scrivere sia effimero. Voglio dire, posso stare con venti scrittori della mia generazione e sono tutti convinti di essere bravissimi e di poter durare. Questo è di un’ignoranza, oltre che di una superbia, mostruosa…”
Superbia e ignoranza dello scrivere, quindi. E riprendiamo ancora Millet e il suo grido di allarme nei confronti della lingua e del romanzo, dell’inferno del romanzo e della narrazione, perfino della poesia, inferno che riguarda innanzitutto lui stesso, sia in veste di ex editor che di scrittore, partecipe della sua stessa fine e del suo ultimo canto (o pianto) del cigno. Quanti autori infatti cascano nelle lusinghe e nei chiacchiericcii dei social network o nella trappola del caso forzato, del personaggio forzato e della vendibilità costretta, sperando nel chiasso proprio o altrui per vendere qualche copia in più o qualche copia e basta, per esserci, per restare, per non disilludersi e scrivere ancora o per rivolgersi al proprio sordo pubblico ma non per scrivere meglio, non per isolarsi e romanzare – quanti scrittori confabulano e tramano inutilmente?
E così lo stesso Millet si autoproclama le dernier écrivain, solennemente, l’ultimo scrittore prima del tramonto culturale europeo, mentre Bernard Henri Lévy gli rimprovera di cercare l’affaire a forza, il caso, lo scandalo, il suo quarto d’ora di celebrità warholiana, lucrando sui giovani morti di Utøya – e sulla letteratura. (Ma Lévy non lucra a sua volta sul non letto, come già lucrava sul non visto stroncando a priori Underground di Kusturica, dieci anni prima, pur avendo scritto un libro quale La pureté dangereuse, nel 1994, La purezza pericolosa, che anticipa e in qualche modo crea Breivik – salvo poi ravvedersi e raffrontare proprio Underground alle opere di Céline, al suo viaggio delirante nell’Europa in guerra?) E chissà se nei diari non ancora editi, dal 1999 a oggi, Millet risponde alle accuse di Lévy, che nel momento più difficile lo attacca pubblicamente, dandogli del geloso dei successi altrui, del cacciatore di scandali, mentre nel mondo letterario è tutto un rincorrersi di pose e cifre, di chi vende di più o strappa i migliori anticipi o ha più clic online o smuove più copie o fiuta il colpaccio, l’affaire, il premio, la chiacchiera, e la condanna, o la salvezza, è forse la solitudine e l’oblio, forse il silenzio della scrittura totale.
“Dividere i giusti, moltiplicare i malvagi” scriveva Richard Millet a Philippe Sollers su L’infini, nel 2011, prima di Lingua Fantasma, “ecco a cosa lavorano i nostri nemici, moltiplicando le pietre al posto del pane e rimproverandoci, a me e a lei, di pubblicare troppo, cioè di esistere.” Ma pubblica davvero troppo, Richard Millet, il cui testo più discusso, Elogio letterario di Anders Breivik, è in fondo incolpevole e assai meno importante di altre sue opere, dai romanzi di Corrèze ai diari appena usciti a libri di appunti quali L’inferno del romanzo o L’obbrobrio o Solitudine del testimone – pubblica troppo, scrive troppo, dice troppo? O è/era troppo l’affaire Millet, con Annie Ernaux che gli dà del fascista e Tahar Ben Jelloun che lo accusa di narcisismo destrorso e Patrick Besson che lo difende e rinfaccia a Jelloun il suo silenzio nei confronti di Hassan II e dei suoi “giardini segreti”, mentre molti firmano la lista Ernaux senza nemmeno leggere Langue Fantôme, Mathias Enard, Amélie Nothomb, Céline Minard (alias la papessa Maidalchini, da Olimpia, suo splendido monologo), e Gabriel Matzneff se ne dispiace e Le Clézio parla di sindrome Céline in Francia e si chiede se ormai basti essere più o meno scandalosi per sembrare “geniali” – e Richard Millet, che geniale non sembra, che scrittore rimane, si vede costretto a firmare una lettera di dimissioni dal comitato di lettura di Gallimard, senza resistere alla tentazione di migliorarla stilisticamente, come racconta nella Lettera ai Norvegesi, perché lo stile letterario oggi non è più di moda, spiega, essendo ogni stilismo considerato “di destra”, “fascista”, per ignoranza o ugualitarismo letterario… (ma Roberto Bolaño e molti altri non sarebbero d’accordo).
Richard Millet lascia dunque il suo ufficio da Gallimard, senza stringere mani, in un clima di guerra culturale, letteraria, lui che la guerra reale l’ha conosciuta e descritta in pagine atroci, combattendo e uccidendo o guardando uccidere e vivendo di ombre e demoni, di solitudine e scrittura. “Continuerò a essere solo” scrive nel Journal. “Poco frequentabile. Niente affatto amabile. Poco desideroso di prostituzioni letterarie o di massonerie.” E a Philippe Sollers, ne L’infini: “Non ho una posa da scrittore: scrivo. La guerra non è una posa ma un atto, come la scrittura. Solo lei mi definisce, o mi condannerà all’oblio. Almeno sarò rimasto fedele alla terribile dolcezza dell’angelo che è in me.”
La scrittura quale stato di guerra perpetua, quindi – e di disperazione. Perché disperate e vive sono le opere di Millet, il suo silenzio e il suo disprezzo trasposti sulla pagina, le sue battaglie culturali e i suoi cicli romanzeschi, le vite degli altri quali specchi scuri in cui vedere se stessi, il proprio io, Richard Millet o Pascal Bugeaud, la sua terribile dolcezza e le sue pose, uno scrittore in guerra salvato dalla purezza della parola e del romanzare, nei sentimenti e nel romanzesco.
Che il resto, o questo, da Anders Breivik ai fratelli Kouachi a Brenton Tarrant, sia letteratura? “Ho attraversato talmente tante tenebre” scrive Millet ne L’obbrobrio “che la notte ha per me la dolcezza del giorno; una forza immensa mi sospinge, malgrado l’angoscia e il dubbio, la paura; perché scrivere non è altro che ridere nella notte, poco prima dell’aurora…” – scrivere di veglia, in guardia, come la sentinella del profeta Isaia; scrivere perché “la notte durerà ancora” o perché ogni notte, come ogni alba, come ogni scrittura, dovrà finire: e aspetteremo il giorno.
di Edoardo Pisani
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“Ho attraversato talmente tante tenebre” scrive Millet ne L’obbrobrio “che la notte ha per me la dolcezza del giorno; una forza immensa mi sospinge, malgrado l’angoscia e il dubbio, la paura; perché scrivere non è altro che ridere nella notte, poco prima dell’aurora…”
Quando le parole si slegano dalla realtà materiale, diventano narcise e brutte.
E’ chiaro che Pisani parla di cose che non conosce, perché non sono entrate nella sua carne e non hanno fatto uscire il suo sangue.
Di un Miller non parlo perché ho di meglio da fare.
Millet (e.c.)
Assurdo. Antinomie. Cazzate macrabe. Giá con mafia, ndrangheta etc. non se ne avrebbe abbastanza almeno qui da noi?
“Sortez du puits de l’âge pour vous vêtir de lumière et entrer dans le temps chanté, c’est à dire l’espérance.”
Richard Millet, Un sermon sur la mort