La costruzione di una storia
Pubblico qui l’introduzione a L’Officina del Racconto,un un progetto speciale nato per dare valore all’attività meritoria che viene fatta da insegnanti e intellettuali dentro le scuole, per stimolare la curiosità, la predisposizione alla lettura, la creatività dei ragazzi e mostrare che, nell’aridità schematica dei programmi scolastici, c’è lo spazio per iniziative potenti, coinvolgenti. La pubblicazione del libro serve non solo per darne contezza, ma anche per invitare a un’espansione di questo tipo di progetti.
Gli autori sono più di centocinquanta: gli studenti che hanno preso parte a questa solida impresa; e otto capicantiere: Valerio Aiolli, Elisa Biagini, Enzo Fileno Carabba, Rino Garro, Emiliano Gucci, Alessandro Raveggi, Vanni Santoni, Marco Vichi.
di Rino Garro
Procurati una penna, fogli bianchi formato A4, un taccuino: è tutto ciò che ti serve per il momento. Percorri il lungo corridoio prima di giungere all’ultima aula, non propriamente aula. Ha la porta a vetri zigrinati, chiusa. Vedi ombre caute lì dietro, le immagini, ingrandirsi come istrici in controluce. Poi però senti un chiacchiericcio e delle risate, e anche un urlo. Sono già arrivati, ti dici, e ti aspettano. Non sanno chi sei, o forse sì. È chiaro che devi essere un insegnante, ti vedono sempre in giro nei vari plessi dell’istituto con registri gialli e rossi, anche se non sanno cosa insegni, in quali classi. Esiti un momento prima di bussare; ti aggiusti il collo della camicia, con l’indice riporti in alto gli occhiali che ti scivolano continuamente lungo il naso. Tiri anche un bel respiro; accenni un sorriso. Paura, per caso? Certo che no, ti rispondi; dopo tutti questi anni. Però – ma non lo vuoi ammettere – sei nervoso. Sei sempre nervoso e impaziente quando si tratta di cominciare, di scoprire cosa sarà. Guardi l’ora sullo smartphone. Adesso sei pronto. Dai due colpi al vetro, entri.
Buongiorno, dici, good morning to you all. Ti rispondono in coro in italiano e in inglese e in francese, per scherzo; ma anche in ispanoamericano, lingua madre per diversi qui, così come lo sono il rumeno e l’albanese o l’ucraino. Alcuni si alzano seri; altri rimangono seduti a giochicchiare con gli astucci, a mettere via frettolosamente i telefonini di prossima generazione. C’è di colpo silenzio; un vuoto-pieno che sta a te governare con destrezza, comunque non oltre il tempo concesso ai timori di trasformarsi in sguardi annoiati, in risatine che penseresti di scherno. Li guardi uno a uno, ragazzi e ragazze del nuovo millennio, all’apparenza tutti uguali. Ti specchi nei loro occhi furbi e vorresti subito gettare la maschera, unirti a ciò che ti piacerebbe davvero fare se non avessi il ruolo che hai. Sebbene, in fondo, è proprio del tuo ruolo che ti devi spogliare, ma senza lasciarlo vedere.
Buongiorno, ripeti con faccia un po’ tirata, mentre rapidi sguardi percorrono la stanza che conosci bene: ampia il giusto, pulita, sufficientemente spoglia. Non è per supplice adesione alle politiche del Ministero se stai valutando che non potresti desiderare altro; il punto è che ne sei ultraconvinto, e lo vai pure a sbandierare sentendoti alquanto ridicolo – eccolo lì, guardatelo l’uomo che vive nelle caverne ai bordi della metropoli. Però di ciò non ti curi molto, a te piace proprio essere qui, adesso, in questo piccolo spazio strappato alla gravità del curricolo, per divertirti e conoscere e sentire raccontare, e certo raccontare anche tu.
Ti dici, e li scruti: io e loro, fogli e penne, al caldo ovattato e materno, lontani dalle guerre. Cos’altro vuoi? Cosa ti occorre per essere migliore? Hai un cervello ancora in salute, ti dici, e in mezzo al petto un muscolo sanguigno che non smette di pompare. Vuoi forse trapiantarci dei chip?
Sono pensieri che per fortuna confessi solo a te stesso, stupidi al punto da sgusciare all’improvviso per soccorrere il tuo senso di inadeguatezza. E mentre loro dispongono sul grande tavolo oblungo i libri di testo che scovano dagli zaini, tu a cosa pensi realmente? Ai tuoi professori, a te studente senza troppa voglia, al tempo che passa e all’invidia che provi? Non sei l’unico, credici, a dover dominare questi sentimenti; è umano e naturale, è la distanza abissale che separa l’istinto dall’azione depurata. Ma in questo preciso istante tu sei loro, sei dentro i loro spiriti, e hai il raro privilegio di restarvi a lungo, o per sempre. Ricordi bene i tuoi professori, no? E tuo padre, non ha ancora chiare le immagini e le voci dei suoi, belle o brutte che fossero?
Allora prof, dice qualcuno con il libro aperto, richiamandoti al presente. Da dove cominciamo? Li guardi – ora quasi composti tutt’intorno al tavolo – e rispondi che non servono libri per questo genere di lezione. Così distribuisci i fogli, e spieghi che invece vi tocca pensare alle cose più divertenti, inventare storie che dicono di voi, che conoscete bene, e siccome sono vere possono diventare di tutti. Ma, in verità, sono anche finte queste storie, e nessuno potrà dire che si tratti proprio di voi. Ci sono obiezioni e perplessità, e risolini malcelati. Non voglio stare in una storia, sbuffa uno; e nemmeno io, e poi come si fa – protestano – da dove si inizia? Per il momento, ribadisci, andiamo insieme a questa gita fuoriporta, vedremo cose e incontreremo gente, avremo caldo e avremo freddo, e saremo bravi se vedremo e sentiremo per davvero. Una biondina con le trecce e il mascara che sbava riempie il rettangolo bianco di scarabocchi, mentre un’altra prova a scorgervi il capolavoro. Altri, affondati in ruvidi berretti di lana, sembrano svogliati o partecipano in estatico silenzio. Bene, riprendi, ma lo dici più che altro a te stesso, per darti vigore, bene, allora si parte sul serio: qui e poi lì, lei e lui e l’altro, e un campo di fragole, e una scuola, e una fabbrica in rovina sullo sfondo. Adesso sgomiti e straparli, e chiedi i loro nomi, dove vivono, i loro hobby. Il racconto stenta a partire, questo ti è chiaro, ma rifletti sul fatto che è soltanto il primo incontro e che comunque ciò che importa è stare insieme, avere la pazienza del pescatore, vagabondare per strade secondarie e viottoli erbosi che infine possano ricondurre a voi, all’intrico dei diversi destini. Alla finestra, uno degli studenti sta sbadigliando da un po’, gli occhi chiusi e la bocca ben oltre gli orecchi. Che sonno stamattina, farfuglia, non mi sveglio più. Ecco, ecco la pazienza, urli a te stesso, proprio ciò che aspettavi. Li scuoti, anche letteralmente, quasi con violenza. Giorgia forza scrivi, scrivi, sì certo con la penna, Che sonno stamattina, disse Giorgio, che sonno bestia, non voglio più svegliarmi! Perché Giorgio?, si oppone qualcuno. E allora come, ribatte un altro, Marcantonio? Così, un po’ per volta, le teste si raddrizzano e convergono su Giorgia, la scrittrice. Ma questo Giorgio dove si trova, cominciano a dire, e com’è vestito? Ah, irrompe quello più tatuato di tutti, per me è solo un povero sfigato tatuato. Ma lo vedi, prof, adesso ti tocca moderare, far stabilire logiche, eradicare contraddizioni, far descrivere spazi e azioni e tutto il resto, però tu non avere l’aria d’intonare già il canto di vittoria. Guarda quei tre nell’angolo, per esempio, i capi chini e i sottovoce complici. Se ne fregano di te e dei compagni che al momento ti stanno attorno. Osservali di sottecchi, caro prof-capocantiere, e lasciali fare, vedrai che anche a loro verrà poi voglia di unirsi all’impresa magari per aggiungere una singola frase, un pensiero, per raccontare di loro che non sono loro. Questa cosa, riusciranno forse a dire con orgoglio alla fine della storia, questa cosa qua l’ho scritta io, l’abbiamo scritta noi.
Ti stai già perdendo in scenari dolciastri, quando il suono dell’ultima campana deflagra al pari di una bomba. Ti assordano urla di vittoria, queste sì, e alti canti di gioia, eppure ti è parso di cogliere anche il disappunto di qualcuno, è probabile però che ti sia sbagliato, o forse no. Comunque tutti rimettono le sedie al loro posto e lasciano in giusto ordine, prima di uscire. È faticoso, ti dici, è bello. E ti affiorano alle labbra i versi di uno dei tuoi poeti preferiti, che forse qui, adesso, appaiono come svolazzi fin troppo simbolici: The child is father of the man. Già, Il fanciullo è padre dell’uomo, dici, mentre se ne sfilano via. Chissà come sarebbero contenti. E se fosse l’inizio del prossimo racconto?
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Dove si può trovare,se è stato pubblicato?
Il titolo
L’officina del Racconto – Antologia di storie costruite a scuola,
Edito da Effequ da un paio di mesi.
Se non lo trovi nella tua libreria, puoi ordinarlo, ha normsle distribuzione
L’insegnante lo vedi dal ‘coraggio dall’altruismo e soprattutto dalla fantasia ecco Rino è tutto questo, i racconti non nascono ci sono in ogni dove, a scriverli ci pensano gli uomini prima di tirare un calcio di rigore. Gran bel lavoro complimenti a tutti🤙
Un progetto veramente interessante, frutto del lavoro e della passione letteraria di alcuni dei più importanti scrittori contemporanei. Un grazie a Rino Garro per avermelo segnalato.
Gabriele Lastrucci