I comandamenti della montagna

di Michele Nardini

Estratto da memoriale – Agosto 1944

Vado avanti. Supero il blocco delle prime case e raggiungo una nuova località. Davanti a una casa scorgo movimento e agitazione, due soldati hanno i fucili puntati contro un gruppo di persone e li spingono dentro una casa da cui provengono voci concitate.
Decido di entrare. Dentro c’è poca luce, solo una macchia grigiastra che illumina la prima parte della stanza dove sono radunati i soldati tedeschi, attorno al loro comandante. Il resto è oscurità, ombra perpetua, ma oltre il buio si sentono dei lamenti, flebili e tremanti, quasi soffocati.
Improvvisamente un ufficiale entra trafelato, sbattendo la porta. Giunto davanti al suo comandante, gli rivolge il saluto militare e posa due cavalletti a terra, sul lastricato della casa, uno accanto all’altro. La preparazione è lenta, meticolosa, ai limiti dell’estenuante: c’è da trovare l’altezza giusta dei cavalletti e poi fissare le mitragliatrici per capire l’angolazione migliore. I minuti scorrono via che sembrano ore, ma non per tutti. Per alcuni, dentro la casa, il tempo è sospeso, strozzato, come i respiri che percepisco nel buio.
E proprio dall’oscurità emerge il volto di una donna, febbrile e sofferente, che non si attiene agli ordini ed entra nel cono di luce, dirigendosi verso di me. Ha in mano un fagotto, tende le braccia e mi implora di salvare almeno lui, di portarlo via. Dapprima non capisco, poi abbasso gli occhi ed è tutto chiaro: avvolto in una coperta c’è il corpicino di un bimbo, «Ha sette mesi», mi dice la donna, «Che colpa ha lui?», mi chiede. «No, lui non c’entra nulla», ripete, «Portalo via, non importa dove, portalo lontano da qui». Continua a guardarmi e piange. «Portalo via», sussurra, mentre un soldato la trascina di nuovo verso l’oscurità, con il fagotto ancora stretto tra le mani.
I cavalletti sono pronti, resta solo da posizionare la mitragliatrice e scegliere i tiratori. Un urlo squarcia il silenzio, ed è disumano, perché proviene dalle viscere di un corpo, perché contiene tutta la disperazione che una persona può avere. È un’altra donna, molto più anziana.
Agita le braccia in alto, come a invocare aiuto dal cielo. Anche lei esce dalla zona in ombra, ma solo per metà.
«Lasciateci sta’, ’un s’è fatto nulla, noi», urla disperata.
Le mitragliatrici sono fissate sopra i cavalletti, puntate verso l’oscurità che adesso è meno impenetrabile. Riesco a distinguere gli occhi di chi sta dall’altra parte della stanza, distinguo gli occhi della donna con il fagotto in mano, distinguo gli occhi del nipote che tiene per mano la nonna e la accarezza, per proteggerla.
«Ma ci volete ammazza’ pe’ davvero?»
La domanda cade ingenua, spontanea, senza senso. Nel frattempo è arrivato anche Cranio lucente. Si muove con disinvoltura nella penombra, con quei passettini frenetici e irregolari. Si accorge di me e mi rivolge un ghigno. Rido, e non mi preoccupo di non fare rumore, così la risata coinvolge il soldato accanto a me e, come un’onda, tutta gli altri soldati presenti nella casa.
«O Madonna, salvici te, e se non puoi salva’ tutti, salva almeno i bambini».
La preghiera si perde nel vuoto. Cadono tutti insieme, uno dopo l’altro, travolti dalle sventagliate di mitraglia.
I corpi restano lì, ammassati a terra. I cavalletti e le mitragliatrici vengono invece portate via, verso le altre località del paese. Anche i tedeschi sono usciti, Cranio lucente se n’è andato, ne è rimasto solo uno, sta raggruppando dei legnetti e del fieno e li sta disponendo al centro della stanza, accanto ai cadaveri. Ancora quella meticolosità che non riesco proprio a capire. Esce un attimo, alla ricerca di altro materiale per appiccare il fuoco.
Entro nella stanza, spinto da non so quale curiosità. Nel mucchio di corpi sento un rumore, un lamento flebile, indefinito. Mi avvicino e vedo una mano che si contrae in un gesto di effimero attaccamento alla vita, le vene gonfie sul dorso, le dita rattrappite e macchiate di sangue. Una mano minuscola, da bambino, si muove con lentezza, cerca uno spiraglio, una via di uscita ma sbatte contro qualcosa, una testa che schizza sangue. Mi avvicino ancora di più fino a sfiorare la mano che non reagisce, il mio sguardo risale il braccio e poi verso la faccia: ha un buco sulla pancia, un altro sulla spalla. Non ne avrà per molto.
Estraggo la pistola e la punto contro la sua testa. Forse è solo un’impressione, un riflesso incondizionato ma, prima di sparare, mi pare che sul suo volto appaia quasi un accenno di sorriso. Basta un colpo e la mano del bambino si distende, dimenticando il dolore.

C’è una musica discreta e irreale che si spande sopra Sant’Anna. Musica di organetto che dà ritmo alla marcia, agli ordini dei capireparto, alle mitragliate, alle colonne di fumo che iniziano ad alzarsi in ogni località del paese. Alle grida acute, disumane, tragiche delle persone, ai pianti disperati.
C’è questa musica che continua come se nulla fosse successo, e io decido di seguirla. Alle mie spalle ho lasciato il primo mucchio di cadaveri. Attraverso un boschetto e mi trovo nei pressi di un cortile dove c’è una stalla, in fiamme. Mi affaccio alla porta, vincendo l’odore insopportabile del fumo, e scorgo un ammasso di corpi, braccia, teste, mani e gambe senza vita.
Vado avanti, ormai nulla può sconvolgermi, neanche il cadavere di un uomo che non ha più le gambe, nemmeno l’ultimo abbraccio tra due donne anziane. Non mi scompongo neanche di fronte a una donna incinta con la pancia sventrata, aperta in due e poi fatta partorire, prima di sparare alla testa del minuscolo feto. Adesso la donna cadavere abbraccia il suo bimbo, legato ancora a lei dal cordone ombelicale.
Vado avanti. Arrivo nei pressi di una stalla, accostata alla porta d’ingresso c’è una collana d’aglio: si dice che tenga lontano le sventure e il malocchio. Appena la sfioro con le dita, sento un grido provenire da dentro. Entro e vedo una donna a terra, con il sangue che le cola dalla tempia, e a pochi metri un soldato che sta cercando qualcosa.
«’Un c’è nulla qua, ci sono solo io», ripete in modo febbrile. Ma il tedesco non l’ascolta, forse non capisce, continua a cercare, adesso si sta dirigendo verso un’intercapedine del muro, dove è ammassato del fieno. Non so dove la donna trovi l’energia, forse è la disperazione, forse è l’odio, forse è solo quell’istinto di sopravvivenza più forte dei nostri limiti. È allo stremo, ma riesce comunque a sfilarsi uno zoccolo. Non le occorre prendere la mira, lo lancia verso il muro opposto. Il soldato sente prima il fruscio, poi lo spostamento d’aria. Troppo tardi per evitare l’impatto. Lo zoccolo lo colpisce sulla fronte, appena sotto gli occhi. Grida, sorpreso, poi bestemmia qualcosa. Ha gli occhi spiritati, iniettati di sangue. La donna non si accontenta, sfida ancora il suo orgoglio, si prende gioco di quel giovane uomo che pensava di schiacciarla.
Il soldato è senza fiato, come se avesse corso una maratona. Impugna la mitraglia e squarcia l’aria con una raffica. La donna crolla a terra, al centro della stanza, in una pozza di sangue. Il soldato raccoglie lo zoccolo, esce di corsa dalla stalla e lo lancia lontano. Poi si piega, senza fiato, e si allontana. Io rimango ancora un po’ dentro, attratto dal cadavere di quella donna che ha fatto di tutto per farsi ammazzare.
La sto ancora osservando, cercando di capire i motivi dei suoi gesti, quando noto un movimento impercettibile dietro l’intercapedine del muro. Mi sposto allora nel punto più buio della stalla e trattengo il fiato: passano pochi secondi e, dall’intercapedine, spunta un bimbo. Non sa cosa fare, lo sguardo vaga terrorizzato tra il cadavere e la luce che filtra dalla porta aperta. Pongo fine alla sua titubanza: con un pugno faccio rimbombare il muro della stalla, il bimbo sussulta, lancia un’ultima occhiata al corpo della donna e corre via. Dall’angolo in cui sono nascosto sento i suoi esili passi perdersi dentro il bosco.
Sembra una rappresentazione ma è solo la realtà. Ogni località di Sant’Anna brucia: bruciano le case, bruciano le stalle, bruciano gli alberi, bruciano le piazze e brucia la chiesa, brucia il prete, bruciano le panche, bruciano le foglie così come bruciano i bambini, bruciano gli animali e bruciano le donne, assieme ai loro padri.
Esiste una democrazia, a Sant’Anna. Nessuno scampa al massacro, nessuno sopravvive alla follia.

Estratto da: Michele Nardini, I comandamenti della montagna, Barta Edizioni

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francesca matteoni
francesca matteonihttp://orso-polare.blogspot.com
Curo laboratori di poesia e fiabe per varie fasce d’età, insegno storia delle religioni e della magia presso alcune università americane di Firenze, conduco laboratori intuitivi sui tarocchi. Ho pubblicato questi libri di poesia: Artico (Crocetti 2005), Higgiugiuk la lappone nel X Quaderno Italiano di Poesia (Marcos y Marcos 2010), Tam Lin e altre poesie (Transeuropa 2010), Appunti dal parco (Vydia, 2012); Nel sonno. Una caduta, un processo, un viaggio per mare (Zona, 2014); Acquabuia (Aragno 2014). Dal sito Fiabe sono nati questi due progetti da me curati: Di là dal bosco (Le voci della luna, 2012) e ‘Sorgenti che sanno’. Acque, specchi, incantesimi (La Biblioteca dei Libri Perduti, 2016), libri ispirati al fiabesco con contributi di vari autori. Sono presente nell’antologia di poesia-terapia: Scacciapensieri (Millegru, 2015) e in Ninniamo ((Millegru 2017). Ho all’attivo pubblicazioni accademiche tra cui il libro Il famiglio della strega. Sangue e stregoneria nell’Inghilterra moderna (Aras 2014). Tutti gli altri (Tunué 2014) è il mio primo romanzo. Insieme ad Azzurra D’Agostino ho curato l’antologia Un ponte gettato sul mare. Un’esperienza di poesia nei centri psichiatrici, nata da un lavoro svolto nell’oristanese fra il dicembre 2015 e il settembre 2016. Abito in un borgo delle colline pistoiesi.