Carmelo
di Giovanni Dozzini
Chiese un trancio di pizza al salame piccante e si mise a sedere accavallando le gambe e scoprendo caviglie sottili e glabre fin quasi a metà stinco. Vestiva con una certa eleganza, i pantaloni di cotone color pesca, la camicia celeste avvitata, le scarpe sportive crema, il tocco naif di uno Swatch blu e nero con un cinturino che saliva appena sul bordo del polsino. Era un sessantenne molto preparato sul passato e, con ogni evidenza, meno sul futuro, perché tutto in lui tirava all’indietro, o meglio verso gli innumerevoli, per lui pressoché infiniti, punti del tempo in cui era stato più giovane e pieno di aspettative di adesso: non solo il look ma i modi, la camminata svelta, gli occhi in tralice con cui affrontava gli estranei o si preparava a sferrare una battuta, non per forza di spirito, con i conoscenti. Tipo il pizzaiolo, un ometto più vecchio di almeno una quindicina d’anni, zoppicante e un po’ in sovrappeso nella sua tenuta bianca rafforzata dal bianco dei ciuffi di capelli che gli crescevano ai lati della testa. Il posto era piccolo, ma quando l’uomo era entrato aveva già trovato altri due clienti, uno abituale, l’altro mai visto prima. Una volta scelta la pizza si era seduto teatralmente, poggiando un gomito sul tavolino e perlustrando le sagome delle tre persone che occupavano insieme a lui quei pochi metri quadrati. Si era naturalmente concentrato sullo sconosciuto, un ragazzo sui trentacinque anni, la barba castana a ricoprire una faccia allungata in cui due grandi e verdi occhi sporgenti sormontavano un grosso naso sefardita che gli pareva di avere già visto da qualche parte. Guardò poi il pizzaiolo, che però era impegnato a contare le monete finite nel cassetto scorrevole del registratore di cassa nel corso della mattinata, e non gli fece caso. Si sentì quindi squillare un telefono nel retrobottega in cui il vecchio doveva impastare la pizza e le focacce e farcirle prima di portarle di qua per infilarle nel forno, e una voce gracchiante da adolescente rispose masticando un nome incomprensibile per poi allontanarsi subito e trasformarsi in un riverbero lontano. Per l’uomo con lo Swatch fu una sorta di via libera.
-Mannaggia al clero- disse senza particolare enfasi, facendo dondolare una gamba sull’altra e scuotendo la testa, gli occhi che guizzavano qua e là per cogliere le reazioni della platea. Il ragazzo reagì non reagendo, rimanendo cioè apparentemente impassibile, le braccia incrociate, la barba ferma, i piedi piantati sul pavimento a scacchi bianchi e neri. L’altro cliente finì di svuotare la Peroni da 66 in un bicchiere di plastica trasparente e fece per accennare un sorriso dal quale poi desistette, il pizzaiolo afferrò un bicchiere dalla cima della pila che si ergeva sulla mensola di vetro dietro di sé e lo porse all’uomo. Lui però gli fece cenno di no.
-Questa è sua- disse, e si riferiva alla lattina di Coca Cola appoggiata sul tavolino. Intendeva dire che era del ragazzo, ora assorto nella contemplazione delle cartoline ammucchiate sulla parete. Il pizzaiolo allora annuì, allungò il bicchiere al ragazzo, che lì per lì non se ne accorse.
-Tu aspetti la focaccia?- gli chiese, sorprendendolo, e quello rispose di sì. La sorpresa era dovuta al fatto di essere entrato nel locale non più di due minuti prima, e di aver chiesto la focaccia non più, grossomodo, di un minuto e mezzo prima.
-Certo- disse il pizzaiolo, piegando la testa in avanti e affacciandosi nel vano scaldavivande. Si rigirava a malapena nell’intercapedine tra la parete e il bancone, ma dava ugualmente l’impressione di sentirsene il sovrano potente e indiscusso, e di sentirsi gratificato da quella consapevolezza. L’uomo con lo Swatch, ottenuto meno di quanto non avesse pensato con l’imprecazione di prima, si alzò in piedi e andò a prendersi una lattina di Coca Cola nel frigorifero all’angolo accanto alla porta. Aveva un bel volto, scavato sulle guance, gli occhi erano chiari di un chiaro che alla luce artificiale del locale appariva indefinibile, il naso piccolo e deciso, le labbra carnose anche se sbiadite. I capelli erano corti, brizzolati, nemmeno troppo radi.
-Devi farti operare, Carmelo- sentenziò –Così non ti si può più vedere-
Se ne tornò a sedere, ma il pizzaiolo non gli fece caso, perché la focaccia del ragazzo era pronta e gli toccava armeggiare con la paletta di metallo e i tovaglioli in cui avvolgerla. Afferrandola spostò anche la pizza al salame piccante, e decise che pure quella era pronta.
-Tieni- disse.
L’uomo dello Swatch si rialzò, prese la pizza, lo fissò.
-Hai capito quel che ti ho detto?-
-Ho capito. Ma è una cazzata- rispose Carmelo.
Il tizio della Peroni guardò il tizio dello Swatch, e stavolta sorrise. Se ne accorse anche il ragazzo, che s’era seduto pure lui e già affondava i denti nella focaccia ripiena di salsiccia e spinaci. Aveva appena aperto la lattina di Coca Cola, senza però versarne una sola goccia nel bicchiere.
-In una settimana sei a posto- disse l’uomo dello Swatch, ma Carmelo sbuffò.
-Neanche dopo cinque mesi sono a posto. Su dieci che si operano al ginocchio nove zoppicano come prima. Io manco morto- disse –Col cazzo che mi opero, io-
L’uomo con lo Swatch era di nuovo seduto, tutti e tre i clienti del locale adesso erano seduti, allineati, le schiene alla parete, le pizze o nel caso del ragazzo la focaccia in mano e i bicchieri e il da bere sui tavolini. Carmelo, oltre il bancone, sembrava un attore, o l’oratore di un minuscolo congresso sull’ortopedia. Ma quello che ne sapeva di ortopedia, là dentro, era un altro.
-Il problema è Perugia- disse l’uomo con lo Swatch –È l’ortopedia di Perugia. Se mi dici che si tratta di questo, Carmelo, ti capisco. Ti do ragione. Lascia stare Perugia, vattene a Milano. Al Galeazzi, devi andare. Se vai lì risolvi tutto-
Il pizzaiolo non rispose, e in quel momento la porta si aprì e fece il suo ingresso un uomo distinto dai tratti mediorientali. Aveva folte sopracciglia nere, la schiena curva, un’espressione dimessa e le mani in tasca. I capelli erano grigi, non troppo corti, folti solo sui lati e sulla nuca.
-Ah- disse Carmelo –Attenzione. Che adesso arriva Salvini e sono cazzi tuoi-
-Per la Madonna- disse l’uomo dello Swatch –È proprio vero-
Lo straniero borbottò qualcosa senza cambiare espressione, tolse una mano dalla tasca e si passò il palmo sul naso bagnato dalla pioggia.
-Piove?- gli chiese il pizzaiolo, e lui si limitò a indicare fuori dalla porta.
-Piove- ripeté Carmelo, e questa era un’affermazione –Ma non cambia niente. Se non ti fai mandare qualche documento dagli amici tuoi Salvini ti rispedisce a casa. Arabo del cazzo-
L’uomo con lo Swatch, a bocca piena, provò a obiettare, ma l’attenzione del pizzaiolo era già stata catturata dall’irruzione di un tizio stralunato che spuntò dal laboratorio brandendo il telefono in mano. Gli somigliava, lo stesso naso affilato e gli stessi occhi rapinosi, ma era troppo giovane per essere suo figlio.
-Nonno, ho preso un pastore maremmano- disse.
Era la voce gracchiante di prima, una voce da diciassettenne che in realtà apparteneva a un uomo che viaggiava perlomeno sul doppio di quegli anni.
-Porca Puttana!- urlò Carmelo –Tu sei matto. Non ci pensare neanche. Se ci provi io ammazzo te e il cane-
-Ma perché?- disse il ragazzo strascicando la “é” finale. In testa aveva un cappellino da baseball nero, senza loghi o scritte né niente. Per tutta risposta il pizzaiolo avanzò verso di lui minaccioso, costringendolo a indietreggiare e a rintanarsi nel laboratorio. Bestemmiava tra i denti, zoppicava, e passandole accanto afferrò la pala con cui infilava le pizze nello scaldavivande.
-Oh!- disse il nipote, senza urlare.
-Guarda che non scherzo- fece Carmelo sollevando la pala sopra la testa.
L’uomo dello Swatch intanto aveva finito di mangiare la pizza e di bere la Coca Cola.
-Carmelo- disse –Lascialo perdere. Dammi un altro pezzo di pizza. Però scaldamelo davvero, questo-
Lo straniero adesso era sulla porta, il naso quasi schiacciato contro il vetro. Guardava la pioggia scrosciare, la gente che passava riparandosi sotto gli ombrelli, quella che correva senza niente con cui proteggersi dall’acqua. Il ragazzo seduto al tavolo si chiese se stesse pensando alla casa lontana, il tizio della Peroni fissava il passaggio verso il laboratorio, da cui uscì il pizzaiolo claudicante, la faccia congestionata dalla rabbia. Dietro di lui si sentì una flebile bestemmia, infilò il trancio di pizza al salame piccante nello scaldavivande, cercò di ricordarsi a che punto era rimasto.
-Oh, arabo. Testa di cazzo. Hai capito o no?-
L’uomo si voltò, annuì, disse qualcosa di incomprensibile, e quello dello Swatch si pulì la bocca con un tovagliolo e schiarì la voce per riprendere a parlare.
-Guarda che lui non è arabo. Il Paese suo una volta andava alla grande-
Il pizzaiolo non gli diede troppa considerazione, digrignò i denti e puntò un coltello in direzione dello straniero.
-Attenzione a Salvini- gli disse.
-Erano ricchi- riprese l’uomo con lo Swatch- Erano civili. Erano messi meglio di noi-
Lo straniero sollevò appena una mano, in segno di approvazione, mantenendo però l’espressione imperscrutabile di sempre.
-Poi è arrivato Khomeini e ha fatto un disastro-
Quindi si alzò e raggiunse l’iraniano, gli diede una pacca sulle spalle.
-Bei tempi quando c’era lo Scià, vero?-
-Eh- rispose quello.
Carmelo intanto era tornato nel retrobottega, sciabattando, e aveva ripreso ad apostrofare il nipote senza curarsi dei clienti. Il forno emanava un calore che andava a folate, la scacchiera del pavimento rifletteva lo sfrigolio del neon e in certi punti registrava l’impressione delle scarpe dell’iraniano. L’uomo dello Swatch adesso si fermò per qualche istante davanti alla porta, come per riflettere su qualcosa d’importante, o cercare di ripescare qualche ricordo.
-Sì- disse poi –Gli ortopedici. Vattene al Galeazzi- disse rivolto al pizzaiolo –Al Galeazzi ti rifanno come nuovo-
Quindi si mise a raccontare la storia della figlia scoliotica.
-Adesso ha vent’anni, e quando ne aveva diciassette l’abbiamo fatta operare alla schiena. Scoliosi al 65%. A Perugia non hanno voluto metterci le mani. “Ve lo scordate”, c’hanno detto, “questa è inoperabile”. E allora siamo andati a Milano. Un amico ha parlato con un dottore del Galeazzi, e nel giro di un mese siamo andati su. È stata sette ore sotto i ferri, angelo mio. Ma dopo la scoliosi era al 20%, quasi non si vede più. Ed è anche diventata più alta. Dicono che con la rieducazione può scendere fino al 10%, in pratica scomparirà. Il problema è Perugia. L’ortopedia di Perugia non vale un cazzo-
Carmelo lo aveva ascoltato, ma senza smettere di maneggiare le pizze che il nipote aveva impastato e infornato. Lui le tirava fuori dal forno, le tagliava, spostava i tranci sul vassoio di metallo e li travasava sul ripiano di legno del bancone. L’iraniano lo osservava compiere quelle operazioni semplici, uguali a se stesse da almeno mezzo secolo, e sembrava piuttosto affascinato. Il pizzaiolo se ne accorse, e subito lo insultò.
-Maiale. Tanto prima o poi Israele vi rompe il culo-
Quello per la prima volta sorrise, e disse di no. Disse qualcosa a proposito degli americani e dei francesi, ma nessuno capì esattamente cosa. Parlava a voce bassissima, parlava in direzione del pavimento, e non stava mai fermo. Camminava curvo, con le mani incrociate dietro la schiena all’altezza dell’osso sacro, forse pensava alla Persia natia, forse no.
-E le donne- fece l’uomo dello Swatch –Com’erano belle le donne, prima di Khomeini. Facevano la bella vita, da voi. Che gli è successo alle vostre donne, dì un po’? Si sono imbruttite o è solo per via del fatto che adesso sono tutte coperte?-
-Sono coperte- disse l’iraniano, e stavolta si capì distintamente.
-Già- fece l’uomo dello Swatch, dandogli un’altra pacca sulla schiena.
A quel punto, inaspettatamente, intervenne l’uomo della Peroni. Era grasso, fulvo, sui quarantacinque anni, e aveva occhi tondi e giallognoli. La bottiglia era vuota, il bicchiere quasi. Aveva mangiato tre tranci di pizza, tutti margherita.
-Mia figlia- disse –è nata coi piedi torti. A Perugia non le han voluto fare niente. L’abbiam portata a Bologna, e lì le hanno risolto il problema-
-Operata?- chiese il tipo dello Swatch.
-Operata. A Perugia volevano farle mettere il gesso al Pronto Soccorso. Quando aveva cinque giorni. A Perugia in ortopedia non capiscono un cazzo-
-Esatto!- esclamò l’altro –Proprio così. A Milano, bisogna andare. O a Bologna. Ma meglio a Milano: il Galeazzi è il massimo. Capito, Carmelo? Devi andare a Milano-
-Per l’amor della Madonna!- quasi urlò il pizzaiolo –Tu sei matto. Col cazzo. Io a Milano non ci vado-
Ma l’uomo dello Swatch non si dava per vinto. -Mannaggia al clero, Carmelo – disse quindi – Quando fai così io non ti seguo proprio. Di che cazzo hai paura a ottant’anni suonati?-
-Ottant’anni ce l’avrà tua moglie- rispose il pizzaiolo –Non mi fare incazzare pure tu-
Riapparve quindi il nipote, sembrava somigliargli sempre di più. Aveva il cellulare in mano, e si avvicinò al nonno per fargli vedere la foto del cane.
-Dimmi se non è bello-
-Ancora?- urlò Carmelo –Allora non hai capito un cazzo-
-Lo tengo a casa del babbo. Perché no?-
-Perché i cani puzzano e cacano dappertutto. E costano un sacco di soldi-
-Ma questo me lo regalano-
-Come no- disse il pizzaiolo –Col cazzo che te lo regalano-
Il ragazzo cercò complicità in qualcuno degli avventori, ma nessuno lo stava guardando. Non l’iraniano, intensamente assorto in pensieri presumibilmente cupi, e non il tizio della Peroni, che ragionava sulla pioggia e sulla strategia per uscire e andare dove doveva andare senza infradiciarsi. Non il ragazzo con gli occhi sporgenti, che aveva roso metà focaccia e stava silenziosamente armeggiando col cellulare, e non il tizio dello Swatch, intenzionato a proseguire il suo discorso sull’ortopedia.
-Tanto lo prendo- disse infine, e dicendolo indietreggiò e si armò di un ghigno che fece infuriare il nonno ancor più di quelle tre misere parole.
-Porcaccia della puttana- disse, e lo inseguì cercando di accelerare il passo. Solo che il ginocchio gli doleva parecchio, e stavolta fu costretto a fermarsi prima ancora di arrivare alla fine della pedana di legno.
-Prima o poi ti ammazzo- disse piegandosi e portando una mano al ginocchio. L’uomo dello Swatch si fece avanti, con fare sardonico.
-Mi devi dare retta. Lo vedi che non riesci neanche a correre dietro a tuo nipote?-
-Dove non arrivo io c’arriva un colpo secco. Il Padreterno lo fulmina presto. Quel drogato del cazzo-
L’iraniano sorrise di nuovo, ma Carmelo non se ne avvide.
-Però almeno a Bologna- disse il tipo della Peroni –Milano no, ma Bologna? È vicina-
Forse tra di loro non c’era questa gran confidenza, forse il cliente in carne se n’era presa più del dovuto grazie ai due terzi di litro di birra che aveva ingurgitato tra un boccone di pizza e l’altro. Fatto sta che Carmelo non gli rispose male come avrebbe fatto con qualcun altro, tipo l’uomo dello Swatch, per esempio, per non parlare dell’iraniano o del nipote.
-Ho detto di no- si limitò a dire –Bologna o Milano per me è uguale. Io da Perugia non mi schiodo-
-E allora rimani storpio finché campi- fece quello con lo Swatch.
-Saranno pure cazzi miei- disse Carmelo.
-Certo- fece l’altro –Sai cosa me ne importa a me-
Fu allora che l’iraniano si spinse più in là di quanto lui stesso non avrebbe mai pensato. Si accostò al bancone, davanti al pizzaiolo, e lo fissò negli occhi. Improvvisamente sembrava aver perso la sua natura dimessa, la postura era ritta, vigorosa, le braccia poggiate sul vetro e quasi minacciose.
-Il cane sì- disse.
-Il cane cosa?- fece Carmelo, stupefatto.
-Il cane, tuo nipote. Digli sì-
-Ah- esclamò il pizzaiolo –Guarda tu questo. Viene a dirmi se prendere o non prendere un cane del cazzo in casa mia. Ma che cazzo ti salta in testa, testa di cazzo?-
L’iraniano strinse il pugno della mano destra lasciando fuori solo l’indice dritto. Lo puntava verso il vecchio, verso il petto abbondante che gli riempiva la maglietta bianca. Gli altri tre osservavano la scena con una punta di meraviglia, ma nessuno pensava che potesse realmente degenerare. Infatti non degenerò.
-Digli di sì- ripeté l’iraniano.
-Vaffanculo-
Squillò di nuovo un telefono, la stessa suoneria di prima, la stessa provenienza, e la stessa voce gracchiante da adolescente rispose remotamente.
-Portamelo alle cinque- si sentì dire –Ma almeno dieci euro per la benzina te li do-
-Hai un nipote obbediente- disse l’uomo dello Swatch –Un ginocchio fuori uso, ma un nipote obbediente. Forse fai bene a non volerti operare-
Carmelo nemmeno lo guardò, si guardò intorno, si piegò in avanti e spostò qualcosa che nessuno, al di qua del bancone, poteva vedere. Era un banchetto di legno, e quando ci si metteva a sedere, come era in procinto di fare adesso, lo faceva scomparire quasi per intero.
-Sapete che vi dico?- disse una volta poggiate le terga sul banchetto –Andatevene affanculo pure voi. Tutti e tre. Mio nipote, l’arabo, e voi tre. Vi conosco poco o niente, ma già mi state sul cazzo a sufficienza-
Si mise le mani sulle cosce larghe, del suo grosso corpo spuntava solo la testa, tagliata tra la bocca e il mento.
-Io mi sono rotto i coglioni- aggiunse, e si passò una mano sulla testa, sulla pelle lisa e macchiata dalla vecchiaia. Poi si mise a fissare il forno, il nero del forno, dove tutto era più o meno successo, dove aveva trascorso una vita intera a infilare impasti e tirar fuori pizze, il forno che aveva adoperato più di ogni altra cosa al mondo, che aveva comprato, aggiustato, buttato via, ricomprato, riaggiustato, ricomprato di nuovo, il forno grazie al quale aveva sfamato migliaia di persone e potuto sfamare anche se stesso e la sua famiglia, a partire da quella testa di cazzo drogata del figlio di suo figlio, che adesso impastava la pizza al posto suo e la faceva di merda, schifosa, terribile, tanto che non sapeva come facesse la gente a mangiarla ancora, la pizza di Carmelo, una volta era forse la pizza più buona della città e ormai era diventata la più schifosa. Gommosa, senza equilibrio tra i sapori, sbagliata in tutto e per tutto. Fissava il forno, e c’avrebbe ficcato dentro la testa, stavolta, in modo da farla finita una volta per tutte con quelle cazzate e quella gente che non sopportava più.
-Mi sono proprio rotto i coglioni- ripeté. Quando suo nipote fece ritorno, con passo molleggiato e trionfale, non ebbe nemmeno la forza di insultarlo.
-Vedrai che ti ci affezioni, nonno. Tu va a finire che ti ci affezioni sempre, ai cani-
Carmelo si tirò faticosamente su facendo leva con le mani sulle cosce, scostò il banchetto, guardò l’uomo con lo Swatch, che lo stava guardando, e gli fece l’occhiolino. Quindi prese il cellulare dalle mani del nipote, cercava la foto ma non si vedeva più. Così glielo ridiede. Fece i due passi che lo separavano dal registratore di cassa sbuffando per il dolore al ginocchio, aprì il cassetto e si mise di nuovo a contare i soldi.
Questo racconto è tratto da Giovanni Dozzini (a cura di), A casa nostra, lontano da casa, Aguaplano 2019 (con racconti di Pierpaolo Peroni, Giovanni Pannacci, Riccardo Meozzi, Caterina Venturini, Chiara Santilli, Stefano Baffetti, Gianni Agostinelli, Paola Rondini, Eugenio Raspi, Pasquale Guerra, Giovanni Dozzini, Antonio Senatore, Marija Strujic).