L’ultimo dei santi
di Marisa Salabelle
Le donne erano sedute in cerchio nella piazzetta secondaria di Tetti, non quella principale, all’ingresso del paese, con le panchine e i tigli e la fontanella dell’acqua, e nemmeno quella della chiesa, che una piazza della chiesa propriamente a Tetti non c’era, c’era solo il prato davanti all’ingresso e il monumento ai caduti da una parte: l’altra piazzetta, quella oltre il vecchio lavatoio, nella zona chiamata Tetti Bassi. Avevano portato le sedie fuori dalle case e se ne stavano lì a godersi il fresco, badavano ai nipoti e applicavano toppe ai ginocchi dei jeans mentre si raccontavano a vicenda le solite vecchie storie.
Di quando Laura, la figlia della Maria Rosa, s’era fidanzata e si doveva sposare e aveva detto al babbo, «No, babbo, io Gianni a vivere con me non ce lo prendo», non perché non volesse il fratello in casa, ma perché sapeva che la mamma non ne poteva più di stare a Tetti inverno e estate, e se lei avesse acconsentito a prender Gianni in casa, visto che da ottobre Gianni avrebbe cominciato a frequentare l’Istituto Professionale a Pistoia, la mamma non avrebbe avuto più nessuna speranza di convincere il babbo a trasferirsi in città almeno durante l’anno scolastico.
Di quando il vecchio Aurelio era stato trovato impiccato nella legnaia e nessuno aveva capito perché l’avesse fatto, ma qualche mese dopo s’era saputo che la su’figliola, Mafalda, era stata ricoverata in una clinica privata, sulle colline sopra Firenze, dove si diceva che avesse partorito un bimbo non normale, che era stato subito rinchiuso al brefotrofio.
Del tempo di guerra, quando c’erano i partigiani quassù, e si nascondevano a Bicocche e alla Casaccia, sì, proprio dove ora stavano gli Elfi, e dei Tedeschi, che rastrellavano la zona e requisivano tutto, le pecore, le mucche, i muli, al nonno Ugo gli avevano rubato l’orologio d’oro, alla Virginia gli orecchini.
Intanto i bambini scorrazzavano e le bimbe si davano da fare con pentolini e piattini e ortaggi di plastica, «tanto, c’è poco da fare», dicevano le nonne, «s’ha un bel dire, ma le femmine son diverse dai maschietti, a loro piace giocare a mamme, fare i mangiarini, è la natura, cosa ci si vuol fare.» Così si usava trascorrere il tempo, a Tetti, e anche se i racconti erano sempre gli stessi, le donne ci prendevano gusto, e ogni tanto si sedeva accanto a loro qualcuna delle più giovani, suggestionata da tutte quelle vecchie storie, mentre altre brontolavano, «mamma, nonna, zia, ancora con quegli aneddoti, ancora con quei ricordi che ci propinate da quando eravamo bambine, che si sanno a memoria, e non se ne può più, ormai.»
«La nonna non faceva niente, in casa» cominciò Bice, la figlia del povero Romolo. «Aveva cinque figli, due femmine e tre maschi. Le femmine erano le più grandi, la zia Vanna e la zia Rina, poi c’era il babbo, poi lo zio Alvaro, e lo zio Ermanno che era il più giovane. La nonna stravedeva per lui, era il suo cocco. Se c’era una coscia di pollo, un pezzettino di ciccia tenera, una fettina di castagnaccio o qualche altra ghiottoneria più rara, mandarini, banane, una ciocca d’uva, tutto era per lui. Lascia stare, diceva agli altri, è per Ermanno. E gli altri gonfiavano! Erano gelosi, si capisce.
Le mie zie, ci badavano loro al piccolino, che la nonna non faceva nulla, se ne stava sdraiata sul divano, me la ricordo ancora, quand’ero piccina, mi chiamava, mi voleva vicino a sé, io avevo un po’ di soggezione, però, non mi avvicinavo volentieri. La nonna aveva sempre un odore un po’ stantio, a furia di starsene lì, in quella cuccia, poi a quei tempi, non era come ora, l’acqua in casa non c’era, bisognava andarla ad attingere alla fonte, e poi scaldarla nel paiolo, la gente si lavava meno, specialmente d’inverno. Le zie me lo dicevano sempre: l’abbiamo cresciuto noi, Ermanno, e guai a dirgli qualcosa, la nonna gli dava sempre ragione su tutto, e lui era venuto su bizzoso, si capisce. Il mi’babbo, non è che ce l’avesse con lui, ma un po’ di rancore secondo me gliel’ha portato, senza nemmeno accorgersene. Povero babbo… E alla fine lo zio Ermanno è rimasto solo.»
«Come, solo, e le sue sorelle?»
«Ci sarebbe ancora la zia Rina, ma è andata a stare dalle suore, da quando la zia Vanna è morta. Non che sia vecchia, la zia Rina, avrà ottant’anni al massimo, ma è sempre stata cagionevole di salute, e un po’ zoppina, poverina; finché ce l’ha fatta, è stata in casa insieme a lui, che non si sono sposati, né l’uno né l’altra, ma poi lei ha cominciato a perdere un po’ la testa e ha voluto a tutti i costi ricoverarsi dalle suore, giù a Porretta.»
«E perché non è rimasta col fratello?»
«Mah, e come faceva, lui… non se ne sarebbe saputo occupare, che vuoi, non è mai stato abituato!»
«E ha messo la sorella al ricovero? Dopo che lei l’ha allevato?»
«Be’, che poteva fare… Ermanno non era adatto, devi capire…»
«Mah! Mah! Che mi tocca sentire! La Rina al ricovero, dopo tutto quello che ha fatto per lui! O quant’è?»
«Eh, saranno due anni, almeno… o quant’è che non venivi a Tetti?»
«Eh, un pezzetto… un pezzetto, di sicuro. Mah, che mi tocca sentire…»
Tratto da Marisa Salabelle, L’ultimo dei santi, Tarka libri 2019
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