Su Miloš Crnjanski (“Romanzo di Londra”)

[Presentiamo la prefazione del Romanzo di Londra dello scrittore serbo, uscito per Mimesis, nella collana diretta da Massimo Rizzante. Qui, su LPLC, un’anticipazione del primo capitolo.]

di Božidar Stanišić

 

UN GRANDE, BIZZARRO PALCOSCENICO

 

Non potevo neppure immaginarmi che, l’anno seguente,

 mi sarei ritrovato fra calzolai, in uno scantinato, a Londra.

Miloš Crnjanski, Dalla terra degli Iperborei

1.

In una lontana serata d’inverno, a conclusione della presentazione di un mio libro in una cittadina del Friuli, gli organizzatori avevano preparato un rinfresco per gli intervenuti. In quell’occasione conobbi Dunja e Fadil, miei conterranei e coetanei. Fra la loro domanda di quando fossi arrivato, la mia risposta che dal nostro non ero arrivato, ma fuggito nel 1992, e l’auspicio finale di incontrarci di nuovo, Dunja mi chiese di consigliarle qualcosa da leggere, possibilmente un romanzo. Negli ultimi tempi andavano abbastanza spesso e, all’occasione, compravano dei libri, di solito presso gli antiquari. Non ricordo molto bene il corso di quella conversazione, né come giungemmo a parlare degli scrittori emigrati, ma rammento che né Fadil né lei sapevano che Miloš Crnjanski avesse trascorso un quarto di secolo in Inghilterra. Li sorpresi dichiarando che, nella letteratura mondiale, nessuno aveva mai scritto in un Paese straniero un’opera così convincente, dal punto di vista concettuale ed estetico, come il suo Romanzo di Londra.

Un anno dopo… era quasi mezzanotte quando suonò il telefono. Dunja! Ecco, se non era troppo tardi, aveva qualcosa da dirmi. Qualcosa di molto semplice su Romanzo di Londra. Ossia, voleva farmi sapere perché aveva rinunciato a leggerlo dopo il terzo capitolo e perché non si sarebbe procurata il secondo tomo dell’opera. In realtà, aveva iniziato a leggere il quarto capitolo, ma non aveva rinunciato a leggerlo a causa del suo titolo: Erano sepolti vivi. Sapeva che agli scrittori vengono in mente le idee più strane, compresi i titoli dei capitoli dei loro romanzi. Ma si era infine decisa a causa di una frase: «Bisognava andarsene da questo mondo». Frase pronunciata dal protagonista del romanzo, Repnin, nel gelido silenzio notturno e nella quiete spaventosa della miseria degli emigrati. Chi vive in un altro Paese non deve leggere romanzi sugli stranieri, soprattutto su quelli che vivono una vita difficile, alla periferia di una metropoli, in una casa non riscaldata mentre fuori nevica; le loro ossa sono gelate, come il cavolo che hanno comprato; non hanno abbastanza denaro per procurarsi ogni giorno pane, tè, o latte; con i vicini si salutano a malapena e, quando parlano con gli altri, in macelleria o dal fruttivendolo, nessuno sa pronunciare correttamente i loro nomi, e cercano solo di indovinare da dove siano arrivati. Gli abitanti del luogo pensano che quegli stranieri siano di un luogo lontano che per loro non è, né potrebbe mai essere, interessante. Inoltre, hanno un gattino che si infila continuamente fra i piedi, più affamato che sazio. Se si mettesse a parlare, pensava Dunja, anche quel gatto parlerebbe come quell’emigrato russo, e direbbe che è disperato e amareggiato e che non ne può più di una vita che è una continua lotta contro la miseria e, anzi, contro quell’immensa città. A Dunja aveva fatto più impressione leggere del gatto che dei tubi scoppiati per il gelo in quella miserabile casa, o del terrore del protagonista di finire con sua moglie, da vecchi, in qualche canale di scolo. E se io sostenevo che si tratta del miglior romanzo della letteratura mondiale sul tema dell’esilio, che rimanessi pure della mia opinione, ma lei non ne poteva più dei pensieri sul declino, psichico e materiale, e non le sarebbe di certo venuto in mente di scrivere qualcosa su suo marito, sua figlia o se stessa: su come suo marito fosse stato cacciato dalla sua città, cosa che né lui né lei avrebbero mai potuto sognare neppure nell’incubo peggiore, e di come lei avesse sputato sui cosiddetti “suoi”, e di come fossero riusciti ad arrivare in Germania, e di come avessero tolto loro il permesso di soggiorno non appena tutto là era finito, e del crollo nervoso di suo marito, e di come fossero arrivati in Italia alla cieca, e che cosa avessero fatto e continuassero a fare, e degli incubi da cui era tormentata mentre leggeva del protagonista di Crnjanski che viaggia in metropolitana e si pone interrogativi terribili non solo sul lavoro e sull’umiliazione che è, di per sé, la disoccupazione. Non penserà mica al suicidio? Dunja non lo sapeva, perché, come mi aveva già informato, non aveva intenzione di procurarsi il secondo tomo, ma era sicura che quello straniero lo avesse fatto. E… non dovevo pensare che lei mi facesse una colpa per quel consiglio, voleva solo sfogarsi con qualcuno. E gli stranieri, se proprio scrivono di un altro Paese, dovrebbero scrivere qualcosa di più sereno! Per Dio, forse che in questo qui uno straniero non ha anche giorni di felicità? Sì, proprio giorni così, e dopo tutto quel che è successo!

«Buona notte!». Solo questo disse alla fine del suo monologo, e abbassò la cornetta. Si aspettava che avrei difeso Crnjanski, autore di Romazo di Londra?

Ogni volta che parlo in pubblico o scrivo di Crnjanski, sostengo che sui miei incontri, sulla mia corrispondenza o sui colloqui con gli editori italiani potrei scrivere un romanzo. Oppure un radiodramma che comprenderebbe anche le loro risposte ai miei messaggi. Un’opera, naturalmente, tragicomica e del tutto inutile, che non avrebbe neppure l’effetto di un sassolino gettato nella palude dei cataloghi dei cosiddetti grandi editori. Neppure le traduzioni dei due volumi di Migrazioni (traduzione di L. Costantini, Adelphi 1992, 1998), o del poema Lamento per Belgrado (traduzione e cura di M. Rizzante con uno scritto di B. Stanišić, Ponte del Sale, 2010) o del Diario di Čarnojević (traduzione di M. Babić, ADV, 2014) rappresentavano un’argomentazione abbastanza convincente per i miei tentativi di far uscire in italiano, fra gli altri inediti, le sue opere Dalla terra degli Iperborei e Libro su Michelangelo. Un editore ha obiettato che di Crnjanski parlavo come fossi il suo avvocato, al che gli ho risposto che i veri conoscitori dell’opera di un autore sono i praticanti di tale “avvocatura”. Infatti, il vero difensore di Crnjanski può essere solo la sua opera. Ed ecco che Romanzo di Londra in edizione italiana è uno dei soggetti della suddetta “avvocatura”, che ci arriva, finalmente, proprio in un momento della Storia italiana ed europea dominata da un’idea politica sui migranti che li riduce a una cifra, al genere neutro e, soprattutto, a un’eccedenza nell’attuale dramma della globalizzazione, delle sue conseguenze e degli effetti collaterali. Tutto il resto, dall’empatia alla solidarietà con gli espatriati, è oscurato dal predominio di quell’idea.

In realtà, anche la vita dello scrittore Crnjanski rappresenta una componente essenziale di quella difesa, vita in cui un posto preminente spetta al suo periodo da emigrato a Londra (1940­1965), e in questo periodo ai suoi giorni più cupi, senza i quali questo romanzo probabilmente non esisterebbe neppure. Comunque, anche allora Crnjanski continuò a scrivere, senza pensare se i suoi manoscritti avrebbero mai visto la luce in una patria in cui la stessa parola “emigrato” era sinonimo di “traditore”. Lo faceva senza sosta, così che il suo è uno di quei rari esempi in cui (si consideri pure ciò come l’enunciato patetico dell’autore di questo scritto, in tutto e per tutto solo occasionale su quest’opera) possiamo parlare di maledizione della penna. Dolce e amara: dolce perché crea l’illusione di un tentativo di stabilire un collegamento con la propria sorte, amara perché gli conferma che nella resa dei conti con il mondo è comunque un perdente. Ma non è tutto. Crnjanski è l’unico scrittore al mondo che in vita abbia avuto l’esperienza di essere proclamato morto. Nel saggio Tri mrtva pjesnika (Tre poeti morti, 1954), il poeta Marko Ristić, un tempo suo amico, seppellì Crnjanski assieme a due altri poeti, Paul Éluard e Rastko Petrović. A quel funerale Crnjanski rispose con il poema Lamento per Belgrado (1956). Nove anni dopo, con il consenso delle autorità comuniste, tornò a Belgrado, con la moglie Vida. Ed ecco Crnjanski, nuovamente un “traditore”, ma questa volta per l’emigrazione anticomunista in Inghilterra e in Europa. Di questo, dicono, dopo l’arrivo a Belgrado non parlava volentieri. Alla domanda di un giornalista su che cosa, dopo tanti anni di vita all’estero, rimpiangesse, rispose che gli dispiaceva, perché avrebbe incontrato tutte le giovani donne della sua gioventù nelle vesti di vecchie nonne. E poi nel 1971, con Romanzo di Londra, vinse il Premio NIN: a eccezionale conferma che per Crnjanski la scrittura coincideva con la vita, la quale, riteneva, di qualunque genere fosse, non è normale se un uomo non la vive nel suo Paese.

Lo so che, come lettori, dall’autore della postfazione di qualsiasi romanzo ci aspettiamo una sorta di aiuto. Ma di questo aiuto, paradossalmente, anche dopo aver scritto tante postfazioni, dubito fortemente. Infatti, l’aiuto più grande per un lettore è la sua stessa esperienza dell’opera. Credo che non mancheranno neppure gli interrogativi sul modo di scrivere di Crnjanski, prima di tutto sull’uni-dimensionalità della sua narrazione, con cui crea un’illusione di completa chiarezza del romanzo e di trasparenza dei suoi personaggi, fra i quali emerge non solo il suo Repnin, emigrato russo, ma anche Londra: metropoli che vive la sua metamorfosi postbellica, trasformandosi in città dominata dalla musica del denaro e del profitto, nel cui abbraccio vivono milioni di sudditi che la ferrovia sotterranea inghiotte al mattino e vomita la sera. Ma si tratta solo dello scontro tra la metropoli e il nipote del nobile anglofilo Anikita Repnin, che nel bambino Nikolaj aveva creato l’immagine idealizzata dell’Inghilterra e della sua cultura? A questa domanda retorica occorre aggiungerne altre, sicuramente numerose, fra cui anche quella sulla decisione di uno scrittore emigrato serbo di creare il personaggio di un russo. Per questo Crnjanski aveva una risposta concisa, che, parafrasando, faceva riferimento alla miseria dell’emigrazione jugoslava a Londra degli anni ’40 e ’50 del secolo scorso. E una risposta su Londra e sull’esilio in quella città, metafora del rifiuto degli altri e dei diversi che non accettano di ri- nunciare alla propria identità e alle proprie idee sul mondo, ci viene data dal suo Principe Repnin. Che è stato un soldato, ed è rimasto tale, anche dopo la sconfitta dei Bianchi nella guerra civile in seguito alla Rivoluzione d’ottobre. Che crede nell’onore e nella parola data, anche in un mondo dominato dalla musica del denaro e del profitto.

E quando alla fine del romanzo ci pare che sia tutto chiaro, il viaggiatore della metropolitana londinese che un giorno del primo inverno postbellico è sceso dal vagone e, come uno spettro, si è avviato alla casa di Mill Hill, dove l’aspetta sua moglie Nadja, iniziando il suo cammino verso il suicidio, in quel momento, sono convinto, sentiamo la necessità di rileggere le sue, per molti oggi inavvicinabili, centinaia di pagine e, naturalmente, di tornare a tanti particolari sottolineati, per noi fondamentali, di quest’opera. Essa ci parla delle metamorfosi dell’emigrato Nikolaj Rodionovič Repnin in contabile di una bottega di calzolaio, distributore di libri e stalliere, e della sua Nadja in sarta e confezionatrice di bambole e, in seguito, emigrata in America. Ma queste sono solo trasformazioni esteriori, relative allo status di questa coppia in una metropoli spietata, in cui, se un uomo non è useful, non esiste, e poco importa se è ancora vivo. Le vere metamorfosi avvengono nella psiche di Repnin e conferiscono a questo romanzo un carattere filosofico. Quanto è difficile intuire se il Principe di Crnjanski, qualora non avesse lasciato la Russia, l’avrebbe pensata diversamente sulla gioventù e la vecchiaia, l’amore e il sesso, il Sud e il Nord, i grandi personaggi della Storia e le persone normali, la morte e il terrore di questa nella miseria? Certo, non possiamo sapere in che modo se la sarebbe presa con Napoleone, a cui nel romanzo sottrae l’aureola di grandezza per consegnarla a un suo Maresciallo, Ney, che non baciò la mano del nuovo Re di Francia dopo Waterloo, e che alla propria fucilazione comandò ai soldati: «Soldats, droit au coeur!». All’alter ego di Crnjanski, quel comando è molto caro. Che cosa avrebbe pensato di Napoleone e di Ney, quindi, non lo sappiamo. Né se, non sopportando il regime dei Rossi, avrebbe sfogliato libri di fotografie di Parigi, Londra o di qualche altra capitale europea. Ma sappiamo che una dimensione non sarebbe esistita nella psiche del Principe Repnin, la dimensione della vita in un Paese straniero, anche nella sua elemen- tarità: essere altrove, diventare qualcun altro.

4

Le paure del Principe Repnin sono le paure di Crnjanski, emigrato a Londra. Nel suo romanzo, ripeto, l’opera più grande della letteratura mondiale scritta sul tema dell’esilio e della dispersione dei destini in un mondo di disordine e di assenza di qualsiasi armonia fra la Storia e il singolo individuo, il suo Repnin teme di finire in miseria, anzi, come dice, in un «canale di scolo». E teme, soprattutto, che questa sia la sorte di Nadja. E quella paura si presenta in Repnin ogni volta che pensa alla vecchiaia in terra straniera. Gli pare che non esista altro romanzo se non un lungo racconto sulla gioventù e la vecchiaia. Ciò, infatti, in un altro romanzo non c’è. Come non c’è in Rembrandt, nei cui autoritratti si vede il pittore che invecchia. L’unico romanzo di Rembrandt, come di qualsiasi altro uomo. Ci può sembrare che l’emigrato di Crnjanski sia angosciato dalla morte come lo furono anche Michelangelo e Kierkegaard. Ma quella di Repnin non è paura filosofica né semplice paura umana. Egli teme la vecchiaia in un Paese straniero più che la morte. E la fine, senza dignità, in qualche canale di scolo. Tutto ciò in una città che è un Leviatano, che parla tante lingue, ma soprattutto una: quella dello stra- niamento e dell’egoismo. Londra da lui pretende il conformismo, ma il protagonista del romanzo in quella città non è mai riuscito a evadere dai ricordi. Solo un conformista sa come si conquista un Paese straniero e come vi si trova il proprio posto e ruolo. A misura degli abitanti del luogo, naturalmente. Ma è un ruolo, in ogni caso. Eppure Repnin, anticonformista in tutto, non riesce a vivere in altro modo. A ciò contribuisce anche il fattore dell’invecchiamento: finché era giovane, si erano trovati bene in Portogallo, e in Italia, e in Francia… ma in una Londra, fra milioni di abitanti, egli, più che vivere, vegeta. Inoltre, è oppresso da voci che sempre più frequentemente si fanno sentire, soprattutto da quella del suo defunto amico Barlov. Malgrado tutto, però, non dimentica una consapevolezza acquisita in terra straniera: il ricordo è un sollievo, che apre gli spazi luminosi del passato. Gli basta ricordare le betulle, gli scoiattoli e la neve del villaggio di Naberežnaja. E quel nome suona come prossimo al sogno. Ed è felicità, strana e rara a Londra. Prima di avviarsi al suicidio, come a un ballo, come a una passeggiata serale, in Repnin la nostalgia viene risvegliata dalle fotografie di uno di quei pochi libri a cui si è ridotta la sua biblioteca. (Milan Kundera nel suo romanzo L’ignoranza ritiene «l’Odissea l’epopea fondatrice della nostalgia». L’autore ceco ci ammonisce anche che la soglia critica dell’assenza dalla patria è un periodo di vent’anni. Poi, il ritorno non è più né positivo né logico). Repnin è fuori già da venticinque anni. Egli vive in terra straniera, convinto che nessun uomo ne avrebbe davvero motivo. E che là dove è nato dovrebbe invece attendere tranquillamente la morte. Per questo Repnin, prima di accingersi a scendere dal grande, bizzarro palcoscenico, dice che se potesse, tornerebbe domani a Mosca o a San Pietroburgo, qualunque sia la loro opinione: «Vivere nel proprio Paese è logico, di qualunque vita si tratti. In terra straniera, non lo è».

Post scriptum

Mio padre Velimir era un amico di Srđa Prica, che al tempo dei preparativi del ritorno di Crnjanski in patria era Ambasciatore jugoslavo a Londra (allora ero un bambino, non sapevo né che cosa facessero gli Ambasciatori, né chi fosse Crnjanski, né perché lo scrittore vivesse fuori dal nostro Paese). Una decina di anni dopo, Prica raccontò a mio padre come aveva reagito Tito quando gli aveva presentato il “problema Crnjanski”.

«Ma che cosa fa là?».

«Scrive…», rispose Prica al Maresciallo.

«Se scrive là, allora può farlo anche qui…».

Crnjanski arrivò in Jugoslavia nel 1965, una ventina di giorni prima di sua moglie Vida. Nel viaggio di ritorno si smarrì una valigia, piena di manoscritti e di lettere. Per qualche miracolo, e grazie alla sollecitudine della moglie di Prica, Vukica, sopravvisse una lettera di Crnjanski a Vida, che per nulla casualmente presento ai lettori di questo scritto:

Mia cara Šošo,


Ho ricevuto la tua lettera con i ritagli di giornale, e ho ricevuto anche quella del 23.8, che mi ha fatto molto piacere. Dopo il panico, la speranza. Né tu, né io, né nessun altro può sfuggire al destino e alle leggi della natura, ma le notizie della tua malattia mi avevano rovinato la gioia per questo viaggio. Ora spero che tutto andrà per il meglio, e in ogni caso non ci si deve mai aspettare il peggio. Non devi più scrivermi qui a Rijeka, perché l’1.9 vado a Belgrado. Da Belgrado ti farò sapere con un telegramma il nuovo indirizzo. Non occorre che tu spedisca le lettere “express”, ma puoi farlo per raccomandata. Ho ricevuto tutto, e spero che anche tu abbia ricevuto tutte le mie cose, come le cartoline da Firenze e Venezia, quando ci sono andato in gita da Padova. Quella sarà la fine del mio libro sui Nomadi.


Ieri qui è arrivato Tasa e si è deciso così: andrò a pensione in un hotel, ospite di chi di competenza, e là puoi venire anche tu. Per ora penso che questa sia la soluzione migliore. Senza preoccupazioni. Ossia per prima cosa penseremo alla tua salute. Da quanto mi hai scritto sull’opinione del medico inglese, tutti pensano che sia qualcosa che molte donne hanno. In ogni caso non allarmarti. Sii coraggiosa come sei stata.

Dall’hotel sceglieremo l’appartamento. Organizza il tuo arrivo in modo che cada possibilmente fra il 10.9 e il 15.9, e parti quando ti avviso.


In questo Paese c’è tutto, e gli elettrodomestici non sono peggio di quelli tedeschi. Siccome nell’appartamento avremo tutto ciò che desideriamo, penso che, se proprio la vuoi, dalla Germania devi ordinare solo la macchina da cucire (se vuoi anche il frigorifero). Tutto il resto penso che si debba ordinare a Belgrado, proprio perché il voltaggio sia come a Belgrado. I Prica qui hanno avuto molte seccature con gli apparecchi elettrici che hanno portato. Ma tutte queste sono piccolezze.

Per quel che riguarda i bagagli, getta via tutto il superfluo, perfino le copie dei miei manoscritti sugli Espatriati, se ci sono. L’importante è che arrivino gli originali. Questa è la cosa più importante. Non spedire più lettere. I ritagli li ricevo anche qui. Sono venuti giornalisti, fotografi, fuss, il solito trambusto pubblicitario. Domani a proposito del mio arrivo esce su “Politika” un grande articolo da parte di Vasa Popović che è venuto qui, mandato da “Politika”, con una fotografia. Sciocchezze.

Prenota il posto sull’aereo per le date suddette, ma puoi sempre scegliere una bella giornata. Consiglio la data di cui sopra, ma puoi decidere anche in altro modo. Non prima del mio telegramma. Ti verremo a prendere all’aeroporto.

Ho molti amici, qui, più di quanti pensassi. Tuttavia, come per gli attori del cinema, la famiglia si è fatta viva e fa pressioni, anche quando famiglia non è. E devo prepararti anche a questo, che anche tu avrai delle sorprese, non solo belle, da parte della famiglia, da quel che sento dire di loro. Tutto questo si chiama comédie humaine. Tieni sotto controllo la pressione e fatti una risata.

Riceverò all’inizio un discreto compenso, ma in quanto ospite, il denaro mi è poco necessario. Al posto tuo, se ha dei risparmi, li lascerei là in banca, tanto sarà facile farli trasferire una volta che sarai arrivata.


Leggi attentamente questa lettera e un’altra volta i miei consigli. Le nostre cose sono già da Prica, ma mi dicono che neppure questo occorreva, perché riceveremo tutto. In ogni caso cerca di capire che la nostra vita sta cambiando, e anche se ogni futuro umano è, sempre, ignoto, credi nella tua stella. L’importante è che ci amiamo e che governiamo con freddezza la nostra piccola barca.

Ricordati della nostra barca di Versailles. Ti adora, il Tuo Crnjanski

(traduzione dal serbo­croato di Alice Parmeggiani)

 

2 COMMENTS

  1. Bellissima recensione sul tema dell’esilio. Parigi forse sarebbe stata piú accogliente. Gli esiliati? Altro portato della seconda guerra mondiale. Ma di nuovo siamo in un altro altrove. Ora e da quanti anni tocca al Medio Oriente dove un Assad…..soccorre(!!!!!) i curdi turchi…coi milioni di prfughi siriani fuggiti da Assad….Cose,appunto, turche. E poi i barconi dalla Libia…..Sempre il tema dello sradicamento…..Un non finire, non finire…..
    Ma grazie per queste pagine,

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ha pubblicato uno studio di teoria del romanzo L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo (2003) e la raccolta di saggi La confusione è ancella della menzogna per l’editore digitale Quintadicopertina (2012). Ha scritto saggi di teoria e critica letteraria, due libri di prose per La Camera Verde (Prati / Pelouses, 2007 e Quando Kubrick inventò la fantascienza, 2011) e sette libri di poesia, l’ultimo dei quali, Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, è apparso in edizione italiana (Italic Pequod, 2013), francese (NOUS, 2013) e inglese (Patrician Press, 2017). Nel 2016, ha pubblicato per Ponte alle Grazie il suo primo romanzo, Parigi è un desiderio (Premio Bridge 2017). Nella collana “Autoriale”, curata da Biagio Cepollaro, è uscita Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016 (Dot.Com Press, 2017). Ha curato l’antologia del poeta francese Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008 (Metauro, 2009). È uno dei membri fondatori del blog letterario Nazione Indiana. È nel comitato di redazione di alfabeta2. È il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.