47: morto che parla
di
Marilisa Moccia
Nota di lettura per Detti di cyop&kaf (Monitor edizioni)
Le cose famigliari succedono,
e gli uomini non se ne preoccupano.
Richiede una mente davvero insolita
intraprendere l’analisi dell’ovvio.
A.N. Whitehead.
È uscita il 2 novembre, puntuale come una ricorrenza, la seconda edizione, arricchita con nuovo materiale fotografico, di Detti. Viaggio tra i soprannomi del popolo napoletano, a cura di cyop&kaf.
Preceduto da una breve nota introduttiva dell’autore, Detti è un libro che raccoglie 353 manifesti funebri, 160 in più rispetto alla prima edizione, con una caratteristica comune: la presenza di un epiteto apposto sotto al nome secolare del defunto.
Ora, se l’oggetto rappresentato (il manifesto funebre), il suo contenuto (un soprannome talvolta di difficile decifrazione per il lettore) o perfino la smania classificatoria e la suddivisione in tipologie dei manifesti e i nomi stessi di queste (mestieri, corpi, anime, passioni, latitudini, appartenenze, misteri, scambi e minimi) possono indurre il lettore alla risata, la categoria dell’umorismo, seppur lecito, non è mai suggerita.
Ciò che colpisce di Detti è il metodo etnografico con cui questo lavoro viene portato avanti: la registrazione fotografica, attraverso –immaginiamo- passeggiate a caccia di quella seconda pelle dei muri cittadini che il manifesto funebre diventa, non si accompagna con nessuna lettura. Il grande rimosso della cultura occidentale, viene qui esposto senza compiacimento né ostentata ricerca di un mitico orizzonte di napoletanità perduta. Gli autori non spiegano e soprattutto non emettono giudizio. Come a dire che il medium – la fotografia che si fa catalogo di umanità- basta a se stessa.
Era già successo. Se ne ricorderà chi ha familiarità con il lavoro poliedrico di cyop&kaf. Nel film Il Segreto (2013) si ricostruiva la pratica del Cippo ‘e Sant’Antuono e la rivalità tra gruppi di adolescenti dei Quartieri Spagnoli per procacciarsi alberi di natale da incendiare il 17 gennaio. Anche nel film il regista non interveniva e, come nella migliore tradizione documentarista, la narrazione si costruiva intorno ad eventi che solo nel finale si organizzavano attorno a un epicentro di senso. L’affinità con Detti è evidente. Nessun folklore, nessuna suggestione interviene a mediare la fruizione delle fotografie, né dell’oggetto libro: il lettore è solo davanti alle immagini.
Nome e identità
L’identità del defunto è stabilita sì dal nome anagrafico ma i congiunti, la comunità dei pari, sentono la necessità di designarlo nel manifesto funebre anche col nome da essi stabilito, come a suggerire che il primo da solo non basta. È il soprannome a creare identità. Quell’identità interiorizzata nel corso della vita, breve o lunga poco importa, attraverso il processo di socializzazione, come nelle società arcaiche, in cui il nome coincide con il senso: nomen omen et nomen vita est. Così i defunti con i loro “detti” talvolta eredità familiari, restano nella memoria dei vivi che li hanno nominati fornendo loro, attraverso il nome, un orizzonte di senso.
Sono i vivi che nominano e creano tutte le cose. E sono ancora i vivi a detenere la memoria, non del defunto ma della sua vita e sono le biografie il vero mistero che piacerebbe cogliere dietro ciascun detto.
Vita dunque. 353 volte vita e mai, mai morte in questo libro.