Roma 1970
di Davide Orecchio
Avresti perso perché amavi la casa? Non si combatte il fascismo con la domesticità. Ma non sapevi fermare il tuo diventare borghese, che avanzava ogni anno come una malattia, come il tempo. Quindi anche questo era accaduto a te e al tuo partito, che col tempo non vi proletarizzavate, la profezia era smentita, siete andati nella direzione contraria, verso la proprietà delle cose. Ma gli operai di occidente cosa desiderano? Restare proletari oppure la proprietà delle cose? Te lo chiedevi nell’appartamento di Monte Mario, acquistato col prestito dell’ente giornalisti italiani. Nel quartiere della Balduina. Un piccolo regno di vecchi e nuovi fascisti. Qui i laterizi erano cresciuti sul monte come l’acne sul volto di un adolescente. Avevano colori sbiaditi dall’ocra all’avorio, e forme quadrate di geometria povera (di spirito). Ma ti adattavi alla vita e restavi comodo in questo cemento. All’ultimo piano della palazzina di edilizia cooperativa. Con l’ascensore. Col televisore Brionvega in soggiorno. Con lavatrice e lavastoviglie prese a rate dal fornitore compagno. Con lo studio e il terrazzo. Col bagno e il bagnetto.
Avevi la moquette rossa e il parquet (nella stanza da letto). I termosifoni di ghisa scaldavano poco, ma le pareti si annerivano del loro calore. Gli infissi di legno e le finestre di vetro magro non riparavano dal freddo d’inverno. Ma in primavera curavi la vite americana e l’alloro, il gelsomino e il limone. Hai preso due gatti e gli hai costruito una casa di lamiera in terrazzo. I due certosini si accoppiano e figliano. Sono prolifici. Erano i tuoi proletari. Sistemavi la prole presso colleghi e compagni. Non lasci orfani. Non abbandoni gattini.
Non pensavi troppo alla rivoluzione, a meno che tu non fossi in vena di storie fantastiche. Ogni tanto ti tornava la vena di storie fantastiche. Tra un racconto di James e uno di Poe, tra uno scritto di Lenin e uno di Gramsci. Avevi riempito la casa di libri. Con le tue sigarette ustionavi dappertutto i ripiani: venivano le macchie piccole nere come polpastrelli di carbone con la pancia all’insù, create dai mozziconi che scordavi sugli scaffali. Anche la poltrona comoda davanti al televisore ogni tanto sui braccioli si brucia. La usavi come luogo di meditazione. O forse di assenza. Fumi, bevi il tuo whisky a buon mercato allungato con l’acqua. Dimenticavi l’incandescenza e la cenere. Pensavi. Ma non so a cosa pensi. Forse a tuo figlio e a tua moglie in Sicilia. Forse alla vita che era arrivata a metà. Forse pensavi al partito comunista italiano. Forse pensavi al fascismo che torna.
Hai il conto aperto dal macellaio. Ordini la carne tritata per cuocerti le polpette e l’hamburger. Prepari anche le fettine panate, ammollate due volte nell’uovo e nel pane grattato. Lo stipendio era buono perché serviva solo per te. Non hai la patente. Esci e aspetti un autobus verde, che poi cavalcherà la discesa del viale sinuoso che abiti, fino a piazzale degli Eroi, fino al centro. È un viale interminabile e ripido. È l’arteria e la vena del monte. Ma quello che preferisci è il tassì, che ti porta in fretta alla redazione di via dei Taurini, tra l’università e San Lorenzo, dove il giornale s’è spostato da più di dieci anni. Anche il sabato sera prendi il tassì. Uscivi a cena con F.C. Come due scapoli, come due innamorati. F.C. non ha più la voce per via di un tumore alla gola. Ma non ha perso la voglia di cenare con te. A piazza Farnese, al ristorante La Carbonara. Coi supplì, con la cacio e pepe, col filetto al sangue.
Hai detto al diario: mangio troppi supplì e ho paura. Hai detto al diario che Roma «è sovraffollata per l’esodo di tutti i meridionali». Hai detto che ci sono i lumpen: «ex braccianti e contadini poveri sono passati all’edilizia col boom: questa è l’unica classe operaia». Hai detto al diario: «poi ci sono gli artigiani e i bottegai», poi «c’è l’enorme burocrazia parassitaria». Un milione di persone abita «in grotte, baracche e case malsane. Poi c’è l’enorme legione dei pendolari burini». Hai detto al diario che non si trovano soldi per «acqua, fognature, impianti di depurazione, ambulatori, ospedali, asili nido, scuole, impianti sportivi». Ma nascono case su case «e i romani si comprano l’auto. Centoventisei mila macchine nuove nel sessantanove. Ma ne esistevano già ottocento sessanta mila. In cambio: mortalità infantile paurosa nelle borgate». Hai detto al diario: «in Italia esistono tre milioni di bambini subnormali». Cosa intendevi con “subnormali”? Denutriti, non allattati, non curati, analfabeti? Hai detto al diario che Roma fa schifo. Potresti tornare in Sicilia da V. e M.? Non puoi. E non potrai più nella vita. Devi accontentarti di Roma.
Avresti perso perché avevi paura? Sognavi atti fascisti. Immaginavi il ritorno di Mussolini. Lui era morto ma le sue parole rientravano. In libreria hai trovato un volume pieno delle sue regole: “Citazioni. Manuale delle guardie nere”. Mussolini tornava a parlare. Hai letto: “per i fascisti la violenza non è un capriccio, è un deliberato proposito”. Hai letto che è “una necessità chirurgica”. Hai letto: “per me la violenza è profondamente morale, più morale del compromesso, della transazione”. “Per me”, per Mussolini, la sua voce di nuovo: la riconosceresti anche se si camuffasse nella voce di Gandhi. È lui. Indelebile. Nella tua coscienza. Ancora nei libri e nelle vetrine. “Per me, un deliberato proposito, la violenza è morale”. Per questo avevi paura e ti chiudevi nel letto. Mettevi le calze di lana. Vedevi le bombe e il macello. E ti accontentavi di Roma.
(da un lavoro in corso)